rileggendo il bellissimo "L'arte di vivere in difesa" di Chad Harbach (Rizzoli, traduzione di Letizia Sacchini)
In questi giorni ho riletto nuovamente "L'arte di vivere in difesa" e riposto questa mia vecchia recensione comparsa su Lankelot e corretta in alcuni passaggi:
“Su uno scaffale del suo ufficio Schwartz teneva una lunga fila di
DVD ordinati per data con la registrazione degli allenamenti in battuta
di Henry. Un archivio completo dei suoi progressi sotto la tutela di
Schwartz, una settimana di duro lavoro dopo l’altra, dalla prima
stagione a oggi. Avevano trascorso centinaia di ore a guardarli insieme,
smontando e ricostruendo i movimenti, fotogramma per fotogramma. Con
l’attrezzatura giusta e tempo da perdere, si sarebbe potuto estrarre un
fotogramma da ogni giorno di allenamento e ricomporre un video in
progressione cronologica, così che l’Henry in attesa della palla sarebbe
apparso magro e sfocato, con la mazza timidamente oscillante al di
sopra del gomito ossuto, mentre l’Henry che girava, accompagnando il
movimento con tale determinazione da toccarsi con la mazza tra le
scapole alla fine del gioco, sarebbe stato scolpito e risoluto, lo
sguardo duro, i ricci cancellati da un taglio a spazzola. La creazione
di un professionista, l’estrazione di efficienza bruta dal genio
innato.” (pag. 257)
Primo inning. Alla quasi totalità degli italiani (a meno che non siate
fans di Elio e Le Storie Tese) non frega quasi nulla del baseball e lo
stesso ragionamento potrebbe valere per il resto degli esseri umani che
vivono al di fuori degli Stati Uniti (tenendo sempre presente che pure fra
gli statunitensi ci sono milioni di persone che se ne fregano di questo
sport) o di quella ristretta cerchia di Paesi dove il baseball gode di
una certa popolarità come Cuba e Giappone. Il baseball passa per essere
un gioco incomprensibile, un gioco noioso, un gioco da femminucce, un
gioco da americani. Se siete su questa lunghezza d’onda, il mio
consiglio è di tenervi alla larga dal romanzo di Chard Harbach “L’arte
di vivere in difesa” (Rizzoli, 2012, traduzione di Letizia Sacchini)
perché questo romanzo vive interamente di baseball, parla di baseball, anche se è
lungo cinquecento pagine e c’è tantissima altra carne al fuoco oltre al
baseball. Non che quello di Harbach sia un romanzo escludente per chi se
ne frega del baseball, tutt’altro, è naturale non conoscere tutto ciò
di cui si legge ma questo è un romanzo che pretende quantomeno una
disposizione mentale o una concessione di credito verso questo gioco. E
quindi la voglia di conoscerlo, di immaginarsi nel cervello un
diamante, di immaginare cosa significa tenere una mazza fra le mani. Un
romanzo che tratta di sport è una faccenda complicata e infatti di buoni
romanzi sportivi non è che ce ne siano in giro poi tanti. È complicato
scrivere di sport, così come è complicato filmarlo e se è già difficile
scrivere e filmare in generale, provate voi a immaginare quali
difficoltà abbia dovuto superare Harbach per scrivere questo romanzo.
Molto più facile commentare lo sport vero, narrarlo, ricordarlo ma
scriverci attorno un romanzo di finzione, girarci attorno un film è una
questione davvero complicata. Ecco, allora in questo primo inning vi
lascio la porta aperta. Se avete già pagato il biglietto, rimanete
seduti perché il libro vi porterà a spasso. Se siete alla ricerca di un
biglietto-romanzo che racconti di sport (ripeto, non è solo un romanzo
di sport) in maniera convincente e fuori dagli schemi mentali a cui
siete abituati, allora spendete i vostri soldi e cercatelo anche usato
perché l’usato non trasmette infezioni e un libro usato di sport strizza
l’occhio ai cimeli, alle figurine da collezionare, ai palloni o alle
magliette da farsi firmare dal vostro gicatore preferito e al massimo fidatevi dei bagarini giusti che
il biglietto ce l’hanno ma si fanno un po’ desiderare per smollarlo. Se
invece del baseball così come dello sport non ve ne frega nulla,
allontanatevi, però ecco, se avete visto chessò, “Toro Scatenato” di
Martin Scorsese, spero che sappiate riconoscere la bellezza che
scaturisce quando grazia narrativa e sport s’intrecciano. Perché, così,
tanto per capirci, “Toro scatenato” mica parla solo di boxe così, come,
per fare un altro esempio, nemmeno “Casinò”, sempre di Scorsese, parla
solo di casinò.
