NESSUNO TOCCHI CAINO - TRUMP HA FATTO DELL’AMERICA UNO STATO-CAINO: MAI COSÌ TANTE ESECUZIONI IN DUE SECOLI

NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS

Anno 20 - n. 49 - 26-12-2020

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : TRUMP HA FATTO DELL’AMERICA UNO STATO-CAINO: MAI COSÌ TANTE ESECUZIONI IN DUE SECOLI
2.  NEWS FLASH: APPELLO DI REPRIEVE, IHR E NTC: IL GOVERNO ITALIANO NON FORNISCA SUPPORTO ALLA PENA DI MORTE IN IRAN
3.  NEWS FLASH: KAZAKISTAN: VERSO LA RATIFICA DEL SECONDO PROTOCOLLO OPZIONALE
4.  NEWS FLASH: COREA DEL NORD: CAPITANO DI PESCHERECCIO GIUSTIZIATO PERCHE’ ASCOLTAVA RADIO FREE ASIA
5.  NEWS FLASH: GIAPPONE: NUOVO PROCESSO PER IL PRIGIONIERO DA PIÙ TEMPO AL MONDO NEL BRACCIO DELLA MORTE
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :


TRUMP HA FATTO DELL’AMERICA UNO STATO-CAINO: MAI COSÌ TANTE ESECUZIONI IN DUE SECOLI


Sergio D’Elia su Il Riformista del 25 Dicembre 2020

È raro che nel corso del mandato un presidente degli Stati Uniti non faccia, ognuno a suo modo, rivivere l’eterna promessa del sogno americano di una migliore qualità della vita, di maggior benessere e sicurezza sociali, successo e felicità individuali. Se è vero come è vero che la civiltà di un Paese si misura anche dal modo in cui teniamo le carceri e trattiamo i detenuti, il presidente Trump ha reso agli americani l’opposto del sogno, della qualità e della felicità della vita americana: nella pena ha dato la morte, con l’odio ha generato la paura, al malessere ha aggiunto un supplemento di dolore. Della terra promessa Trump ha fatto l’impero del male.
La pena di morte federale tramite iniezione letale e la morte per contagio in tutti i luoghi di pena statali, hanno connotato l’ultimo anno di una presidenza che ha letteralmente avvelenato la vita democratica, politica e civile americana. Quest’anno, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un presidente ha fatto giustiziare più persone di tutti i 50 stati della federazione. Negli ultimi cinque mesi, l’amministrazione Trump ha messo a morte dieci prigionieri federali, il dato più alto dal 1896 quando governava il Presidente Grover Cleveland, mentre sono state effettuate solo sette esecuzioni a livello statale, il dato più basso in 37 anni.
Prima di quest’anno, non c’erano state esecuzioni federali negli Stati Uniti dal 2003 e solo tre detenuti federali erano stati giustiziati da quando la pena di morte federale è stata ripristinata nel 1988. “Nessun presidente nel 20° o 21° secolo prima di questo ha presieduto esecuzioni a due cifre in un anno solare”, ha detto Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center.
Non c’è solo la pena di morte “legale”, c’è anche la morte “di fatto” che incombe nei luoghi di pena a causa della pandemia che ha invaso le prigioni statali e federali dove le persone si ammalano molto più che fuori. Anche perché non in tutte le prigioni i detenuti sono testati e non tutti gli ammalati vengono curati. Un prigioniero statale e federale su cinque negli Stati Uniti è risultato positivo al coronavirus, un tasso più di quattro volte superiore alla popolazione generale, ha reso noto il 18 dicembre l’Associated Press e il Marshall Project, un’organizzazione non governativa che si occupa del sistema di giustizia penale. Secondo il rapporto, sono stati infettati almeno 275.000 prigionieri e più di 1.700 sono morti, mentre la diffusione del virus dietro le sbarre non mostra alcun segno di rallentamento.
