NESSUNO TOCCHI CAINO - MATTANZA ARABIA SAUDITA, 81 ESECUZIONI IN UN GIORNO + Paul Bremer, Iuri Maria Prado, Davide Giacalone e qualche libro sulla scrivania

NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS

Anno 22 - n. 11 - 19-03-2022

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : MATTANZA ARABIA SAUDITA, 81 ESECUZIONI IN UN GIORNO
2.  NEWS FLASH: AGO E FILO, PIEGATO SU UNO SGABELLO, COSI’ PROVO A RICUCIRE LA MIA VITA
3.  NEWS FLASH: EGITTO: SETTE ISLAMISTI GIUSTIZIATI PER OMICIDI DI POLIZIOTTI
4.  NEWS FLASH: BIELORUSSIA: COMITATO ONU PER I DIRITTI UMANI CONDANNA L’ESECUZIONE DI PAVLOV
5.  NEWS FLASH: USA: PUBBLICATA L’ULTIMA EDIZIONE DI ‘DEATH ROW USA’
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :


"MATTANZA ARABIA SAUDITA, 81 ESECUZIONI IN UN GIORNO" di Sergio D’Elia su Il Riformista del 18 marzo 2022

“Giustiziare” ottantuno persone in un solo giorno non era mai avvenuto nella terra di Saud. È difficile immaginare come una tale mattanza sia potuta accadere nell’arco di una sola giornata. Si dice “giustiziare” ma non v’è nulla di più opposto all’idea di giustizia quanto questa pratica sommaria del bene con cui si pretende di compensare il male arrecato. Le autorità saudite non hanno rivelato se i “giustiziati” siano stati uccisi in modo tradizionale mediante decapitazione o tramite fucilazione. Non lo sapremo mai perché i loro corpi non verranno restituiti alle loro famiglie per paura che i funerali diventino oggetto di una rinnovata protesta, preludio di future vendette. Ottantuno esecuzioni! Che siano decapitazioni o fucilazioni, ottantuno riti patibolari della legge divina si sono svolti all’ombra del tempio di Dio. Neanche a voler vedere un piccolo esercito di boia assunti allo scopo e chiamati a un lavoro straordinario dall’alba al tramonto. Ottantuno condannati portati nel campo dell’estremo supplizio e, uno alla volta, con le mani legate dietro la schiena, costretti a chinarsi davanti al loro carnefice. Il fucile puntato di un plotone o la lunga spada della decapitazione sguainata ottantuno volte per fare giustizia nel nome di Allah. Immaginate: la sabbia gialla e assolata del deserto irrorata di sangue ottantuno volte in un giorno.
Ottantuno esecuzioni sono state la più grande operazione di giustizia capitale nella storia del regno del deserto. La metà delle persone “giustiziate” proveniva dalla regione orientale del Qatif popolata dalla minoranza sciita del Paese, un’area ribelle che ha assistito a manifestazioni anti-governative sempre più accese da quando la Primavera Araba ha colpito la regione nel 2011. Un peccato d’origine aggravato, forse, da altri e più gravi peccati.
È stata una esecuzione “salvifica”, ha giustificato il regime saudita, contro la minaccia alla pace e all’ordine del mondo intero. Le esecuzioni del 12 marzo avrebbero coinvolto terroristi stranieri e persone condannate per “aver ucciso uomini, donne e bambini innocenti”.