“Per Schwartz era questo il paradosso fondamentale del baseball, o
del football, o di qualsiasi sport. La gente lo amava perché lo
considerava un’arte: un’attività apparentemente inutile praticata da
individui con un particolare talento, che sfuggiva a qualsiasi tentativo
di definizione eppure a tratti sembrava comunicare qualcosa di vero, o
addirittura cruciale, sulla Condizione Umana. E la Condizione Umana
consisteva, alla fine, nel fatto di essere vivi e di avere accesso alla
bellezza, di poterla anche ogni tanto creare, ma di finire un giorno
morti, senza più bellezza alcuna.” (pp. 257-258)
Secondo inning. Quando parliamo di baseball non stiamo certo parlando
di un oggetto non identificato per lettori e spettatori tv. Basti
pensare che uno dei romanzi più importanti e sconvolgenti degli ultimi
vent’anni, “Underworld” di Don DeLillo, ruota tutto intorno a una
pallina da baseball scomparsa ed è francamente indimenticabile il
prologo, “Il trionfo della morte”, che si chiude con: “Tutti i frammenti
del pomeriggio si accumulano intorno alla sua figura a mezz’aria. Urli,
schiocchi di mazza, vesciche piene e sbadigli isolati, il numero
infinito di cose che, come granelli di sabbia, non si possono contare.
Tutto sta scivolando indelebilmente nel passato.” Stilare una lista
completa è impossibile ma mi basta ricordare il colpevolmente ignorato
romanzo “Il gioco di Henry” di Robert Coover che vede come protagonista un
uomo che ha fatto del baseball la propria ossessione e che non è più in
grado di distinguere fra reale e irreale e vive in un campionato
alternativo, oppure “Il migliore” di Bernard Malamud portato sullo
schermo da Barry Levinson con Robert Redford nelle vesti di
protagonista, “Un anno terribile” di John Fante, “The Fan” di Peter
Abrahams sul rapporto malato fra campione e tifosi e mi fermo qui. Anche
se devo confessare che il mio amore per il baseball deriva
principalmente dai Peanuts e da un piccolo grande capolavoro dei cartoni
animati come “Tommy la stella dei Giants”. Non mi ricordo la striscia
precisa, la situazione, gli scambi fra Charlie Brown e Piperita Patty,
so solo che leggendo delle disavventure di quella squadra fantasma
sbocciò il mio amore per uno sport che non avrei mai praticato. Ancora
oggi quando rileggo le strisce di Schulz vengo preso da una commozione
fortissima e per certi anni evitai di leggerle per non bloccarmi
totalmente, così come mi accadde, per esempio, con “I nove racconti” di
Salinger o “In Utero” dei Nirvana e ultimamente, forse anche per merito della
colonna sonora dei Mogwai, con la prodigiosa serie televisiva francese
“Les Revenants”, che infatti mi sono ripromesso di non seguire più. Per
quanto riguarda “Tommy”, credo che siano in pochi quelli che l’abbiano
visto e che se lo ricordino (più facile rinverdire i fasti di Holly,
Mimì, Mila) mentre io lo conservo distintamente come una delle serie
animate più dure e massacranti che io abbia mai visto (ma era una
caratteristica che accumunava, credo, la totalità degli anime sportivi e non solo) e
che si è sedimentata così in profondità nel mio cervello che talvolta
la faccia di Tommy mi compare in sogno insieme a quella del pugile Rocky
Joe.
