"Macello" di Maurizio Fiorino (edizioni e/o)

 

“Cominciai a spiare mio padre dal buco della serratura mentre si faceva la doccia. Svestito, sembrava ancora più magro. La visione di lui nudo mi provocava un profondo ribrezzo, eppure non riuscivo a smettere. Quell'abitudine si consolidò nel tempo. Ero attratto dalla ripugnanza che mi provocava quel corpo nudo. Per un motivo che non sapevo decifrare lo collegavo allo sputo colato sul vetro del bancone. Presto la ripugnanza diventò piacere, e infine eccitazione. Forse stavo diventando un vizioso anch'io.” (pag. 53)

Ho letto “Macello” di Maurizio Fiorino (edizioni e/o) senza particolari aspettative e invece mi sono ritrovato a leggerlo tutto d'uno fiato durante pomeriggio con le mani ricoperte di crema per cercare di guarire tutti questi tagli e vesciche che mi ritrovo e che certe volte mi fanno scambiare per un tossico. Non è un capolavoro ma l'ho apprezzato particolarmente per la sua carnalità che ti scivola addosso e suda e brilla e sborra, per la boxe (e vengo da una notte, visto che non riuscivo a prendere sonno, di incontri su youtube), per il suo non avere speranza, per condurti in basso e sempre più in basso nel seguire la storia di Biagio, per farti sentire l'incapacità di cambiare, di abbandonare quel cazzo di “paese e stato mentale che ti rovina da sempre la vita, di trovare la propria strada, di scoprire la propria identità sessuale e accettarsi per ciò che si è anche se non si comprende pienamente chi e cosa si dovrebbe essere e perché parlarne, di recidere i cordoni con tutta una storia familiare piena di dolori e di quelle regole familiari che devi accettare altrimenti non lavori e non te la cavi e ti giudicano tutti uno schifo, di fregarsene del giudizio altrui, del malocchio, dei rituali, del dovere, del lavoro di merda, di accettare l'amore e la possibilità di diventare altro da ciò a cui tutti dicono sei sempre stato destinato.

La mamma di Sara disse a sua figlia di lasciarmi perdere: ero un disgraziato, meglio morire che stare al mio fianco. Mia moglie mi riferì quelle parole una sera a cena, ma non diedi granché importanza alla cosa. Mi tornò in mente, però, di aver indugiato a lungo, un paio di anni prima, sull'acqua che Lia aveva usato per togliere un malocchio, mi convinsi che quell'evento mi aveva messo addosso la maledizione di un altro.” (pag. 100)

No, non ce la fai a cambiare, a vivere e torni in quella casa dove non vorresti mai tornare.

Torni a fingere, a maledire, a farti del male, a mentire, a odiare, a sdraiarti a letto con la persona che non hai mai amato ma che non lascerai mai, a lavorare per estinguerti, a costringerti a scambi sessuali sempre più degradanti, a morire un pezzo dopo l'altro senza che a qualcuno gliene freghi qualcosa di te.


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