Secondo gruppi per i diritti umani, alcuni dei giustiziati sono stati anche torturati, la maggior parte dei processi condotti in segreto. In alcuni casi, secondo i documenti ufficiali, non v’era alcuna traccia di sangue nei reati addebitati. Altri uccisi erano accusati di avere “credenze devianti”, una formula che comprende sia il fanatismo islamico violento dei sunniti “giustiziati” per appartenenza ad Al-Qaeda e allo Stato Islamico sia la versione sciita dell’Islam propria degli Houti anch’essi uccisi nell’infornata di esecuzioni effettuate a tutela della pace sociale e religiosa del regno saudita.
Quando, alcuni giorni dopo la mattanza, i volti dei condannati sono stati rivelati, si sono visti tra loro giovani uomini, alcuni appena adolescenti al momento dell’arresto, con la barba rada e il sorriso sulle labbra. Un’immagine straziante mostra Hussain Ahmed Al-Ojami che tiene in braccio il suo giovane figlio. È stato un orribile rito sacrificale, una mattanza di piccoli agnelli sull’altare della guerra santa al terrorismo consumata nei giorni in cui il mondo ha visto l’indicibile, l’impensabile avvenire in Europa, nel cuore dei suoi valori universali, dei diritti umani inviolabili alla vita, alla libertà e alla sicurezza degli individui.
È stata la terza uccisione di massa del genere nei sette anni di regno di re Salman e di suo figlio Mohammed, il principe ereditario. Il bilancio delle vittime ha persino superato l’esecuzione del gennaio 1980 di 63 militanti condannati per aver sequestrato la Grande Moschea della Mecca. Nel 2018, dalle pagine del “Time Magazine”, Mohammed bin Salman aveva annunciato al mondo l’alba di un rinascimento saudita, meno avvolto dal velo ultraconservatore della legge islamica. Il suo piano era quello di limitare la pena di morte all’omicidio.
Invece, nel braccio della morte saudita ci sono ancora prigionieri di coscienza, altri arrestati da bambini o accusati di crimini non violenti. Dopo la brutale furia giustizialista degli ultimi giorni, anche su di loro incombe ora un pericolo mortale, se nulla accade, soprattutto da parte di chi ha a cuore la vita di persone “colpevoli” che hanno attentato alla vita di persone “innocenti”.
Nella galleria di foto dei giovani condannati a morte si vedono ragazzi indossare magliette della squadra del cuore, anche di squadre che militano nella Premier League.
Boris Johnson ha appena concluso la sua visita in Arabia Saudita. Era andato per convincerla ad aumentare la produzione di petrolio per compensare la carenza di carburante russo perso a seguito delle sanzioni successive all’invasione dell’Ucraina. Dopo la carneficina compiuta in nome della pace e della giustizia, ci saremmo aspettati da parte saudita piccoli atti di segno diverso, almeno la moratoria di un giorno sulla pena di morte. Invece, al suo arrivo, Johnson è stato accolto da un luccichio di spade sguainate che hanno fatto rotolare altre tre teste.