“Il baseball era un’arte, ma per arrivare all’eccellenza ci si doveva
trasformare in una macchina. Non contava quanto magistralmente uno
riuscisse a giocare a volte, come si comportasse nella sua giornata
migliore, quante giocate spettacolari mettesse a segno. Non si era
pittori o scrittori: non si lavorava nell’intimità della propria stanza
per poi scartare gli svarioni e mostrare al mondo solo i capolavori. Per
un giocatore di baseball, come per ogni macchina, l’essenziale era la
capacità di ripetersi. I momenti di ispirazione non erano nulla in
confronto all’eliminazione dell’errore.” (pag. 258)
Secondo inning, postilla 1. Rimanendo nel campo delle narrazioni che
s’intrecciano alle discipline sportive, come dimenticare “La regina
degli scacchi” di Walter Tevis?. Anche se la domanda più ovvia si starà
già facendo breccia nei vostri cervelli: “Sicuro che il gioco degli
scacchi sia uno sport?” Non lo so. E la stessa questione potrebbe essere rivolta al biliardo.
“Agli scout importava poco e niente della grazia sovrannaturale di
Henry, e in caso contrario voleva dire che erano degli esteti
rincoglioniti, e come scout facevano cagare. Sei capace di funzionare a
richiesta, come un’auto, una fornace, una pistola? Sei capace di
azzeccare il tiro nei minimi dettagli cento volte su cento? Se non
cento, almeno novantanove?” (pag. 258)
Secondo inning, postilla 2. Spesso quando si legge di sport si
finisce per sedersi su un trenino che corre su binari abbastanza
prefissati e che potremmo azzardare a definire classici, sia che le
storie siano di pura finzione sia che narrino di fatti realmente
accaduti. I soggetti solitamente sono: ascesa e caduta di un campione,
la resurrezione del campione, il povero sfigato ragazzo di campagna che
diventa un campione dopo infiniti tribolamenti, squadre malconce
composte da uno shaker di terze scelte, tossici, obesi,
superinfortunati, provinciali, minoranze etniche (persino animali) che
partendo sfavoriti riescono a vincere campionati o a stabilire record
con l’indimenticabile abbraccio/bacio/scopata/fuga finale, oppure grandi
campioni che furono uccisi in quella data guerra, in quel campo di
concentramento. Spesso il messaggio di queste opere è educativo,
pomposo, assolutorio, conservatore e rende insopportabili, illeggibili,
soporifere, indistinguibili l'una dall’altra. Ed è per questo che un
romanzo come “I mastini di Dallas” si distingue dal resto della colata
lavica e proprio per questo viene dimenticato, recuperato, e, badate
bene, nuovamente dimenticato. Harbach prende tutte questi argomenti e in
parte li mescola, in parte se ne disfa ma soprattutto gioca sulle
atmosfere, sui particolari, sulle differenze, su personaggi non
incasellabili e con poco di educativo. L’opera di Harbach si distingue
da gran parte della produzione sportiva (mi sto muovendo per
semplificazioni) già nel titolo che è un vero e proprio programma:
“L’arte di vivere in difesa” (in originale “The Art of Fielding”).
Provate a soppesarlo in bocca. Pronunciatelo a voce alta, poi recitatelo
in silenzio nella vostra testa. È solo una mia fisima o c’è qualcosa di
mantrico in questo titolo? Anche se non hai nemmeno aperto il romanzo
questo titolo ti sta già facendo capire che Harbach sta percorrendo
un’altra strada e ti sta chiedendo di dargli la mano, di fidarti di lui e
nello stesso di sentirti libero di fare quello che vuoi: diciamocela
tutta, non è che la difesa e i difensori stuzzichino più di tanto i
tifosi, i lettori, gli spettatori (a meno che, trasvolando sui campi da
calcio, non sia uno come Alessandro Nesta, che piaceva non solo per le
sue doti tecniche), quando senti qualcuno che parla di difesa già lo
consideri un mollaccione, un timidone, uno che ha paura del mondo oppure
una testa quadrata, uno tutto muscoli e niente cervello, uno che non
esce mai dal guscio e che vuole solo picchiare e farti il più male
possibile. E tra l’altro “L’arte di vivere in difesa” ricorda altri due
libri che nei titoli uniscono alla parola Arte due parole che per molti
non c’entrano nulla con l’arte: “L’arte della guerra” e “Lo zen e l’arte
della manutenzione della motocicletta”. Vivere in difesa che significa?
