Post lunghissimo: Charles Bukowski, le orride vicine di casa, Vale, Martin Amis

Fuori sta piovigginando e non ho ancora capito quanto le nuove riaperture influiranno sul mio lavoro al cinema ma domani saprò qualcosa di più preciso visto che andrò a preparare pop corn per i prossimi giorni e intanto ho scritto questo post lunghissimo ascoltando gli Explosions in the Sky. 
 
Ho l'umore storto e pochissimo appetito. Mangio quasi solo legumi e verdure ma mi mancano le lumache e le rane e l'anguilla. 

 

Per fortuna ho i libri (e le birre ma spero di riuscire a smettere dopo San Pietro e Paolo) e la musica e che bello ritrovarsi a leggere le lettere di Charles Bukowski contenute in “Sulla scrittura” (Guanda, a cura di Abel Debritto,traduzione di Simona Viciani) perché dentro ci sono delle perle incredibili come questa lettera sotto che unisce racconto di vita e presa per il culo del mondo editoriale:

“Non sopporto scrittori o redattori o chicchessia che discorrono d'Arte. Per 3 anni ho vissuto in un hotel nei bassifondi – prima della mia emorragia – e mi sbronzavo ogni sera con un ex galeotto, la cameriera, un indiano, una tizia che sembrava portare la parrucca ma non ce l'aveva, e 3 o 4 perdigiorno. Nessuno di noi distingueva Sostakovic da Shelley Winters e non ce ne fregava un cazzo. La cosa più importante era chi mandare a prendere da bere quando eravamo a secco. Si partiva dal basso con il nostro elemento peggiore e se falliva – dovete capire, il più delle volte non c'erano soldi, o comunque ce n'erano molto pochi – raschiavamo il fondo del barile mandando il successivo, il meno peggio. Non per vantarmi, ma io ero il bastardo in cima alla lista. E quando l'ultimo rientrava dalla porta barcollando, pallido e pieno di vergogna, Bukowski lo ricopriva di insulti, indossavo il suo mantello cencioso e con rabbia e baldanza girovagava nella notte fino al Dick's Liquor Store. Coglionavo Dick, lo perseguitavo e lo trituravo finché non ne era tramortito; entravo nel negozio incazzato nero, non mendicando, ma ordinando ciò che volevo. Dick non sapeva mai se avevo denaro o meno. A volto lo fregavo e i soldi ce li avevo. Ma la maggior parte delle volte non li avevo. Comunque si, mi sbatteva le bottiglie davanti, le imbustava e io le agguantavo con rabbia. “Mettile sul mio conto!” E poi lui cominciava con la solita tiritera – ma, cristo, mi devi già così e così, ed è da un mese che non sganci un dollaro e... Ed era a quel punto che arrivava IL COLPO DA MAESTRO. Avevo già le bottiglie in mano. Non ci voleva niente a girarmi e uscire. Ma le sbattevo sul bancone, le strappavo dalle buste e gliele sventolavo davanti dicendo: “Ecco, sono queste che vuoi? Andrò a servirmi da qualche altra cazzo di parte!” “No, no” diceva, “prendile. Va bene così.” E poi tirava fuori quel foglio malinconico e le aggiungeva al totale. “Fammi vedere un po'” gli intimavo. E poi dicevo: “Cristo Santo! Non ti devo mica così tanto! E questo qui che cazzo è?” Tutta questa scena per fargli credere che un giorno avrei pagato. E lui cercava di lisciarmi un po': “Tu sei un signore. Non sei come quegli altri. Io di te mi fido”. Alla fine si ammalò e vendette l'attività e quando arrivò quello nuovo io aprii un nuovo conto... E sapete cosa successe dopo? Una domenica mattina – OTTO IN PUNTO!!! puttana eva – bussano alla porta, apro e mi trovo davanti il direttore di una rivista. “Ah, sono il tal dei tali, direttore della rivista pinco pallino, abbiamo ricevuto il suo racconto e l'abbiamo trovato molto particolare, lo pubblicheremo nel numero di primavere.” “Be', prego, entra pure” gli ho dovuto dire, “ma non inciampare nelle bottiglie.” E poi sono stato lì a sorbirmi la storia di sua moglie che pensava gbrandi cose di lui e sul suo racconto che una volta era stato pubblicato sull'Atlantic Monthly, e sapete quanto blaterano questi tipi. Alla fine se ne andò e più o meno un mese dopo squillò il telefono nel corridoio e chiedevano di Bukoswki, questa volta una voce femminile: “Signor Bukowski, pensiamo che lei abbia scritto un racconto davvero particolare e il nostro gruppo ne stava discutendo proprio ieri era, ma crediamo che abbia un punto debole e abbiamo pensato che magari lei vorrebbe correggerlo. Ed è questo: PERCHÉ IL PROTAGONISTA COMINICA A BERE?” La mia risposta: “Lasci perdere tutto e mi rispedisca il racconto”. E poi riagganciai. Tornato in camera, l'indiano alzò lo sguardo dal bicchiere e mi chiese: “Chi era?” E io “Nessuno”, che era la risposta più precisa che potessi dire.” (Dalla lettera a John Webb, 25 marzo 1961, pp. 51-54)