Donte Westmoreland, 26 anni, è stato recentemente rilasciato dal carcere di Lansing in Kansas, dove ha contratto il virus mentre era detenuto per possesso di marijuana. “Era come se fossi stato condannato a morte”. Westmoreland ha vissuto con più di 100 detenuti in un dormitorio aperto dove al mattino si svegliava accanto a uomini malati stesi sul pavimento, incapaci di alzarsi da soli. “Uno spettacolo spaventoso,” ha detto Westmoreland che dopo aver sudato, tremato nella sua cuccetta per sei settimane si è finalmente ripreso. La metà dei prigionieri del Kansas, circa 5.100 persone, è stata infettata da COVID-19, otto volte il tasso di casi tra la popolazione complessiva dello stato. Undici prigionieri sono morti, di cui cinque nella prigione in cui era detenuto Westmoreland.
In Arkansas, dove più di 9.700 prigionieri sono risultati positivi e 50 sono morti, quattro su sette hanno avuto il virus, il secondo più alto tasso di infezione carceraria negli Stati Uniti. Tra i morti c’era Derick Coley, un detenuto di 29 anni che stava scontando una pena di 20 anni nel carcere di massima sicurezza di Cummins. Cece Tate, la sua ragazza, gli ha parlato l’ultima volta il 10 aprile quando le ha detto che mostrava i sintomi del virus. “Mi ci è voluta un’eternità per ottenere informazioni.” Il 20 aprile la prigione le ha finalmente detto che Coley era risultato positivo al virus. Meno di due settimane dopo, un cappellano della prigione l’ha chiamata per dirle che era morto. La coppia ha avuto una figlia che ha compiuto nove anni a luglio. Ha pianto e ha detto: “Mio padre non può mandarmi un biglietto di auguri… Mamma, il mio Natale non sarà più lo stesso.”
Donald Trump ha superato ogni limite e misura anche a rischio di portare lo stato di diritto americano al suo rovescio. Nessuno nel ventesimo e nel ventunesimo secolo ha ecceduto quanto lui. Nei cinque suoi ultimi mesi da Presidente ha quasi svuotato il braccio della morte federale di Terre Haute e ha cercato di compiere la macabra opera di sgombero anche dopo la sconfitta elettorale. Non ha liberato i condannati a morte, come hanno fatto in questi anni molti governatori statali – democratici e repubblicani – che hanno stabilito moratorie o abolito la pena capitale. Li ha fatti fuori dopo diciassette anni di sospensione delle esecuzioni federali. Dopo venti o trent’anni di attesa nel braccio della morte, li ha messi in croce sul lettino dell’iniezione letale. Erano due secoli che un presidente non ne ammazzava così tanti in pochi mesi.
Trump ha poi dato a suo modo un contributo allo sfoltimento della popolazione carceraria che conta quasi due milioni e mezzo di persone – il record mondiale di detenuti per numero di abitanti! Dando il cattivo esempio, ha lasciato che il coronavirus dilagasse anche nelle carceri dove in dieci mesi ha mietuto oltre 1.700 vite.
Nel nome di Abele, Trump ha fatto dell’America uno Stato-Caino. Ha ucciso il sogno americano e condannato gli americani tutti, non solo quelli nel braccio della morte, a vivere da testimoni e vittime di un incubo mortifero, avvinti tutti nella catena perpetua del delitto e del castigo, prigionieri tutti della logica allopatica con la quale si pretende di curare il male con un male eguale e contrario.


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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

APPELLO DI REPRIEVE, IHR E NTC: IL GOVERNO ITALIANO NON FORNISCA SUPPORTO ALLA PENA DI MORTE IN IRAN

Le organizzazioni Reprieve, Iran Human Rights e Nessuno tocchi Caino esprimono profonda preoccupazione per la promessa del governo italiano di fornire supporto antidroga al governo iraniano, dato l'elevato rischio che questo sostegno si traduca in condanne a morte per presunti autori di reati di droga.
Le Organizzazioni hanno quindi rivolto il 21 dicembre un appello al Ministro degli Affari Esteri italiano Luigi Di Maio affinché riveli quale assistenza il governo italiano stia attualmente fornendo all'Iran in questo settore, e confermi che non verrà fornita ulteriore assistenza fino a quando il governo iraniano non abolirà definitivamente la pena di morte per i reati legati alla droga.