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

AGO E FILO, PIEGATO SU UNO SGABELLO, COSI’ PROVO A RICUCIRE LA MIA VITA
Antonio Aparo* su Il Riformista del 18 marzo 2022

È un tema letterario ricorrente quello del prigioniero che ritrovandosi messo ai ferri, afferra l’uncinetto e sferruzza la catenella per allentare le catene della vita. Io ho scelto il ferro dell’ago, io ricamo. I compagni mi guardano e non comprendono la fatica del corpo su uno sgabello, della schiena piegata, delle mani pazienti e rapide, la passione delle dita, degli occhi concentrati dodici ore al giorno in silenzio, alla luce incerta di una lampadina, ma così io racconto. Perché il cuore non scoppiasse e la mente non impazzisse ho preso ago e rocchetto tanti anni fa e nel filo che scende e risale ho cominciato a imprigionare i giorni, i mesi, gli anni, mentre il tempo si è messo a tessermi le rughe in volto. Curvo la schiena su idee che prendono la forma di fili colorati, accolgo la storia che la tela mi offre come accettazione della vita e imparo a renderla al meglio. La stoffa è data come la vita, a me la possibilità di renderla migliore. In ogni ricamo racconto quel
 lo che non ho saputo fare e che ho imparato: serro il filo nell’ago, entro nella tela e raggiungo il rovescio, sfogo la voglia di tornare indietro e invertire il corso degli eventi, risalgo e poi rientro, cucire e scucire diventano processi di revisione interiore. Infilo lo sguardo sul fondo di un ricordo, seguo la legge del passo, trasformo il vuoto in un punto, ripasso le ragioni, comprendo gli errori.
Era il 16 giugno 1990, una sera d’estate in cui la guerra di mafia arroventava la Sicilia già calda e io ero a casa sotto misure di prevenzione, che mi confinavano alla mia città con tre timbri al giorno. Arrostivo carne e verdure quando sentii le scariche di armi da fuoco. Mi affacciai dalla balaustra del terrazzo, due uomini si avvicinavano di corsa a un corpo straziato a terra, uno gli sparava un colpo alla nuca, rientravano veloci in una macchina in moto e si dileguavano. A terra un ragazzo inerme. Mio fratello. Mi precipitai in strada, sperando fosse ancora vivo, lo presi fra le braccia e con le mani cercavo le ferite e la vita, ma mi ritrovai imbrattato di sangue e di una strana materia vischiosa, era il suo cervello. Mio fratello era un uomo enorme, lo caricai in auto con l’aiuto di mia sorella Teresa e senza patente guidai fino all’ospedale di Siracusa, dove lo lasciai con lei su una barella per precipitarmi di nuovo a casa affinché non mi arrestassero per violazione degli obblighi. Con la morte di mio fratello, la mia casa un tempo felice, fu avvolta dal silenzio. Poi ho perso mio padre e poi un figlio che non ho mai conosciuto, perché mia moglie era incinta.
Fui arrestato con un pretesto il 5 luglio 1990, quasi subito insomma, e non ebbi il tempo di vendicarmi. Due mesi dopo furono arrestati gli assassini di mio fratello, Tarascio, Bottaro, Di Benedetto, perciò pensai che prima o poi mi sarei vendicato in carcere. Ho trascorso 27 anni e due mesi al 41 bis, poi da Novara sono stato trasferito a Voghera, dove giungevano altri detenuti, finché arrivò un ispettore, mi porse una lista di nomi, mi chiese se qualcuno di quelli potesse essere un problema. Dissi di no, poi fui accompagnato in magazzino a ritirare la mia fornitura e finalmente in sezione. Lì notai un uomo che tremava vicino al frigorifero, aveva il morbo di Parkinson, ma io lo riconobbi: era l’assassino di mio fratello. Sentii il dolore riemergere dalle viscere della terra ed entrandomi dai piedi risalirmi tutto il corpo. Mio fratello, mio padre, mio figlio. Ora lui era davanti a me, il dolore offrì la mano all’odio che mi disse: «Fallo ora, fallo subito, non avrai un’
 altra opportunità. Sono 27 anni e tre mesi che attendi!». Ero un felino pronto ad aggredire ma quando mi trovai a un metro da lui, una voce flebile mi raggiunse chiamandomi per nome: «Antonio, Antonio, sei tu?». Era lui, ero davvero io, era la voce dell’amore e del perdono che ci ha unito le mani affinché io lo aiutassi nelle fatiche e nelle sofferenze della sua malattia. Ho capito che io ero diverso, che ero migliore degli uomini che eravamo stati. Così ci siamo salutati e non gli ho nemmeno chiesto a Di Benedetto perché lo avesse ucciso mio fratello. Solo dopo alcuni giorni, qualcuno si accorse che fra me e Di Benedetto c’era un divieto d’incontro e lo trasferirono a Opera, dove mi trovo anch’io dal 2019, pur in una sezione diversa dalla sua e qui oggi chiedo perdono per lui, ché mi provoca dolore vederlo soffrire e in lui ritrovo mio fratello morente. In lui ritrovo mio fratello.
La vita prosegue oltre gli strappi e come un’esperta ricamatrice sutura le ferite. Io aspetto dalle mie Parche, tessitrici della tela che mi resta, il dono per il ricamo mio più grande, intreccio di dolore e rimpianto, racconto di ciò che è stato e speranza del presente, aspetto un filo per disegnare la possibilità di tornare a esistere. Quel filo si chiama speranza.
*Ergastolano detenuto a Opera


