NESSUNO TOCCHI CAINO - BASTA GRIDARE ALLA MAFIA DOVE LA MAFIA NON C’È

NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS

Anno 21 - n. 25 - 19-06-2021

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : BASTA GRIDARE ALLA MAFIA DOVE LA MAFIA NON C’È
2.  NEWS FLASH: LA PROCEDURA DI SUPERVISIONE DELL’ESECUZIONE DELLA SENTENZA VIOLA DA PARTE DEL COMITATO DEI MINISTRI DEL CONSIGLIO D’EUROPA: UN’ULTERIORE OCCASIONE PER APRIRE UN DIBATTITO SUL SUPERAMENTO DEL REGIME DELL’ERGASTOLO CD. OSTATIVO
3.  NEWS FLASH: ARABIA SAUDITA: GIOVANE SCIITA GIUSTIZIATO PER AVER PARTECIPATO A RIVOLTA ANTI-GOVERNATIVA
4.  NEWS FLASH: ETIOPIA: RAGAZZO GIUSTIZIATO IN PUBBLICO IN OROMIA
5.  NEWS FLASH: EGITTO: CONDANNE A MORTE DEFINITIVE PER 12 MEMBRI DELLA FRATELLANZA MUSULMANA
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : DESTINA IL TUO 5X1000 A NESSUNO TOCCHI CAINO


BASTA GRIDARE ALLA MAFIA DOVE LA MAFIA NON C’È
Miriam Romeo su Il Riformista del 18 giugno 2021

La parola è l’arma più potente del mondo. Essa può ferire e distruggere vite umane senza lasciare alcun segno visibile sul corpo ed è, al contempo, in grado di guarire l’animo umano offrendosi come dono gentile all’ascoltatore bisognoso di conforto.
È potente anche perché ha il potere di plasmare ciò che ci circonda. Wittgenstein sosteneva, infatti, che i limiti del proprio linguaggio sono i limiti del proprio mondo, nel senso che la nostra stessa capacità di intendere il mondo è dettata dalle parole che utilizziamo per descriverlo.
Ho passato anni a domandarmi perché la mia terra natia, la Sicilia, fosse considerata solamente come la culla della mafia, terra di Caino. Crescendo, mi sono resa conto che vi è una narrazione tipica – utilizzata specialmente nei momenti in cui si tratta di raccontare le vicende giudiziarie legate agli imprenditori del posto – che, per farla breve, è un po’ così: in Sicilia, se hai un’impresa florida, se hai superato l’asticella del reddito sufficiente ad alimentare sospetti, vuol dire che sei un mafioso o che hai fatto affari con la mafia. Tertium non datur.
Io ingenua non lo sono mai stata e non ho mai pensato di negare l’esistenza di questo terribile cancro, tuttavia, sono sempre stata intimamente convinta che questa non fosse l’unica narrazione possibile e che il linguaggio utilizzato negli ultimi vent’anni sia stato causa di una gravissima mistificazione della realtà.
La mia intima opinione è divenuta concreta certezza nel momento in cui mi sono ritrovata a studiare le misure di prevenzione e le assurdità di un sistema in cui il sospetto fa da padrone e il cui procedimento rinnega le garanzie fondamentali.
In questo settore, infatti, il linguaggio utilizzato dagli “esperti” per descrivere le operazioni in atto è stato il peggiore possibile: “beni sequestrati alla mafia”, “maxi-sequestro ai mafiosi” ... e chi più ne ha più ne metta. Nessuno che si premurava di spiegare che si trattasse soltanto di clickbaiting, che nei procedimenti di prevenzione non si svolge l’accertamento di alcun reato e che, se si vuole essere certi di aver sequestrato dei beni alla mafia, quella vera, bisogna agire tramite un processo penale.
Le storie sulle misure di prevenzione vedono spesso come protagonisti soggetti assolti in un processo penale o mai rinviati a giudizio ma considerati, allo stesso tempo, “socialmente pericolosi”, con buona pace del principio di presunzione di innocenza. Eppure, queste storie sono passate troppo spesso in sordina, inabissate da un linguaggio che ha trasformato le vittime in carnefici, macchiate per sempre da parole infamanti come “mafioso” trasformatesi in lettere scarlatte, pronte a sottolineare in ogni tempo un’indefinita nube di sospetto, anche quando sentenze e decreti urlano a gran voce l’estraneità da ogni forma di criminalità.
Io con le misure di prevenzione non c’entravo nulla o, quantomeno, non le ho mai conosciute personalmente. La mia storia non si aggiunge a quella delle vittime di certa antimafia ma è quella di una studentessa di Giurisprudenza che ha deciso di stare dalla loro parte.
Per questo mi sono iscritta a Nessuno tocchi Caino, per aiutare i numerosi imprenditori innocenti a uscire dal cono d’ombra nel quale per molto tempo si sono rifugiati. È giunto il momento di cambiare la narrazione, di squarciare il velo di Maya e far conoscere la vera realtà ma per farlo bisogna essere in molti, unirsi in “social catena”.
È per questo che è stato ufficialmente istituito il Comitato di Nessuno tocchi Caino sulle Misure di Prevenzione, di cui ho l’onore (e l’onere) di essere la Segretaria, insieme a Massimo Niceta in qualità di Presidente e Pietro Cavallotti nel ruolo di Portavoce. La costituzione è avvenuta, simbolicamente, all’Abbazia di Santa Anastasia di Castelbuono, un bene prezioso creato e custodito con amore dall’ingegnere Francesco Lena e dalla moglie Paola, all’improvviso sequestrato e, dopo un lungo calvario giudiziario, restituito ai suoi legittimi proprietari con un mare di debiti.
La parola come dono, come conforto, è lo strumento che Pietro e Massimo utilizzano da tanti anni per supportare altri imprenditori come loro, ricordandogli, come nel dialogo di Plotino e di Porfirio, l’importanza del confortarsi e incoraggiarsi per “compiere nel miglior modo questa fatica della vita”.
La nostra forza è la nonviolenza che non è mai protesta ma proposta, dialogo con il potere. Per affrontare questo dialogo bisogna, però, conoscere. È necessario informare per riformare, perché nessun cambiamento sarà mai possibile se prima non avremo sensibilizzato l’opinione pubblica su quest’amara realtà.
Fra i nostri strumenti: la realizzazione di un docu-film sulle misure di prevenzione e di un libro dal titolo “Quando prevenire è peggio che punire”, e la predisposizione di ricorsi alle alte giurisdizioni in collaborazione con l’Università di Ferrara.
Ci impegneremo in tutto questo. Lo faremo avendo cura delle parole da usare, scegliendole sempre con cautela ma con la giusta dose di ribelle coraggio.
Per saperne di piu' : https://www.ilriformista.it/basta-gridare-alla-mafia-dove-la-mafia-non-ce-227924/

