NESSUNO TOCCHI CAINO - LA TREGUA SAUDITA: ‘SOLO’ 27 TESTE MOZZATE
NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS
Anno 21 - n. 4 - 23-01-2021
Contenuti del numero:
1. LA STORIA DELLA SETTIMANA : LA TREGUA SAUDITA: ‘SOLO’ 27 TESTE MOZZATE
2. NEWS FLASH: SEI AI DOMICILIARI E CEDI HASHISH? TORNI DENTRO E BUTTANO LA CHIAVE
3. NEWS FLASH: EGITTO: 14 CONDANNATI A MORTE IN DUE CASI DISTINTI
4. NEWS FLASH: BIELORUSSIA: PROCESSO RIPETUTO E NUOVA CONDANNA A MORTE
5. NEWS FLASH: MISSISSIPPI (USA): FORMALIZZATO IL PROSCIOGLIMENTO DI EDDIE LEE HOWARD
6. I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :
LA TREGUA SAUDITA: ‘SOLO’ 27 TESTE MOZZATE
Nel 2020 è accaduto un piccolo miracolo. L’anno prima le decapitazioni
erano state ben 184. Le riforme del principe Mohammed bin Salman hanno
ridotto il potere dei fautori della legge del taglione.
Sergio D’Elia su Il Riformista del 22 gennaio 2021
Nel 2020 è successo un miracolo nella terra di Allah. Dopo essere stato
per anni uno dei carnefici più prolifici al mondo, l’Arabia Saudita si è
concessa una tregua. Ha tagliato meno teste: “solo” 27.
Di solito l’esecuzione avviene nella città dove è stato commesso il
crimine, in un luogo aperto al pubblico vicino alla moschea più grande.
Il condannato è portato sul posto con le mani legate e costretto a
chinarsi davanti al boia, il quale sguaina una lunga spada tra le grida
della folla che urla “Allahu Akbar!” (Dio è grande). A volte, quando il
reato commesso è considerato particolarmente brutale, alla decapitazione
segue anche l’esposizione in pubblico dei corpi dei giustiziati. È il
boia stesso a fissare la testa mozzata al corpo per poi farlo pendere
per circa due ore dalla finestra o dal balcone di una moschea o fissarlo
a un palo, durante la preghiera di mezzogiorno. Talvolta i pali formano
una croce, da cui l’uso del termine “crocifissione”. Benvenuti in
Arabia Saudita, dove regna la legge islamica dura e pura. L’unico paese
al mondo a mozzare la testa come metodo per eseguire sentenze capitali
in base alla Sharia. L’antico principio del Codice di Hammurabi, la legge del taglione, detta anche pena del taglio, nel Regno di Saud ha trovato la sua applicazione letterale.
Negli ultimi anni, l’Arabia Saudita, insieme a Cina e Iran, aveva sempre
conquistato il terribile podio dei primi tre Paesi-boia del pianeta,
piazzandosi sul gradino più basso, il terzo, ma pur sempre un posto non
invidiabile per chi ha a cuore i diritti umani e ritiene intollerabile
che nel terzo millennio vi siano ancora Paesi che per fare giustizia
lapidano, decapitano, impiccano, fucilano o avvelenano esseri umani.
Nel 2020 è successo un miracolo nella terra di Allah. Dopo essere stato
per anni uno dei carnefici più prolifici al mondo, il boia con la spada
si è concesso una tregua. Ha tagliato meno teste: “solo” 27, un numero
drasticamente ridotto dopo il “lavoro straordinario” compiuto nel 2019 e
nel 2018 con, rispettivamente, 184 e 144 teste mozzate.
Mentre l’omicidio, secondo l’interpretazione saudita della Sharia, è
compreso tra i reati “hudud” per i quali il Corano prevede
esplicitamente una pena inderogabile, la decapitazione, i reati legati
alla droga sono considerati “ta’zir”: il crimine e la punizione non sono
definiti nell’Islam, sono a discrezione del giudice. Ciò nonostante,
l’ideologia proibizionista ha sempre dato un contributo consistente alla
pena del taglio in Arabia Saudita.
Nel nome della guerra alla droga, negli ultimi anni sono state
effettuate decine e decine di esecuzioni. Sentenze discrezionali per
reati “ta’zir” hanno portato a condanne a morte irragionevoli. Molti di
coloro che sono stati giustiziati per droga erano spesso trafficanti di
basso livello provenienti quasi tutti dai Paesi poveri del Medio
Oriente, dell’Africa e dell’Asia. Avevano poca o nessuna conoscenza
dell’arabo e non erano in grado di comprendere o leggere le accuse
contro di loro in tribunale.
