"Vodka Siberiana. Lettere epiche e alticce" di Veronica Tomassini

 


Non lo cercare e perdona. Nemmeno da adulta riesci a recuperare. Torni la bambina scarmigliata, amatemi, vorresti urlare. Ma ti mettono al muro, oggi come allora, ti mettono al muro, ti inchiodano al silenzio, come quando eri bambina. Così la tua testolina è andata in tilt. Il tuo alter ego cattivo. Ti sei salvata, però. Ti salvi da sola, perché sei fatta di un'altra pasta, appartieni a una categoria superiore, sei una di quelle che non muore mai, che più muore, più non muore mai.” (pag. 63)

Ne faccio 42 quest'anno. E ne avevo solo 5 quando vidi al sicuro dentro a una bara il miglior amico di mio padre. Donato. Freddato da un tumore al fegato. 35 anni. Una vita bevuta a Martini. Me lo ricordo come un tormento sorridente. Perché durante il rito funebre vidi un rivolo di sangue uscire dalla sua bocca. Gli volevo un bene dell'anima. Era per me un angelo custode che mi teneva sulle ginocchia invitandomi a chiedergli cosa avrei voluto che lui disegnasse per me. Ero un bambino che già viveva di incubi e deliri. L'avevo già scampata bella. Troppo fragile sin nell'utero. Mia madre mi guardava con occhi consolanti. Lei che gli occhi li aveva di due colori diversi. Un rivolo di sangue. Marilena mi carezzò i capelli. Lunghi. Ancora biondi. Ero disperato. Il mio amico Donato forse era ancora vivo. Ci sto pensando dopo aver bevuto troppe birre da mezzo litro. Senza aver mangiato un cazzo. Perché poi quando poi parli di alcool si fatica a farsi capire. Ecco, c'è un ritmo sospensivo di coscienza che ho respirato splendidamente "Vodka Siberiana. Lettere epiche e alticce" l'ultimo romanzo (autoprodotto e per acquistarlo dovete scrivere direttamente all'autrice) di Veronica Tomassini, una delle migliori scrittrici italiane viventi. Leggeteli tutti i suoi romanzi e non fermatevi solo al suo folgorante esordio del 2010 "Sangue di cane". Quando crolli su te stesso senti le parole che si sciolgono in testa, che bruciano, che vivono, che scappano. Perché in fin dei conti è solo una conta.  Dei giorni. Dei bicchieri. Delle ferite. Delle scopate. Non ho nemmeno le parole per scrivere di questo libro. Perché ha il sapore di un bicchiere bevuto di prima mattina senza preoccuparsi troppo di cosa accadrà. Di ulcere, di fegato a pezzi, di fica, di cazzo. Perché ne hai bisogno di quel sapore. Perché potresti bere fino alla morte e ballare e innamorarti. Il sapore di una perdita. Mi ricordo di aver morso quella bara. O forse no. Tendo a raccontarmelo oggi. È tutto così semplice. Ma il ritmo, il respiro che si portano dietro le pagine di questo romanzo è quello del sangue che sale dallo stomaco mescolato alla bile, ai rimorsi, alle scelte sbagliate, al vomito, alle lacrime, alla bellezzha. È come se mentre lo stavo leggendo mi stessi ferendo le labbra. Ustionando la lingua. E l'amore brucia. Un bicchiere di birra con uno sconosciuto. Il primo è un bacio. La ferita di uno sguardo è l'abbraccio di un pugno. E vedi i parcheggi pieni di cadaveri. Dopo la caduta del Muro gli occhi si riempiono di cadaveri, tombe, galere. E vedo il parco che sfioro ogni giorno dove alle nove di mattina si fanno di strisce sui bordi di un bidone dell'immondizia, il sacchetto di birre stretto fra gli stivaletti di pelle, un borsone con i resti di un apparmento. È un mondo in rovina. Ma poi cosa sono le rovine? E ti vedi allo specchio a anni di distanza. Chi eri, chi sei, cos'hai fatto? E che rottura di cazzo trovare sempre un senso, una ragione, una via di fuga a questo mondo, a questa esistenza. Si nasce, si vive, si muore. Fine. Niente oltre tomba. Nessuna possibilità di essere perdonati, accettati, accolti. È un crollo che ti sta addosso. Perché poi quando leggo non so nemmeno dove sto andando. Ricordo ancora che prima di essere ricoverato in un ospedale per un coma etilico vidi il lago diventare una barca. Poi ero su una barella. Che mi incazzavo con sbirri, paramedici, me stesso. E sono ancora qui. In attesa di tornare a lavorare. Lavorare. Una miseria. Avevo promesso di non tornarci dentro. E ci sono tornato. In silenzio. E io non so ancora come riesce Veronica Tomassini a scrivere in questo modo. Un talento cristallino. Parole che si riempiono di queste panchine. Di questa violenza. Di questi parchetti sfasciati. Di queste case. Di queste distruzioni. Di questi corpi. Corpi. Cadaveri. Dipendenza. Fantasmi. Cazzo. Fica. Tanto tantissimo amore.

C'è un ritmo.

Un suono.

Che è indimenticabile.

Me lo sento nello stomaco.

In testa.

Sulle labbra.

Fra i denti.

Sulla lingua.

Fra le mani.

È stato bellissimo leggere Vodka siberiana.

Anche se la vodka mi ha sempre fatto schifo.

E non mi dispiacerebbe uccidermi di Martini come Donato.

O forse di libri.

O forse solo scomparire in una fossa comune.

O forse smettere di fare tutto e dormire per anni e anni risvegliandomi su una spiaggia.

 

"Ringrazia. Il siberiano sibila: figlio d'un cane. Torna a sedersi.

Li guardi.

Eccola, sopraggiunge la strana sensazione, è l'amore sovrumano, il sentimento che sovverte, la pietà. Sopraggiunge, lo sguardo sbalza, deraglia, finisce nel gran segreto, è lì che pulsa il cuore, il cuore che freme, lo stringi, sanguina, è vera carne pulsante.

La pietà.

Sei la veterana, oggi. Sopravvissuta a una guerra riflessa e combattuta. A tuo modo.

Un personaggio di Hlasko dice: "Non cercare di trovare a questa guerra ragioni che non esistono. È tutto qui".

"È tutto qui" è una risposta che userai nel tempo, fregiandoti di una sapienza articolata, non tua, sottratta al gergo dei profeti che avresti amato. I profetti delle panchine, li chiamerai, un giorno". (pag. 130)

 

(Il Booktrailer del romanzo)


(Anhedonia)

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