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

LA PROCEDURA DI SUPERVISIONE DELL’ESECUZIONE DELLA SENTENZA VIOLA DA PARTE DEL COMITATO DEI MINISTRI DEL CONSIGLIO D’EUROPA: UN’ULTERIORE OCCASIONE PER APRIRE UN DIBATTITO SUL SUPERAMENTO DEL REGIME DELL’ERGASTOLO CD. OSTATIVO
Matteo Zamboni

Il 7 giugno si è aperta dinnanzi al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europea a Strasburgo la procedura di supervisione dell’esecuzione della sentenza Viola contro Italia del giugno 2019, con la quale la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha sancito che l’ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Convenzione. Abilitato a monitorare lo stato della sua applicazione in concreto, Nessuno tocchi Caino ha inviato aggiornamenti al Comitato, risposto al piano presentato dal (precedente) Governo italiano, sollecitato l’apertura di un dibattito pubblico sulle possibili alternative al regime del carcere ostativo, chiesto al Parlamento di calendarizzare un progetto di riforma dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario.
Non è un caso che sia la CEDU sia la Corte costituzionale abbiano demandato al Parlamento il compito di elaborare una riforma dell’art. 4-bis in grado di superare la equiparazione fra collaborazione e ravvedimento, garantendo il bilanciamento di tutti gli interessi in gioco. Come è noto, i giudici della Consulta hanno concesso al Legislatore un anno di tempo per approvare una riforma, rimandando a maggio 2022 la scure della dichiarazione formale di illegittimità costituzionale. La CEDU, invece, non ha il potere di annullare la legge, ma quello di indicare all’Italia, se non altro per evitare condanne a catena, le modifiche necessarie volte a superare le violazioni gravi sofferte dal ricorrente che discendono direttamente dall’applicazione della legge. Le procedure, dunque, sono diverse. Ma è innegabile che siano intimamente connesse.
Per questo Nessuno tocchi Caino ha intrapreso iniziative in entrambi i procedimenti, trasmettendo un intervento amicus curiae alla Consulta e partecipando attivamente alla procedura di supervisione dell’esecuzione della sentenza Viola aperta di fronte al Comitato dei Ministri che “controlla” le misure proposte dai Governi nazionali. Nel caso Viola, Nessuno tocchi Caino ha richiesto al Comitato dei Ministri di “assicurare un dibattito sobrio, aperto e costruttivo” in merito alle possibili alternative al regime ostativo, senza fughe in avanti, ma anche senza rimettere in discussione le decisioni raggiunte dalla CEDU e dalla Corte costituzionale, “nello spirito di massima trasparenza e collaborazione fra istituzioni e società civile”. Inoltre, Nessuno tocchi Caino ha chiesto ai delegati europei di imporre all’Italia un termine preciso entro il quale presentare un progetto di riforma della disciplina. Tali esortazioni sono state di fatto accolte dal Comitato, tant’è c he il 9 giugno ha chiesto al Governo di presentare un piano di riforma del regime ostativo entro il 15 dicembre 2021, un termine evidentemente pensato come passaggio interlocutorio per l’approvazione di una legge entro maggio 2022, come chiesto dalla Corte costituzionale.
Il discorso dei diritti umani sta progressivamente spostando l’attenzione dalla fase del contenzioso alla fase dell’esecuzione. In questo ambito, tutti gli studi dimostrano che, se non sono condivisi ai diversi livelli del corpo sociale (dalle istituzioni, alla società civile, ai media, alle scuole e alle Università), i principi sanciti nelle sentenze delle più alte giurisdizioni nazionali e internazionali rimangono lettera morta. Per questo, Nessuno tocchi Caino considera il procedimento di esecuzione della sentenza Viola di fronte al Comitato dei Ministri una ulteriore occasione per portare avanti un serio tentativo di superamento del regime ostativo.