“Gentile Ministro Di Maio,

Le nostre organizzazioni sono profondamente preoccupate per la promessa del governo italiano di fornire supporto antidroga al governo iraniano, dato l'elevato rischio che questo sostegno si traduca in condanne a morte per presunti autori di reati di droga. È particolarmente preoccupante che il sostegno dell'Italia alle operazioni antidroga iraniane sia stato promesso nello stesso mese in cui l'Iran ha confermato 50 condanne a morte per droga in una sola prigione.
La esortiamo a confermare che l'Italia non procederà con questa assistenza fino a quando l'Iran non abolirà definitivamente la pena di morte per reati legati alla droga.
Il governo italiano ha storicamente assunto la posizione più forte possibile contro la pena di morte, e le nostre organizzazioni hanno lavorato a stretto contatto con il Ministero degli Affari Esteri italiano per sostenere molte persone che devono affrontare la pena di morte all'estero. Recentemente, nel mese di settembre, avete ospitato un evento presso l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per celebrare l'introduzione della risoluzione biennale per una moratoria universale sull'uso della pena di morte.
Nelle vostre osservazioni a quell'evento, avete confermato che:
"L'Italia rimarrà pienamente impegnata a sostenere la campagna internazionale per una nuova moratoria universale sulla pena di morte, in vista della sua abolizione nel mondo... una campagna che riguarda i diritti e la dignità di ogni essere umano".
Data questa forte opposizione pubblica alla pena di morte, la scorsa settimana ci siamo allarmati nel leggere sul Tehran Times che il governo italiano si è impegnato a espandere il proprio sostegno ai raid iraniani contro la droga, incursioni che abitualmente portano alla condanna a morte e all’esecuzione degli imputati. Nello specifico, il Tehran Times ha riferito che:
“Dopo un incontro con l'ufficiale di collegamento della polizia antidroga italiana Salvatore Labarbera, il capo della polizia antidroga iraniana Majid Karimi ha annunciato che il livello di cooperazione tra i due Paesi sarà rafforzato e incrementato. L'incontro si è tenuto in Iran il 3 dicembre, durante il quale Labarbera ha sostenuto l'idea di estendere il livello di cooperazione esistente e ha sottolineato la necessità di combattere gli stupefacenti anche a livello internazionale".
Se l'Italia procede nel fornire assistenza diretta contro il narcotraffico alle operazioni antidroga iraniane, ciò comporterà inevitabilmente condanne a morte per presunti autori di reati di droga.
Secondo una ricerca di Iran Human Rights, il governo iraniano nel 2019 ha giustiziato almeno 30 persone accusate di reati di droga.
I tribunali iraniani continuano a emettere un gran numero di condanne a morte per reati legati alla droga, e proprio ieri Iran Human Rights ha riferito che sono state confermate le condanne a morte di 50 imputati per droga detenuti nella prigione centrale di Urmia.
In passato, ricerche condotte dalle nostre organizzazioni hanno ampiamente documentato e criticato il modo in cui l'assistenza al governo iraniano nella lotta al narcotraffico sfocia in operazioni il cui esito finale sono le esecuzioni degli arrestati.
Il rapporto di Reprieve "European Aid for Executions" ha stabilito come sia stato potenziato il sostegno agli sforzi dell'Iran per la "riduzione dell'offerta", inclusa l'assistenza per strutture, la formazione specialistica, la fornitura di
cani per il rilevamento di droghe e la fornitura di attrezzature come body scanner e occhiali per la visione notturna ha aiutato la polizia iraniana ad eseguire centinaia di arresti che hanno generato condanne capitali.
L'evidenza che l'assistenza europea rischia di consentire esecuzioni iraniane ha portato molti governi europei a rifiutare tali aiuti. I paesi che, su questa base, hanno rifiutato di fornire assistenza alle operazioni antidroga iraniane includono Germania, Austria, Danimarca, Irlanda e Norvegia. La volontà dell'Italia di fornire assistenza antidroga al governo iraniano è in netto contrasto con la posizione di principio assunta da altri governi europei.
Le nostre organizzazioni hanno molto rispetto per la posizione che l'Italia ha assunto nell'opporsi alla pena di morte nel mondo, ed è nostra speranza che, alla luce dei recenti sviluppi, il vostro governo seguirà i colleghi governi europei nell'impedire che il suo supporto nella lotta alla droga venga utilizzato per ordinare esecuzioni.
Chiediamo rispettosamente di rivelare quale assistenza il governo italiano sta attualmente fornendo all'Iran in questo settore, e che confermiate che non verrà fornita ulteriore assistenza fino a quando il governo iraniano non abolirà definitivamente la pena di morte per i reati legati alla droga.
Cordiali saluti,

