"Piacere di averti conosciuto" di Fulvio Sulmoni (Edizioni Vignalunga)

 

La mia più grande fortuna è quella di essere stato assistito durante tutta la carriera da un medico e da un fisioterapista di fiducia eccezionali: Maurizio Ponti e Roberto Maragliano. Non smetterò mai di ringraziarli, di cuore. Hanno sempre preso decisioni mettendo in primo piano il benessere della mia persona e del mio corpo. Non hanno mai ceduto alle pressioni o ai conflitti d'interesse dei club e degli allenatori. Sono sempre stati sinceri e trasparenti. E ciò non è per nulla evidente nello sport professionistico, credetemi. Nel mondo del calcio, infatti, contano solo ed unicamente i risultati. E noi giocatori siamo il mezzo per raggiungerli. Siamo le pedine dello scacchiere, nonostante all'apparenza ci facciano sentire i Re. Molto spesso i giocatori subiscono pressioni per giocare partite anche in condizioni fisiche “a rischio”. E i medici/fisioterapisti sono il mezzo per convincere i giocatori a scendere in campo. Meglio assecondare il volere del club che procura visibilità e pazienti o proteggere la salute dei giocatori? Ho conosciuto troppi operatori sanitari senza personalità e senza scrupoli che preferiscono scegliere la prima opzione.” (pp. 24)

Peccato che “Piacere di averti conosciuto” (Edizioni Vignalunga) dell'ex calciatore professionistico Fulvio Sulmoni (classe 1986, ha militato nel Thun, FC. Lugano, Chiasso, locarno disputando 162 partite in Challenge League, 188 in Super League e 19 in Europa League) "letterariamente" abbia numerose cadute perché con una maggiore cura, qualche limatura, alcuni tagli e magari alcuni passaggi da ampliare maggiormente ne sarebbe uscito un vero e piccolo gioiello sul mondo del calcio in tutti i suoi luoghi oscuri. 

Un diario crudo ma anche ironico (a tratti anche commovente come quando Sulmoni racconta del cancro o del matrimonio e del desiderio di aver un figlio) che non fa sconti a nessuno e racconta senza peli sulla lingua il mondo del calcio (un vero e proprio mondo del lavoro degradato, violento, feroce, precario, fasullo) nel suo dietro le quinte, quello lontano dai riflettori e dalla retorica di giornali patinati e interviste concordate e fatto spesso di mobbing, di fisici consumati già a trent'anni, di conflitti d'interesse, di soldi (montagne di soldi, soldi che finiranno in fretta se non si è delle stelle o non si ha un piano B a fine carriera), sacrifici, poche amicizie vere, procuratori che sembrano tanto dei boss della malavita, ipocrisie, uomini senza spina dorsale, delusioni cocenti, trasferimenti per assecondare strategie societarie, tifosi senza il minimo rispetto per chi sta giocando (parole buone Sulmoni le spende invece, pur condannando le violenze, per gli Ultras), di genitori che sognano per i propri figli un futuro da campione senza minimamente sapere che solo pochissimi su diverse migliaia diverranno calciatori professionisti e solo uno una stella, un vero campione e che bruciano i figli in un vortice di promesse, sogni destinati a morire.

Capisco che fare l'allenatore è un mestiere complicato. Bisogna gestire un gruppo di venticinque o trenta giocatori, dei quali solo undici possono giocare e dove ognuno è pronto a fare carte false per di scendere in campo. Tuttavia non capirò mai perché la maggior parte di loro debba essere così ipocrita e insensibile. È così difficile dire la verità in faccia ad una persona, anche se fa male o è dura da digerire? Una spiegazione aiuta il giocare a metabolizzare lo sconforto dell'esclusione. Inoltre, una comunicazione onesta e trasparente permetterebbe al diretto interessato di prendere con maggiore sicurezza eventuali decisioni sulla propria vita futura, senza troppi rimpianti. Nel calcio vigono invece falsità ed omertà. Nessuno dice nulla. Apparentemente va sempre tutto bene. Bravo Fulvio! È tutto ok! Ottimo lavoro! Poi, come detto, arrivi un giorno al campo e, rigorosamente per mezzo di un foglio (solo gli uomini d'altronde ti guardano negli occhi e ti dicono le cose come stanno), ti comunicano che non parteciperai al ritiro invernale della squadra e che per quella settimana puoi allenarti con la seconda squadra tutti i giorni alle sette di sera sul campo B. Come a dire che non gliene frega più nulla di te. Che in quel momento conti per loro come il dure di picche nella mano decisiva di briscola. Che il costo della tua camera d'albergo per quella settimana non vale la pena di essere speso. Salvo poi, dopo un paio di mesi, vista l'assenza per infortunio di sei o sette giocatori della rosa e visto che tu sei rimasto, non avendo trovato un'altra squadra, chiamarti nello stanzino (adesso me lo dici di persona però) e dirti “abbiamo notato che in queste ultime settimane ti stai allenando bene. Continua così e vedrai che avrai di nuovo possibilità di giocare”. E tu stai zitto. Lo guardi come si guarda una merda e, come mi ha suggerito un mio caro amico, ti immagini un maiale. Sì, avete capito bene, un maiale. Rosa e bello paffuto. E ti ripeti più volte: “a rotolarsi con il maiale, gode solo il maiale”, “ a rotolarsi con il maiale, gode solo il maiale”, a “a rotolarsi con il maiale, gode solo il maiale”. Lo ringrazi ed esci pensando “brutto farabutto, due mesi fa mi hai mandato con la seconda squadre ed ora che sono tutti infortunati, non potendo far giocare il magazziniere, ti vengo comodo io”. E tu cosa puoi fare? Nulla. Stai zitto. Giochi e dai il massimo per te stesso, per il tuo futuro, per la tua famiglia. È così che funziona nel calcio. Credetemi. E se volete intraprendere una carriera in questo ambito dovete prepararvi a vivere situazioni simili ogni anno.” (pp. 78-79)