EGITTO: SETTE ISLAMISTI GIUSTIZIATI PER OMICIDI DI POLIZIOTTI
Le autorità egiziane hanno giustiziato sette uomini il 9 e 10 marzo 2022 in relazione a casi "politicamente motivati" e dopo un processo legale segnato da torture e mancanza di prove, ha dichiarato a Middle East Eye un gruppo per i diritti umani.
Queste esecuzioni portano a 105 il numero di condanne capitali “politiche” applicate da quando il presidente Abdel Fattah el-Sisi è salito al potere nel 2014.
Secondo il Comitato per la Giustizia (CFJ) con sede a Ginevra, il 10 marzo le autorità carcerarie egiziane hanno giustiziato quattro uomini, circa un anno dopo che la massima corte d'appello del Paese aveva confermato le loro condanne.
I quattro uomini, insieme ad altri 32 imputati, erano stati accusati di appartenenza a un gruppo illegale e di aver ucciso otto agenti di polizia a Helwan il 9 gennaio 2016.
Il CFJ ha affermato che quattro degli accusati sono stati vittime di esecuzioni extragiudiziali dopo il loro arresto.
"Il silenzio della comunità internazionale sulle violazioni dei diritti umani in Egitto, in particolare il diritto alla vita, ha incoraggiato le autorità a proseguire nell’esecuzione di condanne a morte di massa emesse in processi privi degli elementi minimi di equità", ha dichiarato il CFJ l’11 marzo.
Ha aggiunto che le persone giustiziate erano state sottoposte a tortura e sparizione forzata dalla data del loro arresto fino alla loro comparsa ufficiale davanti al pubblico ministero.
Tutti gli imputati hanno affermato di essere stati sottoposti a torture all'interno della sede dell'Agenzia per la Sicurezza Nazionale, utilizzate per estorcere loro confessioni usate poi per il rinvio a processo.
Né l'accusa né il tribunale hanno tuttavia prestato attenzione alle violazioni, inoltre le accuse di tortura non sono state indagate, ha detto al Middle East Eye il direttore esecutivo di CFJ Ahmed Mefreh.
Mefreh ha aggiunto che gli imputati non avevano avvocati che li rappresentassero nel corso della prima sessione di indagini, in violazione della costituzione egiziana.
Nel giugno 2017, il tribunale penale aveva inserito gli imputati nelle “liste del terrorismo” senza alcun processo o condanna.
La misura ha avuto implicazioni legali per gli imputati, impedendo loro di viaggiare, disporre dei loro passaporti, congelando i loro beni finanziari e licenziando coloro che lavorano come dipendenti pubblici, vietando loro di ricoprire qualsiasi incarico governativo o di candidarsi per cariche pubbliche.
"È un caso motivato politicamente, poiché i sospetti erano oppositori del regime di Sisi e non hanno ricevuto un processo equo", ha detto Mefreh a MEE.
La vicenda è nota sui media come il caso "Helwan Microbus Cell".
I quattro imputati giustiziati il 10 marzo si chiamavano Abdullah Mohamed Shoukry, Mahmoud Abdel Tawab Morsi, Mahmoud Abdel Hamid al-Geneidy e Ahmed Salama Ashmawy.
Il 9 marzo, altri tre uomini sono stati giustiziati in relazione al caso noto come "Soldati d'Egitto", più di due anni dopo la conferma delle sentenze capitali da parte della Corte di Cassazione, relative a presunti attacchi contro le forze di sicurezza nel 2014 e nel 2015.
Nel 2020, altri 10 imputati nello stesso caso sono stati giustiziati. I tre sono stati identificati come Belal Ibrahim Sobhy Farahat, Mohamed Hassan Ezzeddin Mohamed Hassan e Tageddin Monis Mohamed Hemeidah.
Il CFJ ha affermato che gli imputati nel caso "Soldati d'Egitto" sono stati vittime di sparizione forzata dopo il loro arresto e sono stati costretti a confessare sotto tortura. Gli avvocati non sono potuti intervenire nella fase relativa alle indagini.
(Fonti: Middle East Eye, 11/03/2022) 