Maya Foa, co-direttore esecutivo, Reprieve
Mahmood Amiry Moghaddam, fondatore, Iran Human Rights
Elisabetta Zamparutti, Tesoriera, Nessuno tocchi Caino”


KAZAKISTAN: VERSO LA RATIFICA DEL SECONDO PROTOCOLLO OPZIONALE

Il Consiglio Costituzionale del Kazakistan ha stabilito che non è necessario modificare la Costituzione per la ratifica del Secondo Protocollo Opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, relativo all’abolizione della pena di morte, ha riferito lo studio legale Azizov & Partners il 21 dicembre 2020.
Allo stesso tempo, il Consiglio Costituzionale ha rilevato che, dopo la ratifica del Protocollo Opzionale, il codice penale della Repubblica del Kazakistan dovrà essere allineato ai suoi requisiti.
Il capo dello Stato si era rivolto al Consiglio Costituzionale in vista della prossima ratifica da parte del Kazakistan del Protocollo Opzionale.
L'uso della pena di morte in Kazakistan è stato sospeso da un decreto presidenziale che nel 2003 ha introdotto una moratoria.
(Fonti: Azizov & Partners, 21/12/2020)
Per saperne di piu' :

COREA DEL NORD: CAPITANO DI PESCHERECCIO GIUSTIZIATO PERCHE’ ASCOLTAVA RADIO FREE ASIA

Le autorità della Corea del Nord lo scorso ottobre hanno giustiziato il proprietario di una flotta di pescherecci di fronte a 100 capitani di imbarcazioni e operatori del settore della pesca per aver ascoltato di nascosto le trasmissioni di Radio Free Asia e di altri media vietati quando usciva in mare, hanno detto fonti nordcoreane a RFA il 16 dicembre 2020.
Il capo dei pescherecci, che aveva preso l'abitudine di sintonizzarsi su trasmissioni dall'estero mentre era nell'esercito, avrebbe confessato di aver ascoltato i media finanziati dal governo degli Stati Uniti per più di 15 anni, dopo essere stato segnalato alle autorità da un membro dell'equipaggio, nella città portuale nord-orientale di Chongjin.
"A metà ottobre, il capitano di un peschereccio di Chongjin è stato fucilato dal plotone di esecuzione, con l'accusa di aver ascoltato regolarmente Radio Free Asia per un lungo periodo di tempo", ha detto al Servizio coreano di RFA un funzionario delle forze dell'ordine della provincia del Nord Hamgyong.
"Sappiamo che il cognome del capitano era Choi e che aveva tra 40 e 50 anni. Stava lavorando in una base per la pesca legata al Bureau Centrale 39 del Partito", ha detto la fonte, riferendosi all'organizzazione segreta incaricata di acquisire valuta forte e mantenere un fondo riservato per il leader Kim Jong Un.
“Choi era il proprietario di una flotta di oltre 50 imbarcazioni. Durante un'indagine del dipartimento di sicurezza provinciale, il capitano Choi ha confessato di aver ascoltato le trasmissioni di RFA dall'età di 24 anni, quando prestava servizio militare come operatore radio”, ha detto la fonte.
Il funzionario del Nord Hamgyong ha detto che Choi e i suoi subordinati nell'esercito si sintonizzavano regolarmente su RFA, quando Choi aveva passato i 30 anni.
“Dopo aver terminato il servizio militare, ha continuato ad ascoltare RFA. Dicono che ascoltare RFA gli portasse alla mente bei ricordi dei suoi giorni nell'esercito. Sembra anche che si illudesse che, poiché faceva parte della base per la pesca legata al Bureau 39, sarebbe stato immune da accuse penali, e questo sembra aver portato a pesanti conseguenze per lui", ha aggiunto la fonte.
“Sappiamo che il dipartimento provinciale di sicurezza ha definito il suo crimine come un tentativo di sovversione contro il Partito. Gli hanno sparato in pubblico nella base, davanti ad altri 100 capitani e responsabili degli impianti di lavorazione del pesce. Hanno anche licenziato diversi funzionari del partito, l'amministrazione della base e i funzionari della sicurezza che avevano permesso a Choi di lavorare in mare", ha concluso la fonte.
Un'altra persona, residente nella provincia, ha confermato a RFA che la notizia dell'esecuzione di Choi si è diffusa tra la gente.
"Durante le indagini, le autorità hanno scoperto che quando pescava in mari più lontani, ascoltava continuamente trasmissioni straniere", ha detto la seconda fonte.
Ha aggiunto che Choi era diventato più potente e ricco in quanto proprietario della flotta, divenendo prepotente nei confronti del suo equipaggio.
"Uno dei pescatori si è voluto vendicare per il comportamento arrogante e irrispettoso di Choi, così lo ha denunciato al dipartimento di sicurezza", ha detto la seconda fonte.
Choi avrebbe confessato durante le indagini di ascoltare continuamente le notizie del mondo esterno e la programmazione musicale di RFA.
"Le autorità di sicurezza hanno stabilito che non ci fosse più tempo per rieducarlo, quindi lo hanno mandato davanti al plotone di esecuzione", ha detto.
“È molto comune per le persone che lavorano sulle navi ascoltare le trasmissioni in lingua coreana, come RFA, tramite la strumentazione radio, quando escono in mare. Pertanto, sembra che le autorità abbiano fatto di Choi un esempio per avvertire tutti che ascoltare le stazioni radio estere significa la morte", ha concluso.
(Fonti: Radio Free Asia, 17/12/2020)


