"L'uovo alla kok" di Aldo Buzzi (Adelphi)
“Credo che Talleyrand sapesse inventare dei piatti anche senza l'aiuto del suo cuoco. La garniture Talleyrand, sublime condimento per i maccheroni – burro, formaggio (groviera e parmigiano), foie gras a dadini e tartufi – è una ricetta che per l'aurea semplicità e, insieme, la principesca ricchezza dei componenti non può che essere uscita dal suo cervello. I tartufi, in Francia, si trovano nel Périgord, Talleyrand si chiamava in realtà Talleyrand-Périgord, inoltre d'inverno, per ripararsi dal freddo, portava spesso una berretta a maglia di lana nera, con due lunghi copriorecchi che gli pendevano ai lati del viso come orecchie di un cane da trifola.” (pag. 34)
È stata mia sorella a regalarmi il delizioso “L'uovo alla kok” dello scrittore/sceneggiatore/architetto comasco Aldo Buzzi (Adelphi, pubblicato nel 1979 e tornato in libreria nel 2002 in nuova edizione riveduta e ampliata con quattordici disegni di Saul Steinberg) insieme a due belissimi portauovo con cucchiaino, anche se questi li userà quasi solo la mia compagna perché sin dall'adolescenza non riesco più a sopportare le uova, soprattutto l'odore (tutto dovuto a un virus che mi fece perdere quasi dieci chili in una settimana e da allora quando le vedo o ne sento l'odore mi torna alla mente il sapore di uova marce che mi portai in bocca per quasi sei mesi visto che avevo il fegato a pezzi).
Un libretto erudito e scritto da Dio, un ibrido perfetto fra libro di cucina, esercizio intellettuale, raccolta di racconti, dialoghi fulminanti, divagazioni inebrianti. Mi ci sono trovato perfettamente perché è un libro che parla di cucina alta e poverissima, di quei piatti ormai indigesti e introvabili (tipo il piccione ripieno e la mia famiglia materna teneva i piccioni in soffitta e mia madre ne andava ghiotta, così come mia madre incantava sempre sua suocera quando le cucinava il coniglio), di imperatori romani gozzoviglianti e crudeli, della mia amata Rodi col binomio Lindos/Avgolemono che ho ancora nel cuore, di decadenza dei sapori verso un'uniformità da supermercato/rassegne di cucina, della bellezza singolare di mangiare in una trattoria un piatto di spaghetti stracotti al ragù, di letteratura:
“Lo scrittore che non parla mai di mangiare, di appetito, di fame, di cibo, di cuochi, di pranzi mi ispira diffidenza, come se mancasse di qualcosa di essenziale. Cervantes fin dalle primissime righe del suo romanzo ci fa sapere cosa mangiava abitualmente Don Alonso Quejana, il futuro Don Chisciotte, nei sette giorni della settimana: a pranzo “una olla con più carne di vacca che di castrato, a cena quasi sempre un polpettone di carne o pesce, frittata con pancetta il sabato, lenticchie il venerdì e qualche piccioncino di rinforzo la domenica.” (pag. 35)
di Como, della Bassa, di trippa, della vecchia Milano (da lombardo ho trovato commoventi le parole sul risotto alla milanese), di piatti futuristi (non sono però d'accordo con Buzzi quando esprime un giudizio negativo su il Monumento aiCaduti di Como anche se mi auguro che nei prossimi anni tutto il lungolago di Como riacquisti quel fascino e quella dignità che la città si merita), di pastina in brodo da pensione, di spezzatino alla zurighese con rösti (ho imparato a cucinarlo dopo vari tentativi fallimentari). Un libretto agilissimo, per niente pesante e con delle fiammate di cattiveria che scaldano il cuore, quasi educativo e gonfio di ricette che stuzzicano il palato, tipo “Ostrica vegetale al burro” o con un bellissimo consiglio su come si può cucinare un ottimo uovo al tegamino (mia madre lo cucinava in questo modo e non sopportava mai che si dicesse che fosse un piatto semplice) o una frittata:
“L'uovo al tegamino è dato come un esempio di cucina facile, così facile che i libri di cucina di solito non ne parlano. Ma anche lui ha i suoi segreti. Va cucinato a fuoco basso, va versato non direttamente dal guscio ma da una tazzina: prima il solo bianco, trattenendo il tuorlo con un cucchiaio; poi, quando il bianco comincia a rapprendersi, lo si spruzza di sale e pepe e ci si versa sopra, in mezzo, il tuorlo, che così evita il contatto, troppo diretto e bruciante, col fondo del tegamino. La cottura va terminata col coperchio, così l'uovo cuoce (quel poco) anche sopra. Quando è pronto va servito su un piatto caldo per evitare che il calore del padellino lo faccia cuocere troppo. Un po' dell'olio d'oliva o del burro (schiuomoso) di cottura si possono aggiungere. Ma se si tratta di un uovo al bacon bisogna sollevarlo con una paletta forata, far gocciolare l'unto e trasportarlo asciutto sul piatto caldo. Se fare un uovo al tegamino è meno facile di quel che sembra, figuriamoci una frittata, un'omelette. Dice Raymond Oliver, proprietario dell'antico ristorante parigino Au Grand Véfour, il ristorante preferito di Colette: “Un'opera d'arte è sempre un'avventura: l'omelette non sfugge a questa regola”. (pp. 57-58)
Insomma, un vero e proprio gioiello poeticogastronomico questo libro.
Per chiudere: “Prosciutto cotto con l'ananas” è uno dei racconti brevi più belli che io abbia letto negli ultimi tempi.
Libro squisito, ne scrissi a suo tempo.
RispondiEliminaPienamente d'accordo con te.
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