Spesso non sapevano di essere stati condannati a morte e, in molti casi,
neanche che il loro processo si era concluso. Alcun di loro hanno
potuto capire ciò che gli stava accadendo solo all’ultimo momento,
quando le guardie hanno fatto irruzione nella cella, hanno chiamato la
persona per nome e l’hanno trascinata fuori con la forza per portarla
sul luogo dell’esecuzione. Nel 2020, invece, le decapitazioni per droga
sono state “solo” 5, avvenute tutte a gennaio, prima dell’entrata in
vigore di una nuova legge, emanata per decreto reale come di solito
accade, che ordina l’interruzione di tali esecuzioni.
L’anno scorso il Regno saudita ha anche abolito la pena di morte per
crimini commessi da minori e ha ordinato ai giudici di porre fine alla
pratica della fustigazione pubblica, sostituendola con il carcere, multe
o servizi di pubblica utilità. Dietro questi cambiamenti, v’è
sicuramente il principe ereditario Mohammed bin Salman che, nel suo
tentativo di modernizzare il Paese, attrarre investimenti stranieri e
rinnovare l’economia, ha guidato una serie di riforme che riducono il
potere dei wahhabiti ultraconservatori, fautori di una rigida
interpretazione dell’Islam.
«La moratoria sui reati legati alla droga significa che il Regno sta
dando una seconda possibilità ai criminali non violenti», ha detto la
Commissione saudita per i diritti umani, per la quale il cambiamento
rappresenta un segno che il sistema giudiziario saudita si sta
concentrando sulla riabilitazione e sulla prevenzione piuttosto che
esclusivamente sulla punizione.
Secondo Human Rights Watch, la diminuzione delle esecuzioni è un segno
positivo, ma le autorità saudite devono anche fare i conti con un
«sistema di giustizia penale orribilmente ingiusto».
Mentre le autorità annunciano le riforme, i pubblici ministeri sauditi
chiedono ancora la pena di morte nei confronti di oppositori politici
per nient’altro che le loro idee pacifiche, i giudici continuano a
condannarli a morte e l’uomo con la spada li attende davanti alla
moschea più grande per staccargli la testa tra le grida della folla che
urla “Allahu Akbar!”.”
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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH
SEI AI DOMICILIARI E CEDI HASHISH? TORNI DENTRO E BUTTANO LA CHIAVE
È successo a Luca: ora per tre anni non potrà accedere alle misure
alternative anche se gli manca solo un anno da scontare. Il tipo di
reato non conta. Questi automatismi sono assurdi e riempiono le carceri.
Simona Giannetti* su il Riformista del 22 gennaio 2021
Oggi gli istituti penitenziari scoppiano di detenuti e il covid continua
la sua diffusione anche se, numeri alla mano, la vulgata persino tra i
magistrati sarebbe quella per cui in carcere in fondo si sta più sicuri
che da liberi. “Tranquillo è morto in galera”, si usa dire tra le celle.
Una cosa è certa: servono misure deflattive decise. Questo va detto,
visto che nei fatti sono molti i detenuti a cui è vietato accedere alle
misure alternative anche con pene lievi, a causa delle ostatività ancora
presenti nel nostro ordinamento penitenziario.
Luca, 32 anni e detenuto definitivo, si trova nel carcere milanese di
San Vittore: condannato per possesso di hashish con la finalità dello
spaccio, ha commesso il reato mentre si trovava in detenzione
domiciliare per lo stesso motivo. Luca usa hashish e l’ha ceduto. E qui
la nota dolente: c’è una norma, l’art 58 quater, che stabilisce che chi
commette un reato mentre si trovi in esecuzione di misura alternativa,
non vi possa più accedere per i successivi tre anni. Senza distinzione
di tipo di reato o di condanna da scontare. Si tratta dunque di un
automatismo: eppure la Corte Costituzionale ha scritto – anche in tema
di ergastolo ostativo – che gli automatismi sono da considerare
irragionevoli e comunque contrari al significato rieducativo della pena.
Niente misure per tre anni: questo nemmeno se in carcere si realizzasse
il miglior percorso di rieducazione possibile; e nemmeno se la pena da
scontare fosse di sei mesi. Nel corso della detenzione Luca, a cui manca
poco più di un anno da scontare, ha perso il padre in modo inaspettato. Subito dopo ha scoperto che la compagna era in gravidanza.