Tutta la giurisprudenza della CEDU e della Corte costituzionale in materia di ergastolo sono basate sul presupposto che non solo le persone cambiano ma che cambiano anche le società stesse, e pratiche che un tempo erano comuni, come per esempio l’esecuzione capitale, da un certo momento in poi diventano inaccettabili. Questo processo di sedimentazione e cambiamento passa anche dalle, ma non si esaurisce nelle, sentenze. Per questo, occorre passare dalla pars destruens alla pars construens, assicurare che le vittorie giuridiche di questi anni portino a un vero cambiamento della realtà, in questo caso, del destino delle oltre 1.700 persone che stanno ancora scontando la pena senza speranza dell’ergastolo ostativo.


ARABIA SAUDITA: GIOVANE SCIITA GIUSTIZIATO PER AVER PARTECIPATO A RIVOLTA ANTI-GOVERNATIVA
L'Arabia Saudita il 15 giugno 2021 ha giustiziato un ragazzo che era stato condannato per aver partecipato a una rivolta antigovernativa della minoranza sciita.
Un importante gruppo per i diritti umani ha tuttavia definito il suo processo come "profondamente viziato".
Non è chiaro se Mustafa bin Hashim bin Isa al-Darwish, 26 anni, sia stato giustiziato per crimini commessi da minorenne, ha affermato Amnesty International. Il gruppo per i diritti umani ha detto che il ragazzo era stato arrestato nel 2015 per presunta partecipazione ai disordini avvenuti tra il 2011 e il 2012.
L’atto di accusa formale non specifica le date in cui avrebbe commesso i suoi presunti crimini, il che significa che all’epoca avrebbe potuto avere 17 anni, o aver appena compiuto 18 anni.
Il governo saudita sostiene che al-Darwish sia stato condannato e giustiziato per crimini commessi quando aveva più di 19 anni, sebbene non siano state fornite date specifiche per i suoi presunti crimini.
L'anno scorso, le autorità saudite hanno dichiarato di aver fermato le esecuzioni per crimini commessi da minorenni.
Il Ministero dell'Interno ha sostenuto che al-Darwish sia stato giustiziato per aver partecipato alla formazione di una cellula terroristica armata con l’intenzione di seguire e uccidere agenti di polizia, sparare alle pattuglie della polizia e preparare bottiglie molotov per attaccare gli agenti.
Al-Darwish era stato inoltre accusato di aver partecipato a ribellioni armate contro il sovrano e di aver provocato caos e conflitti settari. I crimini sarebbero avvenuti nella Provincia Orientale, dove si concentra la maggior parte del petrolio saudita e risiede la comunità sciita del Paese. L'esecuzione è avvenuta a Dammam, capoluogo amministrativo della provincia.
Al culmine delle rivolte della Primavera Araba in tutta la regione, l’Arabia Saudita ha registrato disordini tra i giovani sciiti, che si sono riversati nelle strade di Qatif, nella Provincia Orientale. I dimostranti chiedevano posti di lavoro, migliori opportunità e la fine della discriminazione da parte delle istituzioni del Regno.
Amnesty International denuncia che al-Darwish è stato arrestato quando aveva 20 anni, è stato messo in isolamento per sei mesi e gli è stato negato l'accesso a un avvocato fino all'inizio del processo, avviato due anni dopo dal Tribunale Penale Speciale di Riyadh, istituito per i casi di terrorismo.
La Corte Suprema ha confermato la condanna a morte di al-Darwish.
Il caso è stato poi deferito alla Presidenza per la Sicurezza dello Stato, che è supervisionata direttamente dalla corte reale e sulla quale il principe ereditario Mohammed bin Salman esercita un grande potere.
Il monarca saudita, re Salman, ratifica le condanne capitali, la maggior parte delle quali vengono eseguite mediante decapitazione.
(Fonti: Ap, 15/06/2021)


