"Le transizioni" di Pajtim Statovci (Sellerio, traduzione di Nicola Rainò)

Tutti quanti vogliono vedere immagini di persone che sorridono per il successo, radiose di contentezza, gente che vive in un mondo bello come da nessuna altra parte, gente mai sfiorata nemmeno con un dito dall'amarezza. Tutti vogliono sentire di una persona così, di un vincitore che ha abbattuto tutti gli ostacoli sulla sua strada, di una casalinga che ha perso sessanta chili, di un immigrato clandestino che ha preso la laurea in medicina, di senzatetto che si sono rimessi in piedi e hanno trovato casa e lavoro. È questo che spinge la gente ad aprire il giornale, sono queste le notizie che ci portano a provare di nuovo, una volta e un'altra ancora, ci fanno urlare più forte, ci fanno volere sempre di più, finché un giorno potremo vederla la vetta, il mondo intero delle dimensioni di una biglia nel palmo di una mano, il volto di dio stesso. Prima che sia il momento di ricominciare tutto da capo.” (pp. 130-131)

Mi sono sentito sempre uno straniero in patria. Italiano di nascita, brianzolo/lecchese/legnanese ma straniero sempre da quando ho capito che non era mia l'identità condannata sulla carta d'identità. Mi sono sempre sentito un estraneo a me stesso, al mio corpo, alla mia famiglia, al mio paese. Ovunque sono stato ho vissuto l'insofferenza per me stesso e per i luoghi che stavo visitando. Il piacere della scoperta evaporava come una sigaretta. Una vita disperata alla ricerca di un inesistente luogo dove poter vivere. Di un corpo che riuscissi a sentire mio. Di un volto che non mi facesse paura.

Da quando lavoro in Svizzera mi sono dovuto prostrare di fronte al mantra delle origini. Del permesso da conquistate, mostrare, rinnovare. Rinchiuso dentro la prigione della provenienza, del lavoro, dell'utilità. Ogni giorno a dover rispondere su questa o quell'altra specifica identità italica, provinciale, locale, culinaria. Ogni giorno a combattere per smarcarmi dalla definizione di maschio che mi circonda come filo spinato da sempre. E poi, una volta tornato nel tanto decantato paesello felice, sentirmi trasformato in frontaliere, miracolato, fortunato, privilegiato. In quello che ha a che fare con la Svizzera e che allora è pieno di soldi, ha svoltato, "non sta come noi", "è al sicuro", "ha il lavoro garantito".

Mentre leggevo lo splendido romanzo di Pajtim Statovci “Le transizioni” (Sellerio, traduzione di Nicola Rainò), dal sapore classico e dalla scrittura densa e salina, ho ripensato spesso a Anja, una mia collega croata al cinema, che mi ripeteva fra un caffè e un cesso da pulire che molti suoi connazionali che vivono in Svizzera acquistano BMW, Mercedes o le macchine più incredibilmente tamarre per poi raccontare, quando tornano a casa, di vivere vite incredibili, di uscire tutte le sere per ristoranti e locali, di custodire milioni di franchi in banca, di vivere in case da favole. Di avere trovato l'America nelle periferie dell'Impero. Bidoni e carcasse di macchine, magari pure con leasing gravosi, e tutto per sfoggiare di fronte a parenti, concittadini, genitori, sconosciuti uno stile di vita incredibile condito da racconti da Mille e una notte. Stessa cosa per molti portoghesi e thailandese e vietnamite che lavorano e hanno lavorato con me al cinema: lavori umili, vite di rinunce e servitù ma la stessa smania di mostrare a colpi di franchi e macchine fiammanti di aver svoltato nella vita. La stessa vergogna di non esserci riusciti che si mescola al culto del denaro e della scalata sociale. Un mix che produce risultati spesso grotteschi e che nasconde tante sofferenze.

“Le transizioni” forse non racconta di questo o forse anche sì: racconta di un ragazzino albanese, Bujar, che dopo il crollo della dittatura comunista cerca fortuna in Europa e che trascorre una vita intera a rincorrere il proprio corpo, la propria identità sessuale, sé stesso, perdendosi in infinite transizioni pur di trovare il proprio spazio nel mondo dall'Italia alla Spagna, da New York alla Finlandia, da Tirana a Tirana.

Ma chi è Bujar? Un amante, aspirante cantante, finto attore, suicida, amico, ascoltatore, fratello bambino, figlio, uomo, madre, assassino, donna, ragazzino, voce, aquila bifronte? Cosa? Chi? Ci sono pagine strazianti come quando Bujar racconta della propria relazione col padre morente, col fratello o toccanti come la ricerca di successo in un format musicale come trans, fino ad arrivare al ritorno a casa da una madre alla deriva che è una vera e propria devastante esplosione catartica.

Alla fine della storia si comprende l'essenza dello spirito degli albanesi: il dolore di una madre è talmente forte da riportare un figlio, e gli albanesi possono levarsi dalle tombe pur di mantenere una promessa. Quando ascoltai questa storia la prima volta, a spaventarmi furono il cavallo e tutta quella violenza, ma quando la sentii la seconda volta, in una versione in cui i fratelli erano nove invece di dodici, e un'altra ancora in cui la famiglia abitava in città invece che in campagna, capii che i dettagli non erano importanti, che ognuno raccontava la storia come voleva, aggiungendo arbitrariamente tutti i particolari che facevano al caso. Per chi raccontava la storia l'importante era l'ossatura del racconto, quel nobile messaggio sull'umanità, ma per me la parte più indimenticabile era quella miriade di dettaglia, il nitrito del cavallo, i colori, la polvere sull'armatura di Costantino, il buio fitto della notte senza luna, la casa della vedova con un solo lume acceso alla finestra, il viso segnato dal dolore di una madre che piange per la figlia, e un uomo che risorge dal regno dei morti per poi tornare in seno alla terra.” (pag. 120)

Pagine dilanianti che mi hanno messo i brividi, commosso, messo a nudo e scosso dentro perché quando morirà mio padre o andrà all'ospizio non avrò più una casa dove potermi rifugiare, perché non ho una famiglia, non ho soldi e a 41 anni fatico ancora a capire chi sono, qual è il mio corpo, di chi è quel viso e ci sono giorni che mi viene molto facile diventare quello che vogliono gli altri: un figlio devoto, un bravo lavoratore, un amico speciale, un blogger, un compagno, uno che ti scopa perché sa ascoltarti, uno che scompare in fretta, uno che ti viene a trovare all'ospedale, uno che ti viene a pulire casa, un fratello che ricorda ogni cosa.

O forse semplicemente sono solo rimasto quel bambinetto che si sdraiava con la sua adorata madre sul letto e si addormentava ascoltandola mentre mi raccontava di streghe, fantasmi, draghi e uomini che uscivano dal fiume regalandoci medicine per dimenticare tutto l'orrore che starà sempre dentro di noi.


(Heads Will Roll)

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