"Nostalgia di casa" di George Moore (Mattioli 1885, a cura di Silvia Lumaca)





Non sapevo nulla dello scrittore irlandese George Moore (1852 - 1933) prima di leggere i sette racconti racchiusi nella, come al solito splendida cornice, “Nostalgia di casa”(Mattioli 1885, traduzione di Silvia Lumaca) e di aver letto l'introduzione ultranecessaria di Silvia Lumaca.

Non mi capitava da tempo di leggere dei racconti così intrisi di nostalgia, rancore, astio anti religioso (il primo racconto “Di Creta” è un inno di liberazione) e sorretti da uno stile incredibilmente preciso, moderno, pungente come questi di George Moore.

Sembrano delle punture di spillo ma che fanno un male cane. Delle frustate. Stiamo parlando di uno scrittore morto nel 1933 e, tanto per dire, mi è capitato negli ultimi tempi che quando mi son messo a parlare dei Sonic Youth mi son beccato dell'anziano rompicoglioni. Non è che non ci siano degli elementi un po' da ragnatela ma sono racconti che ho divorato letteralmente perché ancora oggi nel 2020 non hanno perso nulla della loro bellezza immediata, delle sfumature nascoste in ogni frase, e auspico che tanti altri racconti di questo autore vegano al più presto tradotti e pubblicati.

Racconti moderni, spiazzanti che mi hanno colpito nel profondo e suggestionato forse perchè pure io vivo in un presente che è sempre stato rivolto al passato mescolato a un Oggi costruito su un ossigeno di nostalgie e sogni di colonizzazioni di Marte e galassie varie che valgono poco o nulla.

Sette racconti da gustare lentamente, da rileggere, da riascoltare quasi.

Racconti d''Irlanda (che bella l'Irlanda ma che rottura di coglioni anche tutti questi castelli, conventi, imamgini oleografiche da farci i sonnellini), Stati Uniti, celti, fame, cristianesiamo, paure, bigottismo, matrimoni forzati, conventi, fughe, mucche, laghi, arte, Parigi, Rinascimento (questi racconti sono un atto d'amore rivolto all'Italia).

Sette racconti che sembrano scritti per quelli come me che non hanno un luogo dove vivere ma che non riescono a non tornare nei luoghi dove sono nati e cresciuti ma che non appena ci tornano devono subito scappare via perché si sentono senza fiato. Sono un inno alla libertà creativa che non si assoggetta ai dogmi, alle ideologie, alle “linee guida” di rinascita e alla religione ma che non riesce a fare a meno delle emozioni semplici, delle piccole cose, degli sguardi, degli incontri, di un lago, di un ballo, di un campo.

Sette racconti.

Punto.


Non credo nei cattolici. Il cattolico si inginocchia come il cammello per essere caricato dei suoi fardelli. Sai bene quanto bene, Harding, che l'arte e la letteratura del quindicesimo e del sedicesimo secolo, sono state possibili grazie a un'improvvisa dispersione dei pregiudizi e delle convenzioni del Medieovo; il Rinascimento fu un gioioso ritorno all'ellenesimo, la sorgente di ogni bellezza. In Irlanda manca il libero amore così come manca il libero pensiero; gli uomini hanno smesso di interessarsi alle donne, e le donne di interessarsi agli uomini. In Irlanda prosperano solo il celibato, i preti, le suore, e le vacche. Non si può praticare lo scettiscismo, e i preti si scagliano contro ogni tipo di trasgressione dei sensi. Una ragazza può solo sposarsi subito o diventare una suora – una ragazza libera è qualcosa di pericoloso. Non ci si può corteggiare, non si può passseggiare insieme, e la passione, che è la diretta ispirazione di tutta la musica e di tutta l'arte del mondo, è ridotta al mero atto procreativo.” (“La via del ritorno”, pag. 151)

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