ETIOPIA: RAGAZZO GIUSTIZIATO IN PUBBLICO IN OROMIA
Le forze governative etiopi hanno giustiziato sommariamente in pieno giorno un ragazzo di 17 anni nella regione di Oromia, ha dichiarato Human Rights Watch il 10 giugno 2021. L'esecuzione pubblica di Amanuel Wondimu Kebede evidenzia per HRW l’assenza di responsabilità per gli abusi commessi dalle forze di sicurezza nel Paese.
L'11 maggio 2021 le forze governative hanno arrestato e picchiato Amanuel a Dembi Dollo, una città nella zona di Kellem Wellega, nell'Oromia occidentale. Un video pubblicato sui social media dall'amministrazione cittadina mostra le forze di sicurezza che deridono Amanuel, ripreso con una pistola legata al collo e insanguinato. Il ragazzo è stato giustiziato in pubblico lo stesso giorno.
Nelle settimane successive, le autorità hanno minacciato e arrestato arbitrariamente altri residenti di Dembi Dollo, compresi i familiari di Amanuel.
L'Oromia occidentale è da tre anni teatro di un conflitto tra le forze del governo federale e regionale e l'Oromo Liberation Army (OLA), un gruppo armato staccatosi dal partito di opposizione politica, l'Oromo Liberation Front (OLF), nel 2019.
Un centro di comando federale nell'Oromia occidentale coordina le forze di sicurezza federali e regionali nell'area, comprese le Forze di Difesa Etiopi, la polizia speciale di Oromia, le forze regolari di polizia di Oromia e le forze della milizia amministrativa.
Il 1° maggio, il parlamento etiope ha messo fuori legge lo "Shene" - un termine governativo utilizzato per l'OLA – riconoscedolo come organizzazione terroristica.
Human Rights Watch ha intervistato 11 residenti di Dembi Dollo e ha esaminato diversi video e fotografie pubblicati sui social media, articoli dei media e dichiarazioni di funzionari governativi relative all’uccisione di Amanuel.
Testimoni hanno affermato che verso le 8:00 dell'11 maggio, le forze speciali regionali di Oromia, note come Liyu Hail, hanno arrestato Amanuel vicino alla sua casa nel quartiere Kebele 07 di Dembi Dollo. In base ai resoconti dei media, le autorità locali hanno accusato Amanuel di aver ferito con un’arma da fuoco un contractor, Gemechu Mengesha, nella città.
I parenti hanno detto che Amanuel aveva 17 anni e andava ancora a scuola.
I residenti di Dembi Dollo sono rimasti sorpresi dal fatto che le autorità abbiano arrestato Amanuel, descrivendolo come uno studente di 10° grado, che lavorava in una chiesa e aveva sempre vissuto nel quartiere di Kebele 07.
Due residenti hanno visto le forze speciali di Oromia picchiare, prendere a pugni e a calci Amanuel. "Stavano usando tutti i mezzi per picchiarlo, con gli stivali, con le mani, con il bastone e il calcio della pistola", ha detto un testimone. “È stato anche colpito alla testa. È caduto a terra. È stato molto scioccante da vedere.”
I residenti in seguito hanno visto Amanuel cercare di fuggire nel quartiere di Kebele 05, ma i soldati gli hanno sparato a una gamba.
Un secondo video, che Human Rights Watch ha visionato, mostra Amanuel che viene fatto sfilare lungo una strada, visibilmente zoppicando sul lato destro, e circondato dalle forze di sicurezza, comprese le forze speciali di Oromia e la polizia locale. Amanuel è costretto a ripetere: “Sono un membro di Abba Torbee (un gruppo armato nell’Oromia con legami poco chiari con l'OLA). Non fate quello che ho fatto io. Imparate da me.”
Testimoni hanno detto che un misto di forze del posto, comprese le forze speciali e la polizia di Oromia, la milizia locale e le forze di difesa etiopi, hanno ordinato ai veicoli di fermarsi e hanno radunato la gente che si trovava alla fermata degli autobus. Anche i commercianti della zona sono stati costretti a chiudere il negozio e assistere alla scena. Altri residenti si sono uniti alla folla da soli. Un uomo che ha assistito ai fatti ha detto: "Hanno portato tutti al centro della città e hanno detto alla gente che se qualcuno avesse cercato di attaccare le forze di sicurezza avrebbe fatto la stessa fine".
