Ho in testa molte idee ma fatico a scrivere compiutamente, anche perché ho questa depressione che mi porto dietro come una seconda pelle e che mi toglie sonno, respiro, prospettive. Riempio taccuini con frasi. Ho quest'idea in testa che mi ronza da mesi ma non è ancora matura, non è ancora pronta e non ho alcuna fretta.
Intanto leggo, ascolto musica, stiro, rammendo e poi preparo qualcosa di orientale a pranzo per cercare di trovare un po' pace.
e "Per legge superiore" (del 2011 ma riproposto sempre da Sellerio nella collana "Promemoria) di Giorgio Fontana mi è piaciuto davvero molto, non tanto per la storia in sè, ma per come l'autore riesce a descrivere una Milano inaspettata (quella di via Padova, viale Monza), viva, multietnica, piena di colori, profumi, odori, povertà, contraddizioni angoli bui che e che sui giornali ci finisce solo per casi di cronaca nera e soprattutto per come fa vivere i tormenti di un uomo buono ma non un eroe come il magistrato Roberto Doni, 65 anni, che ha perso anni prima il suo caro amico e collega Giacomo Colnaghi per colpa nei terroristi (la cui vicenda è narrata nel precedente "Morte di un uomo felice"). Un conservatore, un uomo devoto alla Giustizia, che fa dell'osservanza della Legge il suo stile di vita, insofferente ai miasmi del Palazzo di Giustizia, alle consorterie, alla modernità. Un uomo che si vede trascinato da Elena una giovane giornalista in un'indagine per dare giustizia a un immigrato, Khaled, finito in carcere per un'ingiusta accusa di aggressione nei confronti di una ragazza. Doni inizialmente non si fa coinvolgere dal calore e dalla passione di Elena ma lentamente, camminando insieme a lei in queste vie di Milano a lui sconosciute, entrando nelle case degli immigrati sente crescere dentro di se la voglia di mettersi in dubbio e a mettere in dubbio il sistema giudizio, dell'accertamento delle prove e della verità. Dove sta la verità? Nei processi, in un tribunale o la verità vive a prescindere delle sentenze? Un romanzo che descrive magnificamente la dissoluzione di un uomo e insieme il suo riscatto, la sua rinascita approssimativa, il suo rimettersi in gioco, il suo non accomodarsi alle nuove promesse di carriera e di trasferimenti, alle aspettative della moglie che gli chiede di non farsi coinvolgere, di lasciar perdere. Ma come fai a non farti coinvolgere quando passeggi per le vie di Milano abbandonando per almeno per una notte le zone di conforto e sicurezza, le vetrine scintillanti, i palazzi del centro, il Duomo, la circonvallazione interna? Te la senti venire addosso con tutta la sua bellezza, la sua forza, i suoi demoni, i suoi squarci di vita e libertà e di incredibile e inaspettata lentezza.
"Cercava qualcosa che promettesse un rimpianto. Un segno, un simbolo che mostrasse il segreto di quella strada: qualcosa di struggente che vendicasse Milano. Ci dovevano essere altri verbi per descrivere la città. Ma la comprensione a quel livello era difficile - era emotiva. Un'arte cui non era abituato. Che poteva aspettarsi da se stesso, in fondo. Lui era uno che prendeva le ferie per andare in ufficio.
A furia di lottare contro il male, rifletté, pensi che tutto il mondo si riduca a questo, a una contrapposizione fra guardie e ladri, un gioco dalle regole semplicissime, finisci a credere che nulla, fuori dal Palazzo, possa esistere: che le migliaia di pagine di una sentenza contro la 'ndrangheta racchiudano per intero quanto c'è da dire nell'universo, e che la gente non se ne accorga per ignoranza e comodità. E che persino la bellezza - persino la musica, l'arte, l'amore - siano soltanto lampi di luce passeggera, frammenti provvisori, particelle così instabili da morire dopo una frazione di secondo: niente di vero, niente di essenziale, niente che possa resistere all'onda del dolore.
Anche per questo era qui, anche per questo.
Svoltò sulla sinistra e intuì la presenza dell'acqua poco distante: il naviglio della Martesana. Si ritrovò sulle rive di un canale, gli argini rovinati, qualche canneto, e un parco alle sue spalle, e uno spiazzo pieno di roulotte. Una collinetta artificiale divideva il paesaggio. Sulle panchine qualche ragazzo con lo zaino fra i piedi: bigiare scuola, fumare sigarette all'aria aperta.
Doni scese per un pezzo sul sentiero che costeggiava il naviglio. Dall'altro lato le case si affacciavano sull'acqua, e ogni tanto apparivano orti un po' desolati, e barili di plastica blu come quelli che usava suo zio per stipare il letame.
Tornò su via Padova, il secondo canale che doveva navigare, e fece nuovamente rotta verso il centro. Palazzi e strade persero interesse di colpo. Doveva muoversi di lì. Finì in un reticolo di vie dietro viale Monza. Un'enoteca e un alimentari gestito da due grassi italiani facevano a gara a chi alzava prima la saracinesca.
Doni si fermò a bere un tè alla menta in un kebab. Prese, la tazza, la portò fuori suoi tavolini, e respirò a fondo con il naso - spezie e pelle. Quando ebbe finito attese un istante guardando quello scorcio, ascoltando il rumore del treno poco distante, i binari che affogavano nel cemento.
E forse non c'entrava nulla, e di certo non pagava una sola oncia di violenza, ma guardando la luce invadere il quartiere, mentre si dirigeva verso la fermata di Rovereto per correre a lavoro, riuscì a vedere un framemnto di bellezza e verità - e non importava che fosse dolorosa, o incattivita: solo lì come una pulsazione attraverso i corpi degli ubriachi e dei pazzi e le bottiglie vuote e i materassi bruciati, solo lì poteva pensare che la verità esisteva ancora." (pp. 212-214)
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