NESSUNO TOCCHI CAINO - ERGASTOLO OSTATIVO: NESSUNO TOCCHI CAINO, UN ALTRO PASSO VERSO IL DIRITTO ALLA SPERANZA

Nessuno Tocchi Caino News

Anno 21 - n. 16 - 17-04-2021

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : ERGASTOLO OSTATIVO: NESSUNO TOCCHI CAINO, UN ALTRO PASSO VERSO IL DIRITTO ALLA SPERANZA
2.  NEWS FLASH: VERITÀ PER MIMMO D’INNOCENZO, GIOVANE MORTO DA SOLO IN CELLA
3.  NEWS FLASH: L’ALBERO CHE I COLONI BIANCHI USAVANO PER IMPICCARE GLI AFRICANI DIVENTA MONUMENTO NAZIONALE IN ZIMBABWE
4.  NEWS FLASH: MYANMAR: ALTRE SETTE PERSONE CONDANNATE A MORTE DALLA CORTE MARZIALE
5.  NEWS FLASH: EMIRATI ARABI UNITI: OMICIDA EVITA L’ESECUZIONE GRAZIE AL PREZZO DEL SANGUE
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : IL PERIODICO DEI DETENUTI DI OPERA


ERGASTOLO OSTATIVO: NESSUNO TOCCHI CAINO, UN ALTRO PASSO VERSO IL DIRITTO ALLA SPERANZA 

Dichiarazione di Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem:

“Il fatto rilevante è che la Corte Costituzionale, a giudicare dal suo Comunicato stampa, ha considerato l’ergastolo ostativo contrario alla Costituzione italiana e alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Una decisione che si pone nel solco tracciato prima dalla Corte europea con la sentenza Viola contro Italia e poi dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza Cannizzaro-Pavone.
Anche questa pronuncia stabilisce quindi la fine della collaborazione con la giustizia come unico criterio per valutare il ravvedimento del condannato, il cambiamento del suo modo di pensare, di sentire e di agire. Ribadisce dunque l’incostituzionalità delle preclusioni assolute e degli sbarramenti automatici che, negli ultimi trent’anni, il regime italiano dell’antimafia ha disseminato nel percorso di reinserimento sociale delle persone condannate.
La parola è rimessa ora al Parlamento, come peraltro la stessa Corte europea indicava quale via preferenziale per affermare il diritto alla speranza e, quindi, riformare il sistema dei reati ostativi al reinserimento sociale dei detenuti.
La sfida è chiara. È stato stabilito un luogo e un tempo per trovare un compromesso impossibile tra una questione di diritto in linea di principio già risolta – l’ergastolo ostativo è incostituzionale! – e una questione di politica criminale – il contrasto alla criminalità organizzata – che i professionisti della lotta alla mafia vorrebbero risolvere ‘more solito’ con la terribilità di leggi speciali e misure di emergenza, pene senza fine e regimi penitenziari mortiferi.”
(Fonte: Nessuno tocchi Caino, 15/04/2021)


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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

"VERITÀ PER MIMMO D’INNOCENZO, GIOVANE MORTO DA SOLO IN CELLA"
Rita Bernardini su Il Riformista del 16 aprile 2021

