"I cieli di Philadelphia" di Liz Moore (NNE, traduzione di Ada Arduini)


In questi ultimi mesi di chiusure, restrizioni, autocertificazioni lo spaccio e il consumo di sostanze non si sono mai fermati. Solo i cretini avrebbero potuto pensare il contrario. Anche durante il lockdown più pesante bastava avere l'occhio attento quando si usciva di casa per scorgere spacciatori e consumatori o leggere gli articoli di cronaca sui giornali, in particolari quelli locali, su arresti e sequestri di sostanze per accorgersi che nulla era cambiato. Forse soltanto mimetizzato ancora di più. Dalle mie parti ha fatto scalpore la morte di due giovanissimi morti per un mix letale di sostanze e alcool ma numerosi sono stati i sequestri di droga, arresti, segnalazioni di consumatori in cerca di una dose. Ma quando sei in astinenza e hai bisogno di farti, hai voglia di cancellare tutto il dolore, hai voglia di sballarti, il tuo corpo è scosso dai tremori le provi tutte pur di poterti procurare la roba. Non puoi fare altro.

Quando sono stato nel carcere di Lecco con la delegazione del Partito Radicale ho raccolto testimonianze di vite segnate dall'abuso di droga e da tutto ciò che comporta vivere una vita segnata dalla droga: arresti, debiti, overdose, furti, violenze, famiglie distrutte, corpi segnati dalla malattia. Molti di loro erano uomini delle mie parti, dei miei paesini di provincia. Ed è stato difficile trattenere le lacrime e anche la rabbia mentre li ascoltavo.

Ho pensato spesso ai detenuti del carcere di Pescarenico e a tante altre persone che ho conosciuto nella mia vita mentre leggevo il duro e commovente “I cieli di Philadelphia” di Liz Moore (NNE, traduzione di Ada Arduini).

Difficile collocarlo in un genere preciso questo romanzo che fonde elementi noir, thriller, di saga familiare, critica sociale ma di sicuro ha il pregio di offrire uno squarcio memorabile e implacabile sull'epidemia drammatica di morti per sostanze (eroina/Fentanyl) in corso negli Stati Uniti e nel resto del mondo Le cifre sono spaventose e se avete il coraggio e la voglia di leggere alcuni articoli, visionare alcuni video presenti in rete e studiare alcuni dati vi sarà impossibile rimanere inermi di fronte a questa vera e propria catastrofe sociale. Altra grande qualità di questo romanzo è il suo impianto: una narrazione fisica e scevra da facili ideologismi e costruita su una catarsi senza deflagrazioni da miracolo patinato e che non ha paura di affrontare il marcio che cova dentro le forze di polizia statunitensi.

È un affresco politico e sociale che prende alla gola perché il talento di cui è dotata permette a Liz Moore di incidere sulla pagina ciò che significa vivere in un ambiente segnato dall'abuso di sostanze e dalla violenza come quello dove sono cresciute e vivono le due indimenticabili sorelle protagoniste: una agente di polizia e l'altra una tossica. Cosa significa essere cresciuti in famiglie disastrate e segnate dai lutti. Fa sentire nella carne il respiro della vita dei quartieri di Philadelphia che giorno dopo giorno si trasformano in luoghi inospitali, difficili da comprendere, complicati, quasi dei territori di guerra e lo fa sempre senza mai scadere nel patetico o in inutili moralismi restituendo con squarci realistici d'impeccabile rigore stilistico gli odori, i colori, i sapori della quotidianità di chi si fa e vende il proprio corpo in cambio di una dose, di chi viene abusato e scaricato in mezzo alla strada, di chi cerca giorno dopo giorno di aiutare queste persone, di chi gira per strada per combattere il crimine, di quanto sia difficile prendere le scelte giuste quando si finisce in questo turbine totalizzante che travolge tutto e tutti e che si carica di segreti, negazioni, promesse sempre disattese e di desideri di riscatto quasi mai ascoltati, compresi, custoditi, valorizzati.

Un romanzo sul significato della parola perdono che ci aiuta a ricordare che tutte queste donne che si vendono per strada in cambio di una dose, che muoiono, che restano incinta hanno un nome e un cognome, una storia, una valanga di sogni, uno borsetta e dei tacchi a spillo pieni di parole mai pronunciate e che ci invita ogni volta che percorriamo queste nostre strade a non voltare lo sguardo quando le vediamo ingobbite in un angolo per l'astinenza o arrivare disperate in cerca di un po' di moneta. Guardiamole in faccia. Guardiamole negli occhi. Guardiamo i loro corpi. Proviamoci. Almeno una volta. Perché sono persone come tutti noi. Ricordiamocene. Hanno un nome. Un cognome. Non sono merce di scarto. Non sono vite avariate.

Tredici anni fa, quando ho cominciato, succedeva due o tre volte all'anno: qualcuno segnalava un'overdose letale, e la persona in questione era morta da così tanto che non era nemmeno necessario l'intervento dei medici. Più comuni erano le segnalazioni di overdose in corso e in genere si trattava di individui che era possibile rianimare. Di questi tempi, invece, capita spesso. Solo quest'anno, in città stiamo per toccare quota milleduecento, e la maggior parte è nel nostro distretto. Quasi tutte le segnalazioni riguardano overdose abbastanza recenti. Altre, cadaveri che hanno già cominciato a decomporsi. Certe volte sono state malamente nascosti da amici o amanti che hanno assistito al decesso ma non vogliono farsi tutta la trafila della denuncia e rispondere alle domande su com'è accaduto. Più spesso li troviamo fuori, all'aperto, in qualche angolo protetto in cui si sono assopiti per sempre. A volte sono le famiglie a trovarli per primi. Magari i figli. Altre volte tocca a noi: mentre siamo di pattuglia, li vediamo sdraiati a gambe larghe oppure ingobbiti, e quando li controlliamo ormai non c'è più polso. Sono freddi. Anche d'estate.” (pag. 21)

(Street Halo)

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