intorno a "Erika Sattler" di Hervé Bel (Edizioni Clichy, traduzione di Fabrizio Di Majo)

 

“Quel giorno aveva scoperto un altro mondo, fatto di gioia e di forza.

E aveva visto Hitler salire lentamente i gradini del palco. A prima vista le era sembrato un tipo qualsiasi, con i suoi baffetti e la sua uniforme scialba, grigia o verde, davanti al leggio. Poi aveva parlato. No, all'inizio era rimasto in silenzio, braccia conserte, sopracciglia aggrottate, girando lentamente la testa, come un maestro che aspetta che i suoi scolari facciano silenzio. E il vocio si era spento da solo. Allora aveva cominciato a parlare. Delle frasi pronunciate lentamente, a voce bassa. In qualche modo un adagio, l'inizio lento, quasi inudibile a fare ancora più silenzio per capire quello che diceva. Improvvisamente il tono era salito, la sua voce aveva preso una potenza inattesa. Quel che diceva, in fin dei conti, aveva smesso di avere importanza. La voce svegliava in lei delle emozioni quasi musicali, ogni sorta di sensazioni, collera, esaltazione, tristezza, e gioia, una gioia indescrivibile. Improvvisamente tutti credevano a Hitler e quasi vedevano quello che lui annunciava. Quell'uomo era stregato, era portatore di un messaggio straordinario. La gente lo ascoltava a bocca aperta, e le emozioni dell'uno destavano quelle dell'altro.
Erika aveva sedici anni. Era tornata a casa trasformata. Sarebbe stata nazional-socialista. Per il Reich, più tardi avrebbe avuto cura della casa, con l'unica preoccupazione di infondere coraggio a suo marito, che sarebbe stato un soldato. E avrebbe fatto tanti bambini, per dare alla Germania la forza di vincere i suoi nemici. Era esaltata come da un poema epico.” (pag. 51)

Lo so già che lo straordinario, violento, durissimo romanzo di Hervé Bel non è un romanzo per tutti. Non a tutti andrà di leggere di una nazista convinta. Di una nazista che crede fino alla fine a Hitler, che sogna di sposare una SS, di avere figli, di vedere un mondo senza ebrei, con gli slavi asserviti, che ritiene giusta e necessaria ogni genere di nefandezza pur di rendere grande la Germania nazista. No, non è per tutti seguire la fuga di Erika nei primi giorni del gennaio 1945 dalla Polonia occupata verso ciò che rimane della Germania distrutta in un atmosfera di disfatta, bombardamenti continui, corpi squarciati, approfittatori, follie, stupri. No, lo so che non è per tutti seguire i suoi sfoghi contro i deboli, contro chi lei ritiene responsabili della disfatta, contro chi vive di romanticismo e di paure e di dubbi e hanno indebolito il Reich, contro chi non è disposto a offrire la sua vita per Hitler e si nasconde, diserta, piange. Contro chi si fa qualche dubbio a bruciare cataste di ebrei o a denunciare il dissidente anche se è il fratello di tuo marito. Erika Sattler è la nazista perfetta, devota, gioiosa, ridente, bellissima e noi la seguiamo nella sua fuga rovinosa che è attesa di riscatto e vittoria, una fuga che diviene la difesa della vit dia un bambinetto che ha raccolto fra la neve e protetto dalle violenze dell'Armata Rossa e tutto questo mentre il ex suo marito Paul, divenuto SS per l'amore mai veramente corrisposto di Erika e colpevole di aver voluto salvare un prigioniero dei campi di concentramento, viene torturato in una prigione e cerca di sopravvivere a un finale già scritto. Mentre Paul è il nemico, l'ingranaggio rotto, il fallito, il corruttore, il debole, il vile Erika è l'anima pura, quella che si è data anima e corpo al nazismo, che non desiste, che non si arrende. Per lei esiste il nazismo e nient'altro. Non si arrende mai. O forse sì. Perché poi tutti rimaniamo soli. Ma soli in che modo? E la solitudine di Erika ci appartiene? Ci muove a compassione? Le sue sofferenze, il suo sentirsi sempre fuori posto, incapace di stare con gli altri, di accettarli per quello che sono siamo disposti ad accettarli? Sono disposti i lettori a seguirla fino alla fine?