Tutto ciò ingenerato una volontà di rottura con il passato. In carcere
funziona cosi, si chiama trattamento penitenziario: ogni cosa che fa il
detenuto calcola la misura della sua personalità, da come reagisce a una
brutta notizia a come si comporta nelle attese delle risposte alle sue
richieste; tutto viene scritto in una relazione, che arriva sul tavolo
del magistrato per consentire una decisione individualizzata. Con
l’automatismo, nessuno scampo: la domanda di misura alternativa è
inammissibile, anche se la relazione è la migliore possibile.
Oltre a vanificare il concetto di finalità rieducativa della condanna,
il divieto automatico finisce di fatto per pregiudicare quelli come
Luca, che hanno una pena da scontare al di sotto dei tre anni. L’unico
modo per uscire di cella è essere tossicodipendente certificato e
accedere all’affidamento terapeutico. Il punto è che nelle carceri del
bel Paese di detenuti come Luca ce ne sono tanti e non tutti sono
tossicodipendenti. “Se rompi la misura, buttano la chiave”, questo è il
mantra. Se fossimo in una favola di Fedro gli insegnamenti sarebbero
due. La detenzione di hashish è ancora un reato destinato a riempire le
carceri e a non svuotarle: è qui che risiede la necessità di
legalizzazione delle droghe leggere nell’ottica deflattiva delle celle e
di alleggerimento del carico giudiziario, anche per togliere alla
criminalità organizzata quel mercato illegale da cui trae vantaggio
economico. Il secondo insegnamento riguarda le ostatività del regime
penitenziario, c
he finiscono col non garantire che una condanna, anche di poco meno di
due anni, venga svolta fuori dal carcere. “Se si esclude radicalmente il
ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per
relegare nell’ombra il profilo rieducativo. L’ha detto la Corte
Costituzionale già nel 2006. Insomma, sarebbe ora che anche questo
divieto assurdo e irragionevole trovasse il suo posto nell’angolo delle
illegittimità costituzionali. E non dimentichiamo che versiamo in stato
d’emergenza da quasi un anno, ma forse solo nel mondo dei liberi visto
che automatismi come quello raccontato impediscono pure di applicare, in
un’ottica deflattiva del sovraffollamento, la legge 199 del 2010, che
consentirebbe di far eseguire in detenzione domiciliare condanne al di
sotto dei 18 mesi di carcere. Il condizionale è d’obbligo, visto che i
recenti interventi governativi emergenziali sono andati nella direzione
opposta, aggiungendo l’imposizione dei braccialetti elettronici. E cosi le carceri continuano a scoppiare anche di covid, oltre che di persone.
*membro del Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino
EGITTO: 14 CONDANNATI A MORTE IN DUE CASI DISTINTI
Quattordici persone sono state condannate a morte in Egitto in due diversi casi, ha riportato Egypt Today il 19 gennaio 2021.
I primi otto imputati sono stati condannati a morte dal tribunale penale
di Assuan per aver ucciso un agente di polizia in uno scontro a fuoco
nel 2018, durante un tentativo di arresto.
Il capitano Abdelrahman al-Sirafy faceva parte di una squadra la cui
missione consisteva nell'arrestare un certo numero di criminali nel
villaggio di Fatira, nei dintorni della città di Kom Ombo.
Quattro degli imputati sono stati condannati in contumacia, mentre un
nono è stato condannato a 15 anni di reclusione in quanto "minorenne".
In un caso distinto, un tribunale penale nel governatorato di Sharqia ha
condannato a morte sei persone per aver ucciso dei poliziotti nel 2016,
emettendo anche sette condanne detentive.
Gli imputati erano accusati di aver formato una cellula terroristica e di aver ucciso e tentato di uccidere poliziotti.
Erano anche accusati di aver condotto altre operazioni terroristiche per
aiutare il gruppo fuorilegge dei Fratelli Musulmani a raggiungere i
propri obiettivi nel Paese tentando di rovesciare il regime.
(Fonti: Egypt Today, 19/01/2021)
BIELORUSSIA: PROCESSO RIPETUTO E NUOVA CONDANNA A MORTE
Un tribunale bielorusso il 15 gennaio 2021 ha nuovamente condannato a
morte un uomo con l'accusa di omicidio, ha riportato il Centro per i
Diritti Umani di Minsk Viasna. "In un'udienza del tribunale svoltasi
nella città di Sluck [Slutsk], il Tribunale Regionale di Minsk ha emesso
una condanna a morte nei confronti di Viktar Skrundzik con l'accusa di
aver ucciso due persone anziane e aver tentato di uccidere una donna di
85 anni nel gennaio 2019”, è scritto nel comunicato del Centro.