GIAPPONE: NUOVO PROCESSO PER IL PRIGIONIERO DA PIÙ TEMPO AL MONDO NEL BRACCIO DELLA MORTE

La Corte Suprema del Giappone ha confermato una sentenza che dispone un nuovo processo per il prigioniero da più tempo al mondo nel braccio della morte, ha detto il 23 dicembre 2020 un avvocato del detenuto 84enne.
Iwao Hakamada si trova nel braccio della morte da più di mezzo secolo, dopo essere stato riconosciuto colpevole di aver derubato e ucciso il suo capo, la moglie dell'uomo e i loro due figli adolescenti.
Hakamada sostiene di aver confessato il crimine dopo un brutale interrogatorio della polizia in cui subì percosse, e che le prove nel caso siano false.
Ha tentato di ritrattare la sua confessione, ma fu condannato a morte nel 1968, con sentenza confermata dalla Corte Suprema nel 1980.
In una rara retromarcia per il rigido sistema giudiziario giapponese, un tribunale distrettuale della città di Shizuoka nel 2014 ha accolto la sua richiesta di un nuovo processo.
Il tribunale distrettuale ha ammesso che gli investigatori potrebbero aver piazzato le prove e ha ordinato la liberazione dell'ex pugile, aggiungendo che sarebbe "insopportabilmente ingiusto" tenerlo recluso in attesa del nuovo processo.
I pubblici ministeri hanno allora presentato ricorso e hanno vinto presso l'Alta Corte di Tokyo, spingendo Hakamada a trasferire il caso alla Corte Suprema, che il 23 dicembre si è pronunciata in suo favore, disponendo il nuovo processo.
"La Corte Suprema ha deciso oggi di ordinare un nuovo processo ribaltando la decisione dell'Alta Corte di Tokyo che aveva respinto la richiesta di nuovo processo", ha scritto sul suo blog l'avvocato di Hakamada, Yoshiyuki Todate.
“Il fatto che un percorso per la ripresa di un nuovo processo non sia stato interrotto è molto positivo. Le mie mani stanno ancora tremando dopo aver sentito questo. Sono davvero, davvero contento."
I sostenitori di Hakamada dicono che quasi 50 anni di detenzione, per lo più in isolamento e con la continua minaccia di esecuzione, abbiano pesantemente compromesso la salute mentale del prigioniero.
In un'intervista alla AFP nel 2018, l'ex pugile ha detto di sentirsi "in combattimento ogni giorno".
(Fonti: AFP, 23/12/2020)

 

 

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