"Storia del mio breve corpo" di Billy-Ray Belcourt (Edizioni Black Coffee, traduzione di Sara Reggiani)
“Cominciamo dal corpo, perché è lì dentro che tanto viene vinto e poi perso, perso, perso.
Un giorno mi sono sentito solo, è bastato questo. Una densa foschia, un'opacità asfissiante: era la solitudine che si prova a essere estraniati dal proprio corpo e, per estensione, dal mondo. La mia solitudine non chiedeva nulla in cambio; s'infettava per noncuranza, e lei risentita dilagava. Finché non è diventata una foresta sopra di me.” (pag. 39)
“Storia del mio breve corpo” di Billy-Ray Belcourt (Black Coffee Edizioni, traduzione di SaraReggiani) é un libro che ho letto e riletto. All'inizio non mi aveva del tutto convinto ma rileggendolo sono stato invaso dalla forza espressiva, dilaniante, sfrontata, commovente dello stile di questo autore appartenente alla Driftpile Cree Nation in Canada che con questo libro esplora in maniera fuori dai soliti triti schemi la realtà del mondo queer all'interno del mondo degli ndn e dell'intera società, il colonialismo (il genocidio non è mai finito, in Canada come nel resto delmondo), il dramma delle riserve, il corpo, la questione di genere, la riappropriazione della lingua verso nuove forme di comunicazione, la liberazione da narrazioni stereotipate, l'amore, il sesso, i pregiudizi, l'identità di genere.
“L'NDN è l'anima di un Paese. Il razzismo quindi è una specie di istinto suicida collettivo, un esilio autoinflitto. La condizione NDN: essere immersi nel presente ma non esservi ancorati; appartenere a un passato che non tramonta e a un futuro che procede a ritroso. Il problema è che il presente è nell'aria, è adesso, è una mano libera che si apre e chiude dentro di noi, come un cuore che batte. La prolungata solitudine, se non altro, spinge l'individuo in una posizione morale. Esistere come un vuoto animato o reso persona è esistere in quanto segnale di pericolo ambulante.” (pp. 92-93)
Un memoir che vive di frammenti bellissimi, qualche ripetizione di troppo, fiammate improvvise, esplosione di dolore e rabbia, pagine di diari che ricostruiscono una storia d'amore, poesie, citazioni/riferimenti di autori come Michel Focault, Judith Butler, Roland Barthes e di libri che, se non verranno tradotti, purtroppo non leggerò mai (e quanto mi piacerebbe leggere le due raccolte di poesie dell'autore “NDN Coping Mechanism” e “This Wound Is a World”) e tanti spunti di riflessioni per mettersi in discussione e guardarsi allo specchio e nel mio caso anche guardare me stesso, il mio corpo che non ho mai amato, il mio non sapere come vivere in questa società del cazzo liberandomi da un sacco di pregiudizi/eredità familiari/codici da rispettare per poter mantenere un lavoro o studiare o camminare per strada, usare questa lingua infarcita da rispetto/onore/servilismo, sentirmi lontano da tutto e tutti e con una gran voglia di andarmene via.
“Annidata alla foce del fiume Attawapiskat sulla baia di James, in Ontario, la remota comunità Cree degli Attawapiskat è costantemente sottoposta a un convergere di forze che calpestano la sofferenza trasformandola in una poltiglia di dati statistici. In un certo senso il suicidio emerge come reazione politica a sofferenze strutturali che da tempo negano spazio alla gioia. Fra le cause di queste sofferenze si annoverano abitazioni inadeguate e malfatte, sovraffollamento, pessima gestione dei fondi statali, danni ambientali, trauma intergenerazionale e così via. Non c'è da stupirsi, se come assistete ogni giorno al lento propagarsi della violenza coloniale da una costa all'altra, che questi siti di cattivi sentimenti siano il prodotto dell'antico progetto governativo di sopprimere la vitalità NDN. Tali fattori ambientali di stress andrebbero considerati alla stregua di tanti Tristi Mietitori, entità ripugnanti che si nutrono della felicità della gente, che ci consumano uno dopo l'altro fino a ripulirci completamente l'anima. Perché cos'altro avrebbe spinto più di cento Cree Attawapiskat – la cui popolazione, stando al censimento del 2011, conta appena 1549 membri – a tentare di togliersi la vita tra il settembre 2015 e l'aprile 2016? oggi scrivo a difesa della gioia, sperando che possa espandere i propri confini malgrado questo Stato tentacolare e la sua cruenta Storia ci blocchino ogni via. Che debito abbiamo con la macchina della vita che sputa veleno in faccia agli innocenti? E con “innocenti” non intendo coloro che non si immischiano di politica (condizione già di per sé impossibile). La purezza è fuorviante. Con questa parola problematica, “innocenza”, mi riferisco a chi litiga col mondo per stabilire quale sia il proprio posto nell'arena del sentimento nazionale. Riuscire a sopravvivere a una realtà che ci dà sempre contro, che si oppone a ciò che siamo e rendiamo immaginabile, è un atto sociologicamente significativo. Quello che so è che non è giusto chiedere agli NDN di arrangiarsi in un mondo che non hanno né voluto né contribuito a costruire. Io questa la chiamo “precarietà obbligata”. Ed è terreno fertile per le tendenze suicide.” (pp. 122-123)
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