Si tratta della prima condanna capitale emessa in Bielorussia nel 2021.
Altri due imputati nel caso sono stati condannati a 18 anni e 22 anni di
reclusione e un altro a un anno di lavoro correttivo, secondo il
Centro.
Skrundzik era stato inizialmente condannato a morte nello scorso marzo.
Aveva presentato appello contro il verdetto e la Corte Suprema a giugno
aveva annullato la condanna a morte rinviando il caso al Tribunale
Regionale di Minsk.
(Fonti: ANI/Sputnik, 15/01/2021)
MISSISSIPPI (USA): FORMALIZZATO IL PROSCIOGLIMENTO DI EDDIE LEE HOWARD
E’ stato formalizzato l’8 gennaio 2021 il proscioglimento di Eddie Lee
Howard, che viene iscritto con il n° 172 nella lista degli “esonerati”
che viene compilata dal Death Penalty Information Center, e che riporta i
casi dal 1973 ad oggi.
La “Innocence List” del DPIC comprende solo i casi di prosciolti dal
braccio della morte, perché ovviamente, come è fisiologico, le persone
prosciolte dopo una condanna, per omicidio o qualsiasi altro reato, sono
molte di più.
Il 27 agosto 2020 la Corte Suprema di Stato del Mississippi aveva
annullato 8-1 la condanna di Eddie Lee Howard, e oggi un giudice ha
formalizzato il fatto che la pubblica accusa ha preso atto di non avere
elementi sufficienti per ripetere il processo, ed ha fatto l’unica cosa
possibile in questa situazione: ritirare i capi di imputazione. Nel frattempo, in attesa della formalizzazione e con i tempi rallentati
dalle misure anticovid, Howard era già stato scarcerato, in una data che
i media non riportano se non, genericamente, “agli inizi di dicembre”. Howard, che ora ha 67 anni, nero, era accusato di aver violentato e
ucciso, nel febbraio 1992, un’anziana donna bianca, Georgia Kemp, 84
anni.
Venne arrestato perché vicino di casa della vittima, e con due
precedenti per reati sessuali. Venne condannato a morte nel 1994, al
termine di un processo in cui si era voluto difendere da solo. Nel 1997
la Corte Suprema di stato annullò la condanna a morte, ma al termine di
un nuovo processo, nel 2000, venne di nuovo condannato a morte. La
principale prova contro di lui è stato il segno di un morso rilevato sul
corpo della vittima.
In seguito Howard è riuscito a far effettuare test del Dna su diversi
reperti fisiologici. Nessuno dei nuovi test lo colloca sulla scena del
crimine.
Nel frattempo l’associazione professionale dei dentisti forensi
(American Board of Forensic Odontology) nel 2013 e 2016 ha modificato le
proprie linee guida, proibendo ai propri iscritti di giungere a
identificazioni di sospetti attraverso l‘analisi dei segni di morso. La
Corte Suprema aveva inoltre preso atto che lo stesso perito che aveva
testimoniato contro Howard, il dottor Michael West, era già stato
smentito in altri processi, compreso il proscioglimento di due detenuti
del braccio della morte, Kennedy Brewer e Levon Brooks.
Dichiarando inammissibile la prova del morso, e prendendo atto che i
test del Dna indicano un altro uomo, non identificato, la Corte aveva
disposto che il processo venisse ripetuto integralmente. La pubblica
accusa, privata degli elementi di prova che riteneva fondamentali, ha
deciso di ritirare i capi d’imputazione, uno dei requisiti necessari
perché un imputato venga definito, dal DPIC, “esonerato”, e cioè
formalmente innocente, e quindi anche con diritto a un risarcimento
economico.
In questa fase Howard è stato rappresentato da avvocati del Mississippi
Innocence Project e del National Innocence Project. Il direttore del
Mississippi Innocence Project, Tucker Carrington, ha definito l'esonero
di Howard "una vittoria agrodolce". "Siamo entusiasti che il signor
Howard avrà finalmente la sua libertà e una parvenza di giustizia", ha
detto Carrington, "ma ha perso quasi tre decenni della sua vita, ed ha
dovuto fronteggiare un’esecuzione perché il sistema non ha funzionato.
Il suo caso ci ricorda che c'è ancora molto lavoro da fare per sostenere
il signor Howard e altri come lui che hanno perso anni preziosi della
loro vita a causa di condanne errate".
(Fonti: DPIC, 08/01/2021)
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