Ecco allora in questa postilla del secondo inning forse state
cominciando a capire che il romanzo di Harbach ha come nucleo
fondamentale il baseball ma non racconta solo di baseball e chiariamoci
subito che la bellezza di questo romanzo sta nel fatto di non aver
utilizzato il baseball come pretesto per parlare d’altro, insomma come
cornice, no, Harbach scrive di baseball come Dio come comanda e poi
scrive di amicizia, droga, sesso, morte, omosessualità, sconfitta,
perdita. Perché il baseball non lo giocano dei robot ma degli esseri
umani in carne e ossa, in questo caso giovanissimi, che studiano,
sognano e sono circondati da familiari, professori, ragazze, divorziati,
cani, scrittori e parecchio altro.
Secondo inning, postilla 3: Ho volutamente dimenticato ciò che David
Foster Wallace ha compiuto scrivendo di tennis in “Infinite Jest” e nel
suo atto d’amore per Roger Federer perché se si sale su quell’aereo si
decolla verso le galassie dell’indescrivibile.
“All’estrema sinistra dello scaffale di DVD c’era una videocassetta
priva di etichetta. Schwartz la estrasse dalla custodia e la inserì nel
vecchio videoregistratore. “Cos’è quella?” chiese Henry. “Vedrai.”
Schwartz la guardava ogni tanto, in piena notte, con lo stesSo spirito
con cui rileggeva certi passaggi di Aurelio. Gli sembrava così, di
consolidare certi componenti ineffabili della sua personalità che
minacciavano di sfuggirgli se non fosse rimasto vigile.” (pag. 258)
Terzo inning. La Trama. “L’arte di vivere in difesa” è un romanzo
corale e dallo stile che si mantiene nitido per tutte le sue cinquecento
pagine, mescolando registri diversi per ciascuno dei personaggi e
modulandosi perfettamente nel raccontare le varie fasi di gioco sempre
evitando insopportabili derive giornalistiche. Sostanzialmente la trama è
esile: c’è un ragazzino, Henry Skrimshander , che vive in una sperduta
cittadina del South Dakota. Ama giocare a baseball, il suo mito è il
grande campione Aparicio Rodriguez, che ha studiato nei minimi
particolari e di cui ha letto il suo “Arte della difesa”, un libretto di
pensieri/aforismi/insegnamenti che per Henry è come il Vangelo. Durante
una partita Henry viene notato da Mike Schwartz, ragazzotto del Westish
College (college non di primo piano situato sul lago Michigan) con le
ginocchia e le braccia distrutte per il troppo giocare a football e
baseball e che aspira a entrare nelle migliori università del Paese.
Mike rimane letteralmente folgorato dalle qualità da interbase di Henry,
riconosce in lui il talento, la grazia, la facilità dei gesti tipici di
un campione e decide di portarselo con sé a Westish per farlo maturare
come sportivo e come uomo in modo tale da trasformarlo in un vero
campione da Major League. A Westish Henry primeggia in breve tempo,
lasciando restare a bocca aperta tutti quanti. Ma Henry è anche un
ragazzino e vive in un college e allora la narrazione si fa sin da
subito corale: ecco Owen Dunne, compagno di stanza e di squadra di
Henry, omosessuale e con un talento letterario, soprannominato il
“Buddha”, che intreccerà una tenerissima relazione con il rettore Guert
Affenlight, cultore di Herman Melville e autore in gioventù di uno
straordinario libro di critica letteraria. Non dimentichiamo nemmeno
Pella, la giovane figlia del rettore, che dopo anni di silenzio, molla
il marito a San Francisco e torna a vivere nel College, guadagnandosi da
vivere come lavapiatti nella mensa. Ragazza fragile, depressa, piena di
tic, che farà perdere la testa a Mike. E intanto Henry si bloccherà, il
suo talento sembra andare in fumo e intorno a lui saranno tante altre
questioni ad andare in rovina. Le cose si faranno complicate e mi fermo
qui perché la storia prende delle strade inusuali che è un peccato
rivelarvi.