Lo sappiamo, le morti in carcere non richiamano l'attenzione dei grandi media.
Così come siamo coscienti del fatto che se non ci fosse stata la determinazione e il coraggio dei genitori e della sorella di Stefano Cucchi, quella morte sarebbe stata relegata nelle cronache romane, sepolta tra le migliaia di notizie da dimenticare in fretta.
Oggi voglio parlarvi della morte di Mimmo D'Innocenzo, un giovane di 32 anni, avvenuta il 27 aprile del 2017 nel carcere di Cassino. Io ne sono venuta a conoscenza perché mi ha scritto la madre del ragazzo, disperata perché recentemente il sostituto procuratore, dott. Roberto Bulgarini Nomi, ha chiesto l'archiviazione di tutta la vicenda perché gli elementi emersi nel corso delle indagini non sono sufficienti per giungere ad una sentenza di condanna nell'ambito di un eventuale dibattimento. E allora vediamoli questi elementi “insufficienti”.
Mimmo è un ragazzo con un passato di assunzione problematica di sostanze stupefacenti, come ce ne sono a decine di migliaia in Italia. Io ritengo - e non sono sola a fare questa valutazione – che il carcere sia un luogo estremamente pericoloso per questo tipo di persone, le quali dovrebbero essere curate e aiutate ad uscire dalla tossicodipendenza che le porta non di rado a commettere reati collegati con la propria condizione. Accade purtroppo che il carcere sia invece la più probabile destinazione di questi ragazzi, i quali sovente vengono messi in isolamento aggravando così il loro stato psico-fisico.
Mimmo è morto in una cella di isolamento. Come è morto? Cosa è accaduto nella notte fra il 26 e il 27 aprile di quattro anni fa? Secondo i consulenti del Pubblico Ministero (medico legale e consulente tossicologico) Mimmo è deceduto per “insufficienza cardiorespiratoria conseguente ad intossicazione acuta da sostanze esogene di tipo stupefacente individuata dal tossicologo in Buprenorfina principale principio attivo del farmaco suboxone”.
Veniamo ai fatti. Abbiamo un agente di polizia penitenziaria che riferisce di aver accompagnato Mimmo D'Innocenzo in infermeria la sera tardi del 26 aprile: in tutte le deposizioni conferma sempre questa circostanza; lo fa nell'imminenza dei fatti, il 27 aprile del 2017; lo fa il 4 giugno del 2019 e il 14 luglio del 2020 quando viene posto a confronto con l'infermiera in servizio quella notte nel carcere. Abbiamo il medico e l'infermiera di turno i quali interrogati nell'imminenza del tragico decesso affermano all'unisono di “non ricordare” che Mimmo quella notte fosse stato condotto dall'agente in infermeria. Un vuoto di memoria a dir poco sospetto considerato il fatto che non debbano essere molti i detenuti che in orario serale vengono portati in ambulatorio. Vuoto di memoria che non può essere colmato dal registro di accesso all'infermeria dove vengono annotati tutti gli ingressi. Perché? Perché – combinazione - è scomparso proprio il registro del mese di aprile 2017! El
 emento “suggestivo” secondo il Pubblico Ministero che porterebbe ad “ipotizzare che tale accesso all'infermeria sia effettivamente avvenuto e che il registro sia stato sottratto al fine di eliminare prova documentale del medesimo accesso; ma, appunto, trattasi di meri elementi suggestivi che non consentono – scrive il PM – in assenza di ulteriori riscontri, di esercitare l'azione penale”. Ma andiamo avanti. Perché ci sono ancora due fatti da rilevare. Il primo: Mimmo aveva un recente buco da iniezione sul braccio, ma la siringa nella sua cella non è mai stata trovata. Il secondo: la telefonata fatta alla madre di Mimmo da un detenuto, ristretto nel carcere di Cassino nello stesso periodo. In data 29 gennaio 2021 questo detenuto confermava che quanto riferito nella telefonata fatta a suo tempo alla madre corrispondeva a realtà. Cosa aveva detto? “So come è andata con Mimmo, gli hanno fatto una puntura la sera prima che morisse, da quel momento è stato sempre peggio
  e poi è morto”.
Tutto ciò non meriterebbe un approfondimento in un processo penale? Gli “indizi” non appaiono chiari, precisi e concordanti? E' quanto ha chiesto la difesa della madre di Mimmo rappresentata dall'avvocato Giancarlo Vitelli opponendosi alla richiesta di archiviazione.
La madre di Mimmo non cerca il colpevole ad ogni costo, vuole semplicemente che siano accertate le responsabilità – penali, se ci sono – della morte di suo figlio. Sente di doverglielo anche perché suo figlio da detenuto era nelle mani dello Stato e lei non poteva fare niente per aiutarlo e, magari, salvarlo.
Ultima nota. Sono andata a vedere il dossier sulle morti in carcere aggiornato costantemente dalla meritoria associazione Ristretti Orizzonti. Dal 2000 ad oggi nelle carceri italiane sono morti 3.226 detenuti e 1.182 di questi si sono suicidati. Se si va a scorrere l'elenco si scopre che diversi di questi non hanno un nome semplicemente perché il nome non è venuto fuori né dalle istituzioni né dai mezzi di informazione. Nemmeno la morte di Mimmo fino ad oggi aveva un nome, c'era scritto così: Italiano. Nome, sconosciuto. Età, 32 anni. Data, 27 aprile 2017. Cause, da accertare. Carcere. Cassino.
Ciao Mimmo: forza Alessandra. E che la giustizia sia giusta anche per i dimenticati delle carceri.