Il video corrisponde al post su Facebook dell’amministrazione di Dembi Dollo e mostra Amanuel con segni di percosse alla testa, sangue sulla maglietta, vestiti strappati e le mani legate dietro la schiena, alla rotonda della città, con una pistola appesa al collo. E’ visibile del sangue vicino Amanuel, sulla rotatoria e sulla strada.
Il video mostra almeno tre soldati delle forze speciali di Oromia in piedi vicino a lui, due dei quali portano fucili d'assalto tipo Kalashnikov. Nel video, gli viene detto di confermare il suo nome e dove è nato.
Quattro testimoni hanno raccontato che le forze di sicurezza hanno ordinato ad Amanuel di chinare la testa e poi gli hanno sparato almeno due volte, davanti ai residenti.
Una foto pubblicata sui social media mostra il corpo di Amanuel per terra, presso la rotonda, con le mani ancora legate dietro la schiena.
Dopo aver giustiziato il giovane, le forze di sicurezza hanno impedito ai residenti di avvicinarsi al corpo. Hanno condotto alla rotonda i genitori di Amanuel, che quella mattina erano stati tenuti in una stazione della polizia locale. Sua madre ha iniziato a urlare quando ha visto il corpo del figlio e per tutta risposta le forze speciali e la polizia locale hanno iniziato a picchiare sia lei che il padre di Amanuel. Un testimone ha detto:
Sua madre piangeva e gridava, chiedendo di poter seppellire suo figlio. Allungava le braccia dicendo: "Maalo, maalo" [Per "per favore, per favore" in Afaan Oromo]. L'hanno picchiata con dei bastoni. Anche il padre ha chiesto di poter prendere il corpo. Anche lui ha proteso le braccia, cercando di persuaderli. La madre è stata picchiata, è caduta a terra.
A un certo punto gli anziani della comunità hanno iniziato un negoziato con il funzionario della sicurezza nella zona di Kellem Wellega, che alla fine ha permesso loro di recuperare il corpo del ragazzo per la sepoltura.
I giornalisti hanno chiesto a Tesema Wariyo, il capo della sicurezza a Kellem Wellega, perché Amanuel non fosse stato portato davanti a un tribunale. Ha risposto: "Amanuel non era un sospetto, ma chiaramente un nemico, un membro dell'OLF-Shene che veniva dalla boscaglia".
Human Rights Watch ha contattato telefonicamente la commissione di polizia regionale di Oromia e il capo della sicurezza a Kellem Wellega, ma non ha ricevuto risposta.
Dall'uccisione di Amanuel, le autorità governative hanno intimidito e molestato i residenti di Dembi Dollo, compresi i familiari e gli amici di Amanuel. Le forze di sicurezza di Oromia hanno arrestato oltre una dozzina di persone, tra cui il padre di Amanuel, che si erano radunate nella casa di famiglia in lutto per la morte del giovane. Altri residenti sono stati avvertiti di non visitare più la casa. Mentre molti degli arrestati sono stati rilasciati, il padre di Amanuel resta detenuto.
"Il caso di Amanuel e della sua famiglia non è unico", ha detto un residente. "Queste uccisioni sono abituali".
I gruppi per i diritti umani e i media hanno segnalato numerosi abusi da parte delle forze di sicurezza governative, tra cui esecuzioni extragiudiziali, esecuzioni sommarie di detenuti, arresti arbitrari e ripetute interruzioni delle comunicazioni nell'Oromia occidentale.
Anche gruppi armati nell'area avrebbero rapito o ucciso membri delle comunità di minoranza, agenti di polizia e funzionari governativi, e attaccato operatori umanitari e i loro veicoli.
I diritti umani internazionali e il diritto umanitario vietano le esecuzioni sommarie, extragiudiziali o arbitrarie, la tortura e altri maltrattamenti delle persone detenute. L'Etiopia è parte di trattati internazionali e regionali, tra cui la Convenzione sui Diritti del Fanciullo, le Convenzioni di Ginevra e la Carta Africana su Diritti e Benessere dell’Infanzia, che contengono protezioni speciali per i minori.
(Fonti: HRW, 10/06/2021)