“Quel giorno la videocamera era stata posizionata su un treppiede
dietro il piatto di casa base. La rete di protezione tagliava
trasversalmente l’inquadratura. Il sole spandeva una luce lattiginosa,
sbiancando una parte dello schermo. Così, quando Henry si spostava sulla
destra, la sua canottiera bianca e il suo intero corpo ossuto si
dissolvevano in uno spettrale alone di luce. Henry si osservò recuperare
alcuni rasoterra e tirarli con forza in prima base. “È quel giorno a
Peoria” Schwartz annuì." (pp. 258-259)
Quarto inning. Il romanzo vive del rapporto fraterno/sportivo fra
Henry e Mike. Un classico rapporto fra studente e insegnante, fra
discepolo e maestro, fra giocatore e allenatore e che almeno nella prima
parte ricorda il rapporto che corre fra il maestro Yoda e Luke
Skywalker in “Guerre Stellari”. Il maestro che, una volta riconosciuta
l’eccezionalità dell’allievo che si trova fra le mani, non si dimentica
di educarlo, di spronarlo, di fargli sputare sangue ogni giorno, di
fargli apprendere tutto ciò che ancora non conosce, insegnandogli i
valori dell’umilità, della fatica, del sacrificio, della solidarietà,
della sconfitta. Tutto ok, solo che Harbach inserisce nella storia
l’invidia, il dramma, il fallimento. A Mike le cose smettono di girare
per il verso giusto, le domande per accedere alle migliori università
vengono respinte una dietro l’altra mentre il suo protetto comincia a
ricevere le prime offerte dalle grandi squadre, si parla di contratti,
di record da battere, gli scout hanno occhi solo per lui. Mike comincia
a vivere con più distanza e difficoltà il rapporto con Henry e quando
Henry comincia a vacillare e poi crolla di schianto non sa più che fare
per lui. Crolla tutto, crolla Henry e crolla anche il loro rapporto e
tutti i tentativi per rimetterlo in piedi sono del tutto inutili perché
manca la reciproca fiducia oltre che la fiducia in se stessi. Ma Harbach
non si ferma qui, instilla un altro dubbio nella narrazione, tramite la
figura di Pella: ma non è che c’è sempre stato qualcosa di malato in
questo rapporto? In questa dipendenza reciproca? Non è che i due si sono
fatti più male che bene e sioè si sono dimenticati del cuore, della
vita fuori dai campi e sono diventati ciascuno padre/padrone dell’altro?
Non è che questo crollo è salutare qualunque cosa poi potrà accadrà?
Anche perché Harbach ha evitato fin da subito qualsivoglia scontro fra
il vecchio campione al tramonto e il giovane campione che scalpita al
suo fianco. Henry è un campione che non si è mai visto e Mike non si
mette mai in competizione con lui. Però forse Mike sta educando Henry
come se fosse un cane e non un essere umano. Pensi che tutto sia finito e
poi c’è questo finale che vi riempirà la testa di dubbi: che diavolo di
scelta è quella che fa Henry? Harbach dà credibilità a questa scelta.
La sentirete dentro di voi, lo spero. Crescendo, o per meglio dire
invecchiando, si tende a specchiarsi forse più in Mike che in Henry e ci
si chiede dove sta il limite fra educatore e kapò, fra amico e
proprietario esclusivo, fra maestro e desposta, fra genitore e stronzo. E
a proposito di insegnanti/educatori è impossibile non ricordare i
personaggi di Infinite Jest: Avril Incandenza, Charles Tevis della
Enfield Tennis Academy e Don Gately della Ennet House e ragionare su
cosa fanno per i propri allievi/tossici. Così come è impossibile non
ripensare al crollo, per tutt'altri motivi (ma anche no), di Hal
Incandenza.
“Cavolo chi te l’ha data?” “La mia squadra dell’American Legion.