o come questa splendida lettera/recensione del 1964 del romanzo di Jack Conroy “The Disinherited” che a questo punto vorrei tanto leggere e che soprattutto è una dimostrazione di straordinaria sensibilità:

 

Molte grazie per The Disinherited, che ho letto ora e che è alla mia destra mentre ti sto scrivendo, e ascolto la sesta sinfonia di C[ajkovskij] e bevo una birra piccola; stanco; ho scommesso sui mezzosangue oggi, e o vinci subito, o vai in rovina o affili il coltello, tutto molto deprimente – ma il libro, il libro, sì, mi è piaciuto, e ciò che mi ha interessato è mostrava la situazione di gente come me e te e gente che conoscevamo e che conosciamo; com'era, e secondo me, com'è ancora adesso. È un inferno essere malati senza un soldo, affamati senza un soldo; è un inferno essere malati e affamati per sempre fino all'ultimo giorno. I lavori dimenticati da Dio che la maggior parte di noi deve tenersi; i lavori dimenticati da Dio che la maggior parte di noi deve cercare, implorare; i lavori dimenticati da Dio che odiamo con tutto il nostro stanco spirito e che dobbiamo comunque impegnarci a fare... mio dio, gli alcolizzati, i poeti, i suicidi, i drogati, i pazzi tutto questo dà il voltastomaco! Non capisco perché siamo costretti a vivere in modo così orrendo, spaventoso e ovviamente miserabile in un secolo dove la civilizzazione ha progettato grazie a tutte le sue energie la forza devastatrice in grado di farci fuori tutti. Penso che se è possibile distruggere completamente la vita allora, perdio, è anche possibile permettere che la vita sia vissuta nella sua pienezza. E voglio dire, nella sua pienezza; non voglio dire quanto basta per permettere ai nostri milionari e uomini di stato di svignarsela in qualche pianeta dopo che hanno sputtanato tutto qui giù... ma mi sto allontanando dal tuo libro, ed è il momento giusto per ripubblicarlo perché gli stessi lavori infernali esistono ancora, lo stesso sbarazzarsi del vecchio, lo stesso senso di durezza che fa sentire il disoccupato un emarginato sociale senza scuse, senza voce, senza possibilità. Conosco bene la quasi -impossibilità del sopravvivere. Lavoravo per 17$ a settimana in Louisiana e sono stato licenziato quando ho chiesto un aumento di 2$. Questo succedeva nel 1941. Ho lavorato nei mattatoi, ho lavorato come sguattero lavapiatti; ho lavorato in una fabbrica di lampade al neon; come attacchino nelle metropolitane di New York, ho pulito raschiato e lavato i vagoni dei treni passeggeri nei depositi ferroviarsi, ho fatto il magazziniere, lo spedizioniere, il portalettere, il barbone, l'addetto a una pompa di benzina, uomo del cocco in una fabbrica di torte, autista di furgone, caposquadra in una ditta distributrice di libri, operatore al trasporto di sangue trasfuso e confezionatore di tubi di gomma per la Croce Rossa; giocatore di dadi, di cavalli, folle, scemo del villaggio; dio, non posso ricordarmeli tutti, ma leggere il tuo libro me ne ha fatti tornare in mente parecchi. Firmavo con il gruppo delle ferrovie solo per viaggiare per il paese. Una volta ho fatto da New Orleans a Los Angeles; un'altra volta da L.A. a Sacramento. Ci davano barattoli di cibo freddo che dovevamo aprire schiantandoli sul retro dei sedili o da qualche altra parte perché non ci fornivano l'apriscatole. I maledetti barattoli di cibo ce li addebitavano sottraendoli dalla prima busta paga, in aggiunta, temo alle spese di viaggio. Non lo so per certo – saltavo giù dal treno. Altri facevano lo stesso. Ma quelli che tenevano duro mi sembra di capire che lavoravano per un bel pezzo senza percepire un centesimo. C'era sempre qualcuno con una bottiglia e un paio di dadi e una volta abbiamo scambiato i nostri buoni pasto di una tavola calda in Main Street L.A. e dopo esserci stretti la mano ognuno è andato per la sua strada. Cazzo, non sto parlando del tuo libro qui, ma voglio che tu sappia che l'ho capito quasi tutto, e ti ringrazio ancora per averlo spedito. Non ti sto dicendo che sei Jack London; sto dicendo che sei Jack Conroy, che va già bene.” (pp. 88-90)
 


e intanto che aspetto il nuovo romanzo di Martin Amis rileggevo questo suo libro e ho trovato questa frase che applicherei a un sacco di politici:

"Mitt ha qualcosa di inspiegabilmente semi-umano. Per sviluppare una metafora elaborata in origine dal grande Clive James, Romney sembra uno che un pomeriggio è andato dal dentista e invece di farsi incapsulare un dente si è fatto incapsulare la testa. Ci troviamo davanti al classico problema del cane che si rifiuta di mangiare il cibo per cani e nessuno ne capisce il motivo." (pag. 35)

Leggevo e intanto cercavo di cancellare dalla mia testa e voci delle vicine pugliesi/campane che da balcone a balcone, da palazzo a palazzo, sulle scale,  sui pianerottoli, in cantina strillavano di prossime vacanze, di povertà fasulla (col cazzo che sono povere), di polpette/pizza fritta/ciambelle/ragù/pastiera/spaghetti/scialatielli/Dixan/turni di lavatrice/piccioni/calli/figli/figlie/nipoti/immigrati, tutte piene di ipocrisa, viltà, perbenismo, giudizi sommari, ignoranza. 

Sono abituato a vivere in un palazzo pieno di contraddizioni ma quando sento le comari, le madri di famiglie, le nonne, le zie così tanto grette, aggrappate alle proprie origini, alle tradizioni, alla famiglia, al focolare mi manca sempre il fiato. Quando le incontro non mi sottraggo al confronto, ai saluti e se per caso c'è bisogno di aiutarle le aiuto, sopportando le loro continue frecciate sul fatto che non siamo sposati, non abbiamo figli, siamo sempre vestiti di nero, non socializziamo poi molto e soprattutto difendiamo i vicini più problematici ma non riesco proprio ad amarle e le detesto, anzi le disprezzo, e sono fortunato a non avere mai avuto parenti di tal genere.

Perché, aggiornando la situazione pregressa, l'inquilino sballatissimo che si è trasferito nella casa dove viveva la tossica alla fine mi risulta più accettabile di tutte queste stronze che per tanti sono la mamma/zia/nonna perfetta. 

Ormai l'ho accettato con le sue nottate insonni, le sue stravaganze, le sue molteplici relazioni sentimentali, la sua Vale, le sue sigarette. Lei è una ragazzina bellissima, con un viso angelico e una risata che perfora strati di cemento armato alle 3 di notte. Una che ama sballarsi. Quando li incontro al supermercato che si riempiono le borse di vodka so già che sarà una serata memorabile perché poi le sostanze e l'alcool la prendono sempre bene e l'altra sera io e la mia compagna stavamo morendo dal ridere ascoltando le disavventure di Vale sul lavoro, per strada e coi genitori. 

Ha un talento comico raffinatissimo e senza alcun tipo di volgarità. Il suo è un italiano perfetto, musicale e ascoltarla nei suoi lunghissimi monologhi è come assistere a uno show teatrale. Con pause dedicate a rifocillare narici, polmoni e gola. Il dolore della sua vita quotidiana emerge nelle sfumature, nello sguardo che dona alla quotidinianità in cui è immersa ma che non smette di analizzare, studiare. Stamattina un vicino mi ha detto “Sono dei rompicoglioni devastanti ma stanotte mi sono quasi pisciato addosso sentendo quella ragazza raccontare delle sue giornate e ci hai fatto caso che non dice mai parolacce e che nemmeno bestemmia?” 

Mentre stavo controllando la posta Vale è uscita dall'ascensore, spettrale, quasi invisibile nella sua magrezza, una sigaretta accesa fra le dita della mano destra, vestita di bianco, i sandali rossi. Io tutto vestito di nero. Ci siamo guardati. 

"Scusa per stanotte", mi ha fatto.

Le ho sorriso e la sua risata di ringraziamento ha riempito tutto il palazzo facendomi quasi piangere. 

 


Commenti

  1. Bel post. Sai che quando scrivi assomigli un po' a Bukowski?

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    1. mi sarebbe piaciuto tanto prendermi una bella sbronza con lui

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