EGITTO: CONDANNE A MORTE DEFINITIVE PER 12 MEMBRI DELLA FRATELLANZA MUSULMANA
La Corte di Cassazione egiziana il 14 giugno 2021 ha confermato le condanne a morte di 12 membri della Fratellanza Musulmana, concludendo un processo legato alle uccisioni di massa commesse nel 2013 dalle forze di sicurezza durante un sit-in degli islamisti, ha detto un funzionario giudiziario.
Le condanne, che riguardano anche due leader della Fratellanza, pongono fine a un processo iniziato con oltre 600 imputati all'indomani del rovesciamento da parte dei militari del presidente islamista Mohamed Morsi nel 2013.
Dopo la cacciata di Morsi a luglio, avvenuta tra le proteste di massa contro il suo governo, i suoi sostenitori della Fratellanza Musulmana organizzarono un enorme sit-in in piazza Rabaa Al-Adawiya al Cairo per chiedere il suo ritorno.
Il mese successivo, le forze di sicurezza fecero irruzione nella piazza uccidendo circa 800 persone in un solo giorno.
Le autorità sostennero all'epoca che i manifestanti fossero armati e che la dispersione forzata fosse una necessaria misura anti-terrorismo.
Questo avvenimento segnò l'inizio di una lunga repressione sia contro gli islamisti che contro l'opposizione laica in Egitto.
I 12 condannati a morte sono stati riconosciuti colpevoli di "aver armato bande criminali che hanno aggredito residenti e resistito ai poliziotti, nonché possesso di armi da fuoco... munizioni... e materiale per realizzare bombe", è scritto nella sentenza della Corte di Cassazione.
Altre accuse includono "uccisione di poliziotti... resistenza alle autorità... e occupazione e distruzione di proprietà pubbliche".
Tra i condannati alla pena capitale figurano gli importanti esponenti della Fratellanza Musulmana Mohamed al-Beltagy e Safwat Hegazy, ha detto la fonte giudiziaria, precisando che le condanne sono definitive e non possono essere appellate.
La Corte ha anche ridotto le condanne per altri 31 membri della Fratellanza, ha detto il funzionario all'agenzia di stampa AFP.
Nessun rappresentante delle autorità è stato processato in relazione alle uccisioni.
Nel 2018, un tribunale egiziano condannò a morte 75 imputati nel caso e i rimanenti a diverse pene detentive, tra cui 10 anni per il figlio di Morsi, Osama.
Morsi fu eletto in seguito alle proteste di massa in Egitto del 2011 e alla cacciata del presidente autocrate Hosni Mubarak, ma fu rovesciato dall'esercito guidato dall'attuale presidente Abdel Fattah al-Sisi.
Il governo di Al-Sisi ha messo fuorilegge la Fratellanza alla fine del 2013 e ha attuato una vasta repressione, incarcerando migliaia di suoi sostenitori.
Morsi, che era stato condannato a morte per il suo ruolo nelle evasioni durante la rivolta contro Mubarak, è morto nel giugno 2019 dopo aver avuto un malore in tribunale.
(Fonti: AFP, 14/06/2021)


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I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA


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