Quando uscivo dal lavoro e transitavo per lo stadio o incontrato spesso in epoca pre-pandemia Fulvio Sulmoni e ha sempre avuto la bellissima abitudine di salutare sempre con un semplice Buongiorno, un Ciao, un sorriso Tutte le volte che ho ascoltato una sua intervista mi è sempre sembrato un signore, un uomo dentro e fuori dal campo, di grande educazione, sensibilità, disponibilità. Mi sono specchiato, con tutte le dovute differenze, nella sua storia e nelle sue ansie, nelle sue fragilità e nel suo amore/odio/lontananza per il calcio. 

Sono nato col pallone fra i piedi e il ciclismo da guardare in tv. Ho trascorso giorni interi a giocare a calcio in cortile, all'Oratorio, sulla spiaggia, in camera ma ho sempre subito le troppe aspettative di mio padre (calciatore mancato), di mio zio e di mio cugino, degli allenatori, degli altri genitori. Vedevano in me il più grande talento sbocciato nel mio paese. Mi vedevano destinato a squadre importanti (io ho sempre pensato che più in là della serie B non sarei mai andato) ma quando giocavo sentivo sempre più ansia, non accettavo mai le offerte di trasferirmi in altre squadre, di lasciare quella del mio paesino. Mi dicevano “Sei sprecato...” 

Stavo cominciando a non divertirmi più. L'anno prima che smettessi l'allenatore (alla fine accettai l'invito di mio cugino a trasferirmi in un'altra squadra), che stravedeva per me e mi diceva che avevo dei margini di miglioramenti enormi, mi diede l'opportunità di provare nelle giovanili del Lecco dicendomi che c'era una finestra aperta anche con l'Atalanta ma il giorno che me lo disse precipitai nel panico, qualcosa si ruppe dentro di me e rifiutai. 

Non ressi lo stress e ricordo che litigai tantissimo con mio padre e mia sorella che volevano a tutti i costi che io accettassi quella possibilità di "carriera". Mio cugino ci rimase molto male e l'anno dopo allenatore mi trattò con grande freddezza e cattiveria. 

In quell'ultimo anno riuscii a divertirmi solo due volte (fui sempre titolare) mentre giocavo e a 17 anni mi presi letteralmente gioco di tutti i giocatori avversarii che avevano anche vent'anni più di me. Giocando con la mente libera mi venne tutto facile. Non sbagliai un passaggio, uno stop, avevo i polmoni pieni di ossigeno. Alla fine di quelle due partite il padre di uno dei giocatori avversari mi aspettò all'uscita e mi strinse la mano dicendomi “Bravo, bravo davvero, sei sprecato a giocare a questi livelli e con questa gente, lo sai vero?”. Poi mi feci male e il ginocchio non è mai andato a posto ma non riuscivo più a sopportare il peso delle partite, degli allenamenti, delle falsità, delle frecciate, di una settimana che anche se andavo al liceo era improntata sugli allenamenti e sulla partita la domenica.

Adesso mi piace andare allo stadio, quando riesco, bere una birra e godermi lo spettacolo, applaudire anche gli avversari. Non ho mai insultato i giocatori avversari o quelli del Lugano o del Lecco quando sbagliano un goal. Lo stesso quando giocavo. Soffro, esulto ma sono solo 2 ore di divertimento. Per il resto mi sento del tutto alieno ai programmi tv, non ho quasi seguito gli Europei e non mi interessano le competizioni europee, niente di niente. Faccio anche sempre più fatica ad assistere alle partite amatoriali, quelle dei ragazzini, dei bambini, delle Under perché l'aria è sempre tesa, con genitori che urlano, gridano, si insultano come se fosse una questione di vita e di morte.

Quando ero un ragazzino c'era il padre di un mio compagno di squadra che dagli spalti urlava ogni genere di insulti e volgarità all'arbitro, a noi, agli avversari. È stato anche sindaco del mio paese. Una decina di anni fa l'ho incrociato per caso e gli ho chiesto se non si è mai vergognato di tutti quegli insulti e quando m'ha risposto “Non hai mai avuto le palle tu...” mi sono accorto che sono sempre stato un uomo migliore di lui.

Per quanto riguarda il microcosmo calcistico, la mia speranza è che avvenga un ridimensionamento su tutti i fronti. Che il calcio ritrovi il giusto posto nella gerarchia sociale (tra le ultime posizioni, in lotta per non retrocedere).” (pag. 128) 

 


Commenti

  1. La piaga dei genitori/tifosi credo non sarà mai estirpata. Qua dalle mie parti i genitori hanno innescato a volte vere e proprie risse, con tanto di intervento delle forze dell'ordine e articoli sulla stampa locale.
    Cose assurde.

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    1. Dici bene, cose assurde e insopportabili. A me invece quando giocavo è capitato spesso di essere insultato perchè scambiavo chiacchiere con i giocatori avversari e negli ultimi anni quando applaudo un calciatore di una squadra avversaria mi capita che intorno a me si crei una specie di vuoto.

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