L’ALBERO CHE I COLONI BIANCHI USAVANO PER IMPICCARE GLI AFRICANI DIVENTA MONUMENTO NAZIONALE IN ZIMBABWE
Elisabetta Zamparutti

Siamo abituati a pensare al monumento come ad una costruzione materiale, un edificio o un’opera d’arte. Penso invece che monumento sia tutto ciò che già esiste quando ha in sé la forza di evocare il passato, farci comprendere il presente e aprirci al futuro. Trovo allora esemplare l’idea del Ministro dell’Interno e dell’Eredità Culturale dello Zimbabwe, Cde Kazembe Kazembe, di considerare l’albero di Bulawayo, che i coloni bianchi usavano per impiccare gli africani, monumento nazionale. Questo albero si trova all’incrocio tra la First Avenue e la Masotsha Ndlovu, in quella che è la seconda città per importanza dopo la capitale Harare.
Il restyling cittadino che è arrivato fin qui con l’ordinaria sostituzione di piante esotiche a quelle autoctone ha subito una battuta d’arresto quando si è trovato di fronte a questo albero. E’ un Marula, una pianta che cresce solo dove decide lei, non la si può coltivare e viene ancora usata per le sue proprietà, venerata e preservata in tutto il continente africano. Ed è proprio a questo, che molti considerano il re degli alberi africani, che, durante la rivolta di Matabele, quella combattuta tra il 1896 e il 1897 dalla Compagnia Britannica del Sudafrica e dal popolo Ndebele, nove neri furono impiccati ai suoi rami, dopo processi sommari in tre casi per saccheggi, negli altri sei per spionaggio. Le esecuzioni avvennero in giorni diversi e i corpi restarono appesi all’albero che si trovava fuori dalle mura della città, a monito per tutti gli Ndebele ribelli.
Sulla stampa britannica dell’epoca, apparvero articoli, come quello pubblicato dal “Daily Graphic” il 13 giugno 1896, di nitida crudeltà. Veniva riportato che c’era un grande albero usato come forca e si spiegava come ci fosse stato “un buon raccolto, con sette Ndebele impiccati a cui poi se ne è aggiunto un ottavo…” e di come tutto questo fosse “un bel vedere”.
Un mese fa il Ministro Cde Kazembe Kazembe ha scritto al Consiglio comunale di Bulawayo per informarlo dell’intenzione di considerare l'albero un monumento
nazionale a memoria delle impiccagioni avvenute e come riconoscimento dell’importanza che quella rivolta ha avuto nell’ambito del processo di liberazione del Paese. Il Comune ha prontamente risposto al Ministro dicendo che “…non vi sono obiezioni alla richiesta di dichiarare il sito e l’albero come monumento nazionale. Questo contribuirà a preservare il sito che ha un grande significato politico e storico….”
Monumento deriva dal latino monere, un verbo che può significare ricordare, ammonire, predire.
Quell’albero è a tutti gli effetti un monumento: ricorda il dolore che come europei abbiamo portato in quelle terre; ammonisce a non praticare una giustizia che al male aggiunge altro male; predice una concezione della giustizia che rivitalizzi forme riparative, di cui è intrisa la cultura africana, che sappiano ri-conoscere, ri-conciliare e ri-comporre il tessuto sociale.
La notizia di questo albero ha richiamato al mio cuore quella parte della storia di Nessuno tocchi Caino che ci portava in giro per il mondo a cercare sostegni alla risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali e che ci ha condotti più volte proprio nello Zimbabwe. Ricordo l’incontro con Morgan Tsvangirai, che era stato leader del partito all’opposizione del dispotico Mugabe, il Movimento per il Cambiamento Democratico. Era il 2012 quando Tsvangirai, nel frattempo divenuto Primo Ministro, ci spiegò la sua contrarietà alle impiccagioni che considerava un “retaggio dell’era coloniale”. Lui stesso aveva rischiato la pena di morte quando era stato arrestato nel 2002 per tradimento e poi prosciolto nel 2004 dall’Alta Corte dello Zimbabwe. Storia analoga è quella dell’attuale Presidente Emmerson Mnangagwa, succeduto a Mugabe nel 2017, dopo aver rischiato di essere impiccato durante il governo dell’apartheid di Ian Smith, contro cui aveva combattuto.
 Nel 2018, nell’ambito di un’amnistia presidenziale rivolta a 3.000 detenuti, Mnangagwa incluse anche 16 condannati a morte che erano stati nel braccio della morte per almeno dieci anni.
Accade che solo vissuti così, di condannati a morte che poi diventano capi di stato, possano condurre a un cambiamento nella concezione della giustizia, che sappia guardare al futuro invece che pietrificarsi su fatti passati che pure sono incancellabili. A loro spetta il compito di liberare definitivamente il Paese dal regime coloniale attraverso l’abolizione di quella pena che dall’Europa è stata portata in Africa: la pena di morte.
Al Marula di Bulawayo il compito di conservare traccia di ciò che è accaduto per rievocarlo come stato di coscienza più elevato.