“I detenuti sono degli insetti. Erika si diverte a vedere come si agitano. Vede nella sua mente l'immagine di un gigante che potrebbe schiacciarli con le sue zampe d'elefante. A lei non piacciono questi uomini: uomini?” (pag. 33)

Ecco, per me questo romanzo è stata un'avventura incredibile e l'autore è stato magistrale nel costruire un romanzo che non cede mai alla tentazione di avere compassione, di addolcire la guerra e le nefandezze, anche minime, che commettono gli esseri umani. 

Bel regala al lettore una donna indimenticabile, un essere umano inafferrabile, odioso, che per qualcuno diverrà l'incarnazione del Male, per qualcun altro una merda totale per altri un groviglio di interrogativi su ciò che siamo o potremmo essere o forse solo un cadavere della storia o magari solo una donna bellissima come Erika o forse qualcosa che non potrà mai avere risposta.

Mentre lo leggevo ho pensato alla Riscina. Una fascista, MSI, e poi Fiamma Tricolore o Forza Nuova (non ricordo, mi scuso) del mio paese. Fascista convinta che fu rasata a zero dopo il 25 aprile. Visse una vita convulsa, fotografa, persino in Persia. E poi divenne la postina del mio paese. Un mio ex collega voleva scriverci attorno qualcosa. Era una donnina minuta. Magrissima. Che non aveva mai rinnegato il Duce e una volta durante un duro scambio mi disse che sarebbe dovuto nascere un nuovo Hitler per dare una sveglia a tutto il mondo decadente. Mi disse anche che aveva grande rispetto per  tutti quelli della mia famiglia. Le chiesi perché e lei mi rispose che mia nonna era una che non piangeva, che non si faceva mettere i piedi in testa e che era andata a bussare da tutti i bottegai che facevano gli usurai e mercato nero dando loro dei ladri. 

“Andrea, lo sai già come è andata in paese, basta che guard i bottegai, gli artigiani, quelli che avevano la terra come sono diventati ricchi coi fascisti e con la guerra e col dopoguerra e col comunismo e coi sindacati. Ma nessuno di loro ha mai conosciuto i fascisti. No, nessuno. Nessuno cazzo. E invece tua nonna non ha mai avuto un cazzo. Solo dolore e morte.” 

Avevo 14-15 anni allora. Me la ricordo bene la Riscina. Faceva proselitismo quel giorno. Le risposi che ero un radicale. E lei scoppiò a ridere. “Un finocchio come tuo zio allora.”.“Camere a gas in Germania Andrea. Ci sarebbero state per te.” Sorrisi con la mia sigaretta, felice di avere uno scontro. Ma ancora oggi non so darle torto su come tanti bottegai, artigiani, contadini ci hanno fatto soldi a palate col fascismo, la guerra, il dopoguerra, la ricostruzione, il boom economico, la vendita di terreni, la speculazione. Per non parlare degli industriali che hanno giocato con le vite umane.

E poi c'erano mia nonna e mia madre, nata nel 1946, che hanno vissuto in una stamberga fino agli anni '70 senza soldi.

E i soldi del matrimonio mia nonna li ha trovati un giorno al Totocalcio.

E c'era mio nonno paterno che gestiva un albergo senza volerci fare soldi, pagando tutti in regola, e aiutando gli immigrati calabresi a trovare una casa, un lavoro in regola. Non perché era un eroe ma un semplice liberale repubblicano azionista di provincia alieno alla retorica comunista e sindacalista. E proprio per questo, visto che non amava i fascisti e nemmeno i democristiani e i comunisti, era sempre considerato un estraneo al mondo resistenziale.

E poi c'era una cugina di mia nonna che pensò di vivere nel Fascismo una rivincita contro lo Stato, il Re, i possidenti, i massoni

E poi che è difficile, assurdo, cercare di trovare un incastro per tutto.

E poi la finiamo qui perché altrimenti mi incazzo.

E poi mi viene da piangere.

Perché poi alla fine siamo tutti soli.

E quando mi guardo allo specchio mi vergogno sempre di me stesso.


E poi che quando leggete questo romanzo e vi sentite pieni di sicurezze su quello che fareste o avreste fatto allora non ci avete capito un cazzo.


E ogni vostra risposta mi sembra sempre una menzogna.


Una gigantesca cazzata e presa per il culo.


Ma é una serata di questo tipo.


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