BIELORUSSIA: COMITATO ONU PER I DIRITTI UMANI CONDANNA L’ESECUZIONE DI PAVLOV
Il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite il 10 marzo 2022 ha condannato la Bielorussia per l’esecuzione di Victor Pavlov, il cui caso è ancora all’esame del Comitato. Victor Pavlov è la quindicesima persona a partire dal 2010 la cui condanna capitale è stata eseguita nonostante il suo caso fosse ancora pendente davanti al Comitato per i Diritti Umani. Il Comitato aveva chiesto alla Bielorussia di sospendere l’esecuzione mentre gli esperti indipendenti esaminavano le denunce di violazione dei diritti umani nel suo caso.
Pavlov era stato arrestato il 3 gennaio 2019 con l’accusa di omicidio e furto. Aveva firmato una confessione lo stesso giorno senza la presenza di un avvocato. Era stato immediatamente posto in custodia cautelare da un pubblico ministero e cinque mesi dopo era stato portato davanti a un giudice. Era stato condannato a morte dal tribunale regionale di Vitebsk nel luglio 2019. A seguito del suo appello la Corte Suprema della Bielorussia aveva confermato la decisione del tribunale nel novembre dello stesso anno.
Nel 2020 Pavlov si è rivolto al Comitato per i Diritti Umani sostenendo di essere stato torturato durante la detenzione, di essersi visto negare l’accesso all’assistenza legale e di essere stato sottoposto a un processo iniquo. Il Comitato ha registrato la denuncia di Pavlov e ha avviato l’esame del suo caso.
Oltre a ribadire le sue richieste di sospensione dell’esecuzione, dal giugno 2021 il Comitato ha chiesto più volte chiarimenti alla Bielorussia sulla situazione di Pavlov, alla luce delle informazioni ricevute secondo cui era stato giustiziato a porte chiuse. La Bielorussia non ha tuttavia risposto alle ripetute richieste della Commissione.
Recentemente un tribunale della Bielorussia ha finalmente informato la famiglia di Pavlov che la pena di morte è già stata eseguita, senza fornire alcuna informazione sulla data dell’esecuzione e luogo di sepoltura.
In casi simili il Comitato ha ritenuto che l’esecuzione segreta costituisca una violazione del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici.
«Nei casi di pena di morte, la mancata comunicazione ai parenti, da parte di uno stato parte, delle informazioni sulla data dell’esecuzione di una persona e sul luogo di sepoltura del corpo lascia le famiglie in uno stato di angoscia e stress psichico, il che costituisce una violazione del Patto», ha spiegato Arif Bulkan, vicepresidente della Commissione per i Diritti umani.
Il Comitato «ha inoltre ritenuto che il mancato rispetto da parte della Bielorussia della sua richiesta di misure provvisorie costituisca una violazione del Protocollo Opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, in base al quale gli stati parte sono obbligati a cooperare con lealtà con il Comitato. La procedura sulle misure provvisorie ai sensi del Protocollo Opzionale mira a impedire a uno stato parte di intraprendere qualsiasi azione che avrebbe conseguenze irreparabili. La Bielorussia ha aderito al Protocollo Opzionale nel 1992».
La Bielorussia «resta l’ultimo paese in Europa e in Asia centrale ad applicare la pena di morte». Nel suo ultimo rapporto sulla Bielorussia, pubblicato nel novembre 2018, il Comitato per i Diritti Umani ha sottolineato che la Bielorussia «dovrebbe considerare l’istituzione di una moratoria sulle esecuzioni come primo passo verso l’abolizione per legge della pena di morte e la ratifica del Protocollo al Patto, commutare in pene detentive tutte le condanne a morte pendenti e aumentare gli sforzi per cambiare la percezione pubblica sulla necessità di mantenere la pena di morte». Nonostante l’esecuzione di Victor Pavlov, il Comitato per i Diritti Umani, come fa abitualmente, completerà l’esame del suo caso in una delle prossime sessioni.
(Fonti: Ohchr, 10/03/2022)


