"La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico" di Judith Butler (Nottetempo, traduzione di Federico Zappino)

 

Un estratto dall'interessante e ricco di spunti della filosofa Judith Butler "La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico" (Nottetempo, traduzione di Federico Zappino):

“La forza dell'anima che aveva in mente Ghandi non poteva essere scissa da una presa di posizione fisica, da un modo di vivere nel corpo e di persistere, specialmente in condizioni in cui la propria persistenza è minacciata. E continuare a esistere anche in condizioni di repressione delle relazioni sociali costituisce la più grande minaccia al potere violento. La connessione della pratica nonviolenta con una forza e una resistenza che si distinguono dalla violenza distruttiva e si manifestano nelle alleanze solidali di resistenza e persistenza corrisponde al rifiuto della categorizzazione della nonviolenza come debolezza e inutile passività. Il rifiuto non è la stessa cosa dell'inazione. Lo sciopero della fame rifiuta di riprodurre il corpo del prigioniero ed è rivolto ai poteri carcerari che minano le condizioni di esistenza del detenuto. Lo sciopero può non sembrare una forma di “azione”, eppure esso afferma il proprio potere sottraendo il lavoro essenziali alla perpetuazione di forme di sfruttamento capitalistiche. Anche la disobbedienza civile può sembrare una semplice forma di “rinuncia”, eppure esprime un giudizio pubblico sull'ingiustizia su cui si fonda l'ordinamento giuridico, e prevede dunque la capacità di esprimere un giudizio extragiuridico. Allo stesso modo, violare una recinzione o un muro costruito per dividere le persone costituisce un'affermazione extragiuridica della libertà eccede i termini posti dall'ordinamento vigente. E boicottare un regime politico che continua imperterrito a esercitare un dominio coloniale intensificando le forme di espropriazione, di deportazione e di violazione del diritto di proprietà per un'intera popolazione significa affermare a gran voce che quel regime è ingiusto e che non si intende riprodurne gli aspetti criminali come se nulla fosse. Se una pratica nonvolenta non intende riprodurre le logiche belliche che operano distinzioni tra vite che vale la pena preservare e vite considerate invece dispensabili, deve sposare apertamente una politica egualitaria. Ciò rende necessaria una forma di intervento nella sfera dell'apparizione – i media e tutte le permutazioni contemporanea della sfera pubblica – per affermare che ogni vita è degna di lutto, ossia meritevole di vivere e meritevole della propria vita. Rivendicare la dignità di lutto per ogni vita non è che un modo per dire che tutte le vite dovrebbero essere in grado di persistere nel proprio vivere senza essere soggette a forme di violenza, di abbandono sistematico o di distruzione militare. Per contrastare lo scheme letale e fantasmagorico che troppo spesso giustifica la violenza delle polizia contro le comunità non bianche, la violenza militare contro i migranti e la violenza di stato contro chiunque pratichi il dissenso, abbiamo bisogno di un nuovo immaginario – un immaginario egualitario che tenga conto dell'interdipendenza tra le vite. Per alcuni tutto ciò è solo irrealisticio e inutile, certo, ma è anche possibile che si tratti proprio di un modo di porre in essere un'altra realtà, non fondata sulle logiche strumentali e sulla fantasmagoria razzista che riproduce la violenza di stato. L' “irrealtà” di un simile immaginario, a dirla tutta, non è che la sua forza. Non si tratta semplicemente del fatto che in un mondo diverso ogni vita verrebbe trattata in modo paritario rispetto alle altre, o che ogni vita avrebbe l'uguale diritto di vivere e prosperare – benché entrambre queste possibilità siano certo desiderabili. Si tratta di qualcosa di più. Si tratta di dire che “ogni vita”, fin dall'inizio, è nelle mani di un'altra persona, è una vita sociale e dipendente, benché non disponga di risorse adatte a comprendere se questa dipendenza necessaria alla vita sia in sé una forma di sfruttamento o di amore.

Ma in ogni caso, non abbiamo bisogno di amarci a vicenda per impegnarci ugualmente in vincoli significativi di solidarietà. La possibilità di una facoltà critica, e forse della critica stessa, è legata a doppio nodo alla possibilità di una preziosa relazione solidale tra persone che condividono la soggezione a forme simili di oppressione, in cui i nostri “sentimenti” navigano sull'ambivalenza che li costituisce. Possiamo sempre crollare – ecco perché lottiamo per stare insieme. Solo così abbiamo la possibilità di una forma critica di persistenza comune: quando la pratica nonviolenta diventa il desiderio per il tuo desiderio di vivere, un modo per dire hai la dignità di lutto, la tua perdita è intollerabile, voglio che tu viva, voglio che tu desideri vivere, quindi prendi questo mio desiderio e considerato tuo, perché se è tuoi allora è anche mio. L' “io” non fa tutt'uno col “tu”, eppure senza di esso resta impensabile – privo di mondo, insostenibile. Che siano la rabbia o l'amore ad animarci – l'amore pieno di rabbia, il pacifismo militante, la nonviolenza colma di aggressività, la persistenza radicale -, ciò che speriamo è di vincolarci reciprocamente alla vita e al vivente, memori di coloro che non ci sono più, e di dimostrare la nostra persistenza anche nel dolore e nella rabbia, lungo il cammino scosceso e tormentato dell'azione collettiva all'ombra della fatalità.” (pp. 269-272)

 

(If We Make It Through December)

 

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