Riprendevamo tutte le partite.” Al termine della performance di Henry in
quel torrido pomeriggio, Schwartz aveva dato un’occhiata alla
videocamera e aveva visto la lucina rossa ancora accesa. Voleva una
registrazione; voleva una prova tangibile che dimostrasse agli altri, ma
soprattutto a se stesso, che non aveva sopravvalutato il talento di
Henry, e tanto meno era stato vittima di un’allucinazione. Quindi aveva
requisito la cassetta, l’aveva guardata e riguardata e ne aveva inviata
una copia a Coach Cox. Era stata, in pratica, la domanda di ammissione
di Henry a Westish.” (pag. 259)
Quinto inning. La squadra. Harbach non si dimentica dell’esistenza di
una squadra intorno a Henry. Una squadra malconcia prima del suo arrivo
e che grazie al suo talento comincerà a “svoltare”. L’autore non
dimentica i riti personali e collettivi, le trasferte e quello che ci
accade durante, la vita negli spogliatoi, l'allenatore, gli allenamenti,
le rivalità fra i vari giocatori, i medicinali, gli stati d’animo
pre/durante/post partita, l’abbigliamento, le feste (divertentissime le
pagine in cui un giocatore della squadra si diverte con la sorellina di
Henry), gli obiettivi da raggiungere. Una squadra è un mondo strano, a parte, chiuso. Chiunque
abbia praticato sport di squadra conosce bene questa situazione.
C’è/viene trovato un posto per tutti: per il timido, il debole, il
campione, lo sputasangue, il cattivone, il talento, l’infortunato
cronico, il fuori di testa, il “costretto a giocare” dalla
famiglia/sponsor/professori/dirigenza, lo scarso. All’interno di una
squadra si sente la mancanza degli assenti. Si perde un arto e bisogna
necessariamente riplasmarsi. E allora Harbach va nuovamente a segno
perché la squadra comincia a decollare davvero quando Henry non c’è. La
squadra prima del grande talento valeva poco, con l’arrivo del talento
si mette in pista, senza il talento decolla. In parole povere il Westish
vince e continua a vincere senza Henry. Ma lui gioca ancora con la
squadra. Perché un conto è cambiare squadra, un conto è invece essere in
stand-by e tutti i compagni sanno che quel giocatore respira con te
anche se non c’è. Lui è lì con te, sta con te.
“Fino a quel giorno Henry
aveva ignorato l’esistenza della cassetta. Schwartz non avrebbe saputo
spiegare perché negli ultimi tre anni l’avesse tenuta per sé, quasi
contenesse una parte di Henry che apparteneva più a lui che a Henry
stesso. Una parte che non voleva condividere con nessuno. “Cavolo”
ripetè Henry. “Ero magrissimo. Date a quel ragazzino un po’ di
SuperBoost!”. “Shh! Guarda e basta.” Henry si passò una palla da
baseball da una mano all’altra e fissò lo schermo. “Perché mi fai vedere
questa roba?” “Guarda e basta, Skrim.” “Pensavo che magari avessi
notato qualcosa.” “Forse noterari tu qualcosa. Se stai zitto e guardi.”
