Le mille luci di New York e di una mattina qualunque

 

Lungo la West Side Highway, una puttana solitaria traballa sui tacchi e si tira su la sottana come se nessuno le avesse detto che stamattina i pendolari non si riverseranno in città dal New Jersey attraverso i tunnel. Da vicino, ti accorgi che è un travestito. Passi sotto la struttura arrugginita della vecchia sopraelevata, e ti incamminini lungo il molo. La luce dell'est sfiora la vasta superficie dell'Hudson. Guardi bene dove metti i piedi, quando ti avvicini all'estremità del molo in rovina. Non sei sicuro del tuo equilibrio e ci sono buchi attraverso i quali si intravede l'acqua nera, fetida. 
Ti siedi a guardare il fiume. In fondo, la Statua della Libertà scintilla nella foschia. Sull'altra riva, un'enorme insegna della Colgate ti dà il benvenuto nel New Jersey, lo “stato giardino”.
Osservi il solenne avanzare di una chiatta della nettezza urbana, avvolta da una nuvola di gabbiani stridenti, diretta in alto mare. 
Eccoti qua di nuovo. Incasinato di brutto e senza un posto dove andare.” (pag. 14)

Ogni volta che torno a rileggere “Le mille luci di New York” non faccio che pensare a che cazzo di romanzo d'esordio sia. Impossibile non provare invidia e farmi prendere da tutta una serie di ricordi, ferite, situazioni che ho vissuto, volti che se chiudo gli occhi li vedo davanti a me. Ero giovanissimo quando lo lessi per la prima volta e stavo lavorando in una cooperativa ed era già una vita che stavo di merda. Alle droghe mi ero già avvicinato e il coma etilico mi stava aspettando. Ma non avevo mai bevuto così tanto da trovarmi da vomitare più volte durante il turno di lavoro. Una collega che mi guardava terrorrizzata per paura che le vomitassi addosso. La stessa collega alla quale raccontai che la sera prima era cominciata a mezzogiorno e finita alle 4 e che era stata una serata memorabile. Memorabile per modo di dire. E io l'attacco di questo romanzo ce l'ho dentro perché ci sono volte, mesi, fasi in cui spengo la luce e faccio delle cose fregandome veramente di tutto, delle conseguenze ma, sempre citando McInerney, : “Quello che ti manca è la risolutezza del samurai. Tu sei il tipo di persona che si aspetta sempre un miracolo all'ultimo momento. Il territorio di Manhattan non è zona sismica, ma c'è sempre la possibilità di una bella guerra nucleare. Nessun avvenimento di minor portata avrebbe in realtà il potere di rimandare la consegna di quell'articolo.

E alle 6 di stamattina ho compreso, con tanto dolore, lo smarrimento di una ragazza ubriaca e strafatta che stava nel parcheggio davanti al cinema a cercare di dare il primo morso a un panino e bere la birra presi al baracchino o da qualunque altra parte in città. L'avevo vista anche ieri e sempre nelle stesse condizioni. Elegantissima ma sfatta dopo una serata di eccessi. Bellissima, 

L'ho ascoltata raccontarmi che si era dimenticata che avrebbe dovuto lavorare questa mattina e che ormai non le andava più di telefonare al lavoro per dire che non si sarebbe presentata e che forse era meglio se la licenziavano perché era stanca di questo su lavoro di merda e che era stanca di un po' tutto e che voleva solo ballare e tirare il fiato e lasciare andare tutta l'ansia che aveva nel cuore e non dover più sopportare tutta la merda che mangiava da mattina a sera e che la sua vita era un vero schifo e che a casa non aveva più voglia di tornare.

E io la stavo ad ascoltare ma avevo solo voglia di tornare al lavoro, darle una carezza e di farmi un sorso da quella birra che non riusciva proprio più a bere.

Sembrava una gatta sfinita con alle spalle il parcheggio illuminato di giallo e i bus con i nottambuli, gli scheletri, i lavoratori, i dispersi, i solitari, i fantasmi.

Alle 10 l'ho osservata da lontana. 

Stava seduta sulle scale del centro sportivo che fumava senza scarpe e occhiali da sole per proteggersi da tutto.




 




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