"Il guardiano notturno" di Louise Erdrich (Feltrinelli, traduzione di Andrea Buzzi)

 

“Le cose avevano cominciato ad andar male, per come la vedeva Zhaanat, quando avevano cominciato a dare ai luoghi il nome di persone, figure politiche, religiosi, esploratori, invece che quello delle cose vere che accadevano in quei luoghi, sognare, mangiare, la morte, l'apparizione di animali. La confusione dei chimookomaanag fra l'eternità della terra e il breve arco di tempo che i mortali vi trascorrono era tipica della loro arroganza. Ma Zhaanat pensava che quel comportamento avesse provocato una frattura nella vita dei luoghi. Gli animali giravano alla larga da quei posti sporcati dai nomi degli umani. Anche le piante avevano cominciato a crescere a fatica. Le più delicate fra le sue piante medicinali si stavano estinguendo completamente, o magari si erano sradicate trasferendosi in zone segrete dove nemmeno Zhaanat riusciva a trovarle. E adesso persino quei posti già mezzo rovinati, che portavano il nome di santi, di colonizzatori e religiosi, quei posti se li stavano prendendo. Nella sua esperienza, quando quella gente cominciava a parlare di prendersela, la terra era già andata.” (pag. 326)

Sono arrivato all'ultima pagina de“Il guardiano notturno” di Louise Erdrich (Feltrinelli, traduzione di Andrea Buzzi), Premio Pulitzer per la narrativa 2021, senza nemmeno accorgermene tanto la scrittrice è stata incredibile nell'avvolgermi in un groviglio di storie realmente accadute, leggende, apparizioni, tragedie, microstorie quotidiane. 

C'è un ritmo perfetto in questo romanzo corale.

Me lo sono sentito in testa.

Basato sulla vita di Patrick Gourneau, guardiano notturno e nonno dell'autrice che nel romanzo diventa Thomas Wazhashk, che combattè strenuamente contro la House Concurrent Resolution 108, del 1 agosto 1953, voluta dal senatore mormone Arthur J. Watkins che intendeva abrogare i trattati bilaterali stipulati con le nazioni indiane e che implicava l'estinzione immediata di cinque tribù, compresa la tribù chippeva della Turtle Mountain, “Il guardiano notturno” è il romanzo forse meno “sperimentale” e ardito scritto da una delle più grandi scrittrici statunitensi viventi ma è un'opera straordinaria nel suo saper mescolare, senza mai essere agiografica, la durissima lotta dei nativi per il diritto all'esistenza e  quella di Thomas, indiano chippewa scosso da visioni e ancora segnato dai traumi della dipendenza dagli alcolici, che decide di combattere contro coloro che vogliono distruggere la sua tribù, quella della giovane e poverissima Pixie che sogna una vita migliore rispetto a quella che vive nella riserva (afflitta da alcolismo, povertà endemiche, assimilazione forzata) e che cerca disperatamente la sorella Vera finita nelle spire della prostituzione a Minneapolis (le pagine ambientate a Minneapolis sono cariche di un dolore che lascia senza fiato il lettore) e che ha lasciato un figlio, del giovane pugile (altra chicca: le pagine sul pugilato, sport e disciplina che ho nel cuore)  Wood Mountain che non sa ancora che fare di se stesso e che è perso d'amore per Pixie ma anche dell'insegnante, bianco, Barnes che si strugge d'amore per Pixie e per altre due donne e poi di tutta un'infinità di altri straordinari personaggi: nativi distrutti dall'alcool, madri e padri e anziani che cercano disperamente di tenere in vita tradizioni che vengono giorno dopo giorno distrutti dalle politiche governative, dai missionari, dalla modernità, dal denaro.

Un romanzo che racconta, con toni che alternano passaggi drammatici ad altri più umoristici e visionari, di un popolo sull'orlo dell'estinzione ma non vuole però arrendersi a coloro che li hanno depredati, uccisi, derisi, trasferiti, imbrogliati e che pur sapendo che il passato, fatto di caccia ai bisonti e libertà estrema nelle pianure e nelle foreste, non potrà mai tornare decide comunque di combattere con tutte le proprie forze una battaglia, quasi senza speranza, per conservare la propria dignità, le proprie tradizioni ancestrali, non accettando che il proprio territorio venga svenduto, avvelenato, distrutto in nome del falso mito del Progresso, dell'assimilazione, del Grande Padre Bianco che sta a Washington.

Un romanzo che ha una voce femminile alla quale è impossibile resistere.

Te la senti nel cuore, che ti scalda, conforta.

Mentre lo leggevo ho pensato continuamente alla mia nonna materna.

Ai suoi capelli bianchi lunghi due metri.

Al suo sguardo mai accomodante verso il mondo che la circondava e alle sue favole inventate sul momento che ci facevano sognare e ci liberavamo da santi, miracoli, colpe e ci riportavano a qualcosa di più profondo e ancestrale ma con uno sguardo al futuro, per non farci diventare schiavi di qualcosa che ci avrebbe fatto soltanto male.

A lei che mi diceva: Non avere mai paura dei sogni. Accoglili. Ti stanno parlando. Ti stai parlando.

Se fosse qui, le chiederei di tutti gli incubi che non mi abbandonano mai.

“C'erano libri religiosi migliori? Anche la Sacra Bibbia, ricca di forza e poesia, era piena di fandonie. Thomas le aveva trovate affascinanti, ma tutte quante alla fine non erano altro che storie, meno importanti di quella della Donna celeste, di manidoog alla creazione, delle storie di Nanabozho. A tutto ciò, e ancor più al libro privo di umorismo che avevano lasciato Elnath e Vernon, Thomas preferiva la loro figura soprannaturale di Nanabozho, che ingannava le anatre, si arrabbiava con il proprio culo e gli dava fuoco, creava una montagna di merda per scendere da un albero trovandovisi bloccato sulla cima, aveva un lupo per nipote, nessuna coscienza, che aveva dipinto il martin pescatore di colori splendidi e quando i suoi figli avevano fame li nutriva per mezzo di raggiri, che si buttava il pene dietro la schiena e le palle verso occidente, che si tramutò in ceppo e fece sembrare il suo pene un ramo su cui si posava il martin pescatore, che uccise un dio sparando alla sua ombra e che creò tutto ciò che c'è di utile e buona parte di ciò che è essenziale, come la risata.” (pag. 361)

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