Henry sembrò ferito. Smise di giocherellare con la palla e si concentrò
sulle immagini.” (pag. 259)
Sesto inning. Omosessualità/Owen/Pella. Owen, la sua omosessualità e
Pella sono altre due grandi qualità di questo libro. L’omosessualità di
Owen è descritta senza alcuna volontà di creare scandalo, non c’è
nessuno spirito macchiettistico, eccessivo e nemmeno ammantato di
istanze rivoluzionarie ma solo e soltanto normalità, perché la
condizione sessuale dovrebbe essere questo, normalità, qualunque essa
sia. Harbach però non dimentica il fatto che di problemi gli
orientamenti sessuali ne provocano ancora e allora ecco i dubbi dei
genitori di Henry quando vengono a sapere che il compagno di stanza del
figlio è omosessuale, ecco tutte le paure che Gert vive nello scoprire
le proprie pulsioni e nell’instaurare una relazione clandestina con
Owen. Le discriminazioni esistono tutte e si faranno sentire eccome,
perché un certo mondo rimane ancora arroccato su posizioni retrive ma
Harbach evita la pesantezza e i moralismi e lo far descrivendoci un Owen
totalmente accettato dalla squadra. E stiamo parlando di quei giocatori
che secondo alcuni stereotipi dovrebbero avere il cervello così
minuscolo da prendersela con omosessuali, eccetera. Harbach ha uno
sguardo di speranza verso le nuove generazioni ed evita tutti quei
patetismi narrativi che circondano questi argomenti. Altri due aspetti
mi hanno colpito: uno è come Harbach fa vivere l’amicizia sincera fra
Henry e Owen e come descrive il rapporto timido fra Gert, adulto/rettore
e Owen, ragazzino innamorato. Non c’è mai un passaggio pruriginoso e
anzi, quando descrive i pompini che i due si scambiano, è impossibile
trovarci qualcosa di scandaloso perché il sesso è quello, perché due
innamorati si fanno quello e si fanno tanto altro. Tutto qui. Su Pella:
era forse l’aspetto che maggiormente mi preoccupava. Mi aspettavo la
solita figura femminile che spesso compare nelle produzioni di argomento
sportivo e invece Pella è un personaggio con la sua importanza nella
storia ma soprattutto è una figura femminile fuori dai canoni. Bella sì,
ma a modo suo. Fragile, incompiuta, piena di tic però anche un po’
stronza, furbetta, snob, che non sa cosa fare nel mondo, che non ci
mette nulla ad andare a letto con Mike ma anche a fare altro, che fa le
scelte sbagliate perché ha provato comunque a fare delle scelte. È una
ragazza incompiuta e che probabilmente rimarrà sempre incompiuta ma che
scompagina le carte. A metà fra Piperita Patty e un dolcissimo angelo.
Senza di lei Henry sarebbe ancora fermo ma è anche per colpa di Pella e
della sua disponibilità che Henry rischia di scivolare ancora più in
basso. E questo vale anche per Mike. Non è che Pella capisca davvero
tutto, non è la Fatina magica che risolve i problemi, anzi ne crea degli
altri. Però è buona e a questo mondo è sempre più diffcile trovare
personaggi che abbiano in corpo queste tonnellate di bontà, senza quasi
mai un’ombra di cinismo. Personaggio memorabile davvero Pella. (E anche
qui, con le dovute differenze, perché non ne raggiunge il livello, ma ho
pensato a Joelle Van Dyne/ Madame Psychosis sempre di “Infinite Jest”)
Settimo inning. Campione. Tutti abbiamo un nostro campione di
riferimento. Che sia un astronauta, uno scienziato, un cantante, uno
scrittore, un parente, un amico, un santo. Ci indicano la via, ci fanno
innamorare, ci consolano nei momenti neri, ci fanno
lavorare/spostare/spendere soldi per poterli conoscere. Henry, che è un
campione in erba, senza Aparicio Rodriguez non sarebbe nessuno. Aparicio
è per lui il più grande giocatore di baseball sulla faccia della Terra.
Il campione che ha “scritto” un libro che contiene pillole di questo
tipo: “26. L’interbase è fonte di stabilità nel cuore della difesa. È
lui a proiettare tale stabilità, che i suoi compagni assorbono di
riflesso.” oppure “213. La morte èla definitiva sanzione dell’operato di
un atleta.” Un campione affronta le sofferenze, le sconfitte, si allena
duramente ogni giorno, vive in un’altra dimensione mentale. Sembra che
nulla lo tocchi. Non si deve far toccare da nulla altrimenti non
saprebbe scendere in campo. Il campione sa ripetersi, sa vedere qualcosa
che gli altri non vedranno mai, lo vede in anticipo e lo fa spesso, non
una volta sola. E lo fa con leggerezza, come se fosse la cosa più
semplice al mondo. Eppure dietro c’è sempre fatica. Senza allenamento un
giocatore non diventerà mai un campione. Fatto sta che questo campione
arriva per assistare a una partita della squadra di Henry e Harbach non
ce lo tratteggia proprio come un uomo da imitare, anzi. Ce lo mostra
come una mummia, uno che parla per frasi filosofiche, uno che non ha
sentimenti, uno che non prova empatia per un ragazzo che in quel momento
sta fallendo. Henry forse ha troppi sentimenti, anche se non li sa
esprimere. Aparicio è sugli spalti, distante, assente, un dittatore.
