"Le stelle si spengono" di Richard Wagamese (La Nuova Frontiera, traduzione di Nazzareno Mataldi)
Sta arrivando il Natale, la fine dell'anno ed è questo il periodo in cui sento più forte la mancanza di mia madre, dei suoi occhi, della sua freddezza, della sua ritrosia a parlare di se stessa, del cibo che preparava con una grazia che mi lasciava ogni volta senza parole ed è anche per questo che il bellissimo romanzo di Richard Wagamase “Le stelle si spengono all'alba” (La Nuova Frontiera, traduzione di Nazzareno Mataldi) mi ha spezzato in due, mi ha travolto facendomi piangere quando l'ho chiuso. L'ho presa molto sul personale. Ancora oggi a 42 anni i libri (quelli che mi piacciono) continuano a prendermi emotivamente, a parlarmi al cuore, alla mente, certamente in maniera diversa rispetto a quando ero bambino (alle spalle ho migliaia di libri letti, riflessioni, lutti e una vita abbastanza di merda) ma sempre lasciando un segno, mettendomi a nudo. Ho pensato a mia madre mentre leggevo questo romanzo ambientato in Canada che racconta, con un'andatura classica da brividi (quasi un romanzo di formazione), dell'incontro di un sedicenne e il padre alcolizzato che l'ha abbandonato in tenera età e che ormai prossimo alla morte chiede di essere trasportato in una valle ed essere seppellito come un guerriero Ojibwe. È un romanzo che sembra un abbraccio e che sussurra (anche nella drammaticità degli eventi non c'è un solo passaggio urlato, debordante) di un incontro-scontro fra un figlio che vive nella natura, che sa tutto dei boschi, che vive di lavoro e silenzi, che è stato cresciuto da un uomo che gli ha insegnato a cacciare, ad ascoltare il ritmo della Natura e un padre che si è ucciso a colpi di alcool, pieno di misteri, incubi, ferite e senza parole, che vive in una catapecchia abbracciato a una prostituta e che durante il viaggio cercherà di raccontare al figlio la sua vita, i suoi tragici errori, la sua dipendenza, il suo essere stato spogliato dalla sua cultura di appartenenza. Un romanzo, di luci incredibili e ombre inquietanti, intriso della potenza creatrice, ammaliatrice, curativa delle storie che restituisce voce e dignità al mondo dei nativi americani, distrutto dalla Civiltà, dal Progresso, dalle scuole, dall'alcool. Un romanzo che vive di silenzi, di morte, di lentezza, di bellezza assoluta, di spazi sconfinati, della difficoltà di perdonare e essere perdonati, di degrado della vita cittadina e con un finale indimenticabile che mi ha lasciato senza parole e mi ha interrogato sulla vita che conduco, sul lavoro che faccio, su come spendo le giornate e mi ha fatto pensare a mia madre, a come faticasse a parlare di se stessa, a come il suo dolore e le sue sconfitte siano penetrate dentro di me, a come ci siamo amati e odiati, a come ha affrontato la sua agonia, alla promessa che le ho fatto e a quelle due che non ho saputo mantenere: portarla a Creta e a Land's End e lei che me lo rinfaccia col sorriso sulle labbra pochi giorni prima di morire.
Mi sarebbe tanto piaciuto trascrivere le ultime tre pagine ma non lo faccio per non rovinarvi il piacere della lettura.
Uno dei miei romanzi dell'anno.
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