USA: PUBBLICATA L’ULTIMA EDIZIONE DI ‘DEATH ROW USA’
Pubblicata l’ultima edizione di "Death Row USA" aggiornata al 1° gennaio 2022 (“DRUSA Winter 2022”): sono 2.436 le persone nei bracci della morte.
2388 si trovano nei bracci della morte dei vari stati, 44 nel braccio della morte federale, e 4 nel braccio della morte militare.
Rispetto al Rapporto di un anno prima, sono 92 persone in meno, e nel complesso la cifra totale scende ai livelli del 1990.
L’ormai tradizionale rapporto trimestrale DRUSA, curato dal Legal Defense Fund (LDF) del NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) conferma il lento ma costante calo della popolazione del braccio della morte iniziato nel 2000. Il 1° luglio 2001, DRUSA riscontrò il livello massimo di detenuti nei bracci della morte: 3.717 persone. Da allora, progressivamente, è diminuito di 1.281 unità, il 34,5%.
Le giurisdizioni in cui è in vigore la pena di morte sono 29 (27 stati, più 2 giurisdizioni: il braccio della morte federale e quello militare), quelle dove è stata abolita 24. Tra le 29 dove è in vigore, 4 sono in stato di moratoria.
Da alcuni anni i curatori del rapporto Drusa hanno introdotto la categoria delle “condanne a morte attive”. Con questo termine si riferiscono a quelle persone che hanno avuto la condanna a morte annullata o nella parte del verdetto di colpevolezza, o nella parte di determinazione della pena, o che comunque sono in attesa della ripetizione del processo o del completamento degli appelli. Tra le persone presenti nei bracci della morte, DRUSA Winter 2022 ne individua 164 le cui condanne non sono “attive”. Si tratta di persone le cui condanne al momento sono annullate, ma potrebbero essere ripristinate con la ripetizione del processo. Del resto, quando una condanna a morte viene annullata, il giudice può stabilire se il detenuto deve essere tolto dal braccio della morte, oppure no. Nella maggior parte dei casi il giudice non dispone l’uscita dal death row, sapendo che contro il suo annullamento farà certamente ricorso la pubblica accusa, e quindi l’annullamento potrebbe essere annullato, anche in tempi relativamente brevi.
Ulteriormente, il rapporto DRUSA scorpora i dati di coloro che al momento non potrebbero essere giustiziati perché nel loro stato è in vigore una moratoria, moratoria che non è previsto termini a breve. Alla data del 1° gennaio 2022, 843 condannati a morte appartengono a bracci della morte di stati in cui era in vigore una moratoria decisa dal Governatore: California (692), Oregon (22) e Pennsylvania (129).
Pur in mancanza di una formale dichiarazione di moratoria, DRUSA considera “in moratoria” anche i 44 detenuti del braccio della morte federale in quanto l’Attorney General (ministro della giustizia) ha ordinato di riesaminare i cambiamenti apportati dall’Amministrazione Trump per accelerare le esecuzioni. La sospensione del protocollo di esecuzione federale viene, in questo conteggio, equiparata ad una moratoria. Nei 3 stati in moratoria e nel braccio della morte federale sono 887 i detenuti che DRUSA considera protetti da una moratoria.
Sottraendo le condanne a morte non attive e quelle delle giurisdizioni in moratoria, DRUSA usa da alcuni anni la categoria delle “persone ad effettivo rischio di esecuzione”, che alla data del 1° gennaio 2022 era di 1.385 persone. Di converso, le condanne a morte “non attive” sono 1.051, il 43,1% del totale.