MYANMAR: ALTRE SETTE PERSONE CONDANNATE A MORTE DALLA CORTE MARZIALE
 
La televisione di stato del Myanmar ha riferito il 13 aprile 2021 che sette persone sono state condannate a morte dalla corte marziale per il loro ruolo nell'uccisione di una donna che avrebbe collaborato con i militari.
L'esercito ha intensificato la repressione nei confronti di chi nel Paese si oppone al suo governo, a seguito del colpo di stato di febbraio.
La scorsa settimana, altre 19 persone sono state condannate a morte dalla corte marziale per l'uccisione del collaboratore di un ufficiale dell'esercito a Yangon.
Per quanto riguarda l’omicidio dell’informatrice dei militari, i sette condannati avrebbero commesso direttamente o aiutato a commettere il crimine il 15 marzo, in una zona di Yangon dove è stata dichiarata la legge marziale.
La vittima avrebbe passato ai militari informazioni sui manifestanti e altri oppositori.
Nello stesso caso, altri diciannove imputati sono stati condannati da tre a sette anni di carcere. Le sentenze sono state emesse il 12 aprile.
Nelle aree in cui è stata dichiarata la legge marziale, i crimini ritenuti più gravi vengono giudicati dalla corte marziale, che può emettere condanne a morte. Non sono ammessi appelli.
Dal colpo di stato del 1° febbraio fino al 13 aprile, le forze di sicurezza hanno ucciso in Myanmar almeno 714 persone, secondo l'Associazione di Assistenza per i Prigionieri Politici, che monitora la situazione nel Paese del sud-est asiatico.
(Fonti: The Jakarta Post, 14/04/2021)


EMIRATI ARABI UNITI: OMICIDA EVITA L’ESECUZIONE GRAZIE AL PREZZO DEL SANGUE
 
La Corte d'Appello dell’emirato di Sharjah ha ridotto a sette anni di carcere la condanna a morte che era stata emessa nei confronti di un asiatico accusato dell’omicidio del suo compagno di stanza, ha riferito Khaleej Times il 14 aprile 2021.
L'imputato, che ha 34 anni, è stato anche ritenuto colpevole di aver tentato di uccidere il nipote della vittima e di aver consumato alcolici. La Corte ha inoltre ordinato che venga espulso al termine della sua detenzione.
La decisione della Corte è giunta dopo che la famiglia della vittima ha graziato l’omicida accettando 200.000 Dirham come prezzo del sangue.
Secondo le indagini della polizia, l'imputato avrebbe utilizzato un coltello da cucina per uccidere la vittima che dormiva nel suo letto.
Avrebbe anche aggredito suo nipote, provocandogli gravi ferite che hanno reso necessario il suo trasferimento in ospedale per le cure.
Il pubblico ministero aveva accusato l’imputato di omicidio premeditato e del tentato omicidio di una seconda persona per mezzo di un coltello. Il secondo omicidio sarebbe stato evitato grazie all’intervento di altri coinquilini.
(Fonti: Khaleej Times, 14/04/2021)


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I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA


IL PERIODICO DEI DETENUTI DI OPERA

Usa il link per leggere “In corso d’Opera”, periodico d’informazione del carcere di Opera pensato e scritto da persone detenute.
http://incorsodopera.altervista.org/

Commenti

  1. Io sono per l'ergastolo. Punto. Se fai qualcosa da ergastolo, non devi poter calcolare che poi lo sminuiranno. Devi agire sapendo che se ti beccano c'è l'ergastolo. Punto.

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    1. Ciao, rispetto la tua idea. So benissimo che quella che stiamo portando avanti, che per me è una lotta per la difesa dei diritti umani di tutti gli esseri umani, è una lotta antipopolare e avversata da un po' tutti. Da parte mia ti posso solo consigliare la visione di un bellissimo documentario che si intitola Spes Contra Spem: https://docufilmspescontraspem.it/

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