Come sempre, il braccio della morte più popoloso è quello della California (692), lo stato più popoloso degli Stati Uniti (40 milioni di abitanti) ma anche uno stato che non compie esecuzioni da 15 anni, dal gennaio 2006. Alla California segue: Florida (330), Texas (199), North Carolina (139), Ohio (135) Pennsylvania (129), e Arizona (117). Alcuni stati hanno pochissime persone nel braccio della morte: nel Wyoming il braccio della morte è vuoto, nel New Hampshire e South Dakota c’è 1 detenuto, nel Montana ce ne sono 2, e 4 nel braccio della morte militare (l'ultima esecuzione di un soldato è stata nel 1961). Il detenuto in New Hampshire è in una condizione particolare: lo stato nel 2019 ha abolito la pena di morte, ma non retroattivamente. In questi casi chi si trovava nel braccio della morte al momento dell’abolizione deve attendere che un giudice definisca “sproporzionata” la sua condanna a morte rispetto a chi commettesse lo stesso reato dopo l’abolizione, e ne disponga la commutazione. È quanto è accaduto due trimestri fa in Virginia, dove la pena di morte è stata abolita nel marzo 2021, e l’Amministrazione Penitenziaria è intervenuta di propria iniziativa trasferendo i 2 detenuti del braccio della morte in un “normale” reparto di massima sicurezza.
Il motivo principale del calo del braccio della morte è la diminuzione di nuove condanne. Infatti le nuove condanne sono molte meno rispetto alle condanne eseguite, ai detenuti morti di vecchiaia o di malattia nei bracci ella morte, e alle condanne a morte annullate in appello. Anche l’ambito geografico della pena di morte è sempre più limitato. A livello nazionale, la popolazione nel braccio della morte continua a riflettere le disparità razziali nella pena capitale.
Il 42,3% dei prigionieri nel braccio della morte è bianco, il 41% è nero, il 13,7% latino-americano, l'1,9% asiatico e l’1% nativo americano. Il due per cento di tutti i detenuti nel braccio della morte sono donne, 50.
Da quando la pena di morte è stata reintrodotta negli Stati Uniti nel 1976 (la prima esecuzione è stata compita nel 1977) al 1° luglio 2021, sono state giustiziate 1.540 persone: 860 bianchi (55,8%), 528 neri (34,3%), 128 ispanici (8,3%), 17 pellerossa (1,1%), 7 asiatici (0,4%). In totale, 1.523 uomini (98,9%) e 17 donne (1,1%).
"Death Row USA" registra anche la razza e il sesso delle vittime relative alle esecuzioni effettuate. Le 1540 persone giustiziate erano accusate di aver ucciso un totale di 2255 persone. Divise per razza le vittime erano 1.699 bianche (75,3%), 353 nere (15,6%), 155 ispaniche (6,9%), 41 asiatiche (1,8%), e 7 pellerossa (0,3%).
Divise per sesso le vittime erano 1.140 maschi (50,6%), e 1.115 femmine (49,4%). Il 10% delle persone giustiziate (149) aveva rinunciato volontariamente a presentare appello. Dal 1977 ad oggi, e prima che nel 2005 la Corte Suprema vietasse le esecuzioni di minorenni, 23 persone erano state giustiziate per reati commessi da minorenni. Dal 1977 al 1° ottobre 2021, lo stato che ha compiuto più esecuzioni è il Texas: 573. Rispetto alle 1540 persone giustiziate dal 1977 ad oggi, il Texas ha compiuto il 37,2% di tutte le esecuzioni. Segue l’Oklahoma (114, 7,4%), la Virginia (113, 7,3%), la Florida (99, 6,4%) e il Missouri (91, 5,9%).
(Fonti: DPIC, NtC)
 
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e Davide Giacalone: 
 

E qualche libro sulla scrivania



 

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