Spesso accade di uscire delusi dall’incontro con il nostro amato
campione. Perché forse non bisogna mai incontrarli i campioni ma
prenderli solo ad esempio.
“Adesso, quando Henry calpestava il suolo del diamante, i suoi occhi,
dicevano la stessa cosa, però con una sfumatura sempre più forte di
terrore. Non saprete mai come ci si sente. Il baseball, nel suo modo
pacato, era uno sport logorante. Il football, il basket, l’hockey, il
lacross erano tutti sport di contatto. Il giocatore poteva dare il
proprio contributo a forza di spintoni e di zuffe. Poteva redimersi
grazie al puro ardore.” (pag. 260)
Ottavo inning. Barba/ Herman Melville. Melville è uno di quegli
scrittori tanto citati ma purtroppo poco letti. Leggendo “L’arte di
vivere in difesa” forse vi verrà voglia di andare in biblioteca e
prendere in prestito i suoi scritti. Al Westish College Melville tenne
una conferenza e grazie a un’abile strategia di marketing lo scrittore è
divenuto anche un modo per far soldi (fondi, magliette, tazze, gadget) e
il rettore Gert è un super studioso di Melville e in gioventù ha
solcato come lui gli oceani. Ma soprattutto Melville/Moby Dick sono una
presenza costante in questo romanzo, in primis per la barba che cresce e
cresce sui volti di Mike e Henry perché quanto tutto crolla non conta
più curarsi di se stessi e la barba cresce quando si fa a meno del
superfluo, quando dell’apparire presentabili non si sa più che farsene
ma la barba cresce anche per rituali sportivi, perché tagliarsela
significherebbe sfortuna, e la barba cresce senza nemmeno che tu te ne
accorgi perché non fai più distinzione fra giorno e notte, fra partita e
allenamento, esattamente come accade ai giocatori della squadra del
Westish. Ma tornando a Melville, scrittore dalla bellissima barba,
impossibile non pensare al rapporto Achab/Moby Dick, alla nave, a
Ismaele mentre si legge questo romanzo e viene naturale sovrapporre il
comandante e la balena a Mike e Henry, a Henry e il baseball, Melville e
il mare a Gert e al lago Michigan, Ismaele a Pella, la ciurma alla
squadra. Servirebbe un’altra recensione per discutere di questi
argomenti però se avete letto Moby Dick vedrete che ci penserete anche
voi. E tra l’altro in una parte fondamentale del romanzo viene letto un
capitolo breve ma intenso di “Moby Dick” (nel romanzo “Moby Dick” viene
spesso definito “Il Libro”) che è “La costa sottovento” (quello
successivo è l’altrettanto memorabile “Il difensore”) e di cui riporto
un passaggio nella vecchia traduzione di Neni D’Agostino dell’edizione
1976: “Ma in una tempesta il porto, la terra, è il pericolo più
terribile per una nave. Essa deve fuggire ogni ospitalità; un solo
contatto della terra, anche solo una carezza alla chiglia, la farebbero
rabbrividire da cima a fondo. Con tutte le sue forze, la nave spiega
ogni vela per scostarsi. E nel farlo, combatte proprio contro quei venti
che la vorrebbero spingere verso casa, va cercando di nuovo tutta la
mancanza di terra di quel mare infuriato. Si getta nel pericolo
disperatamente, per amore di un riparo. E il suo unico amico è il suo
nemico più feroce. Tu lo capisci, Bulkington? Pare che tu veda qualche
barlume di quella verità insopportabile agli uomini, che ogni pensiero
profondo e serio non è che uno sforzo coraggioso dell’anima per tenersi
la libertà aperta del suo mare; mentre i venti più aspri del cielo e
della terra cospirano per gettarla sulla costa insidiosa e servile. Ma
la verità più alta, senza rive, indicibile come Dio, è soltanto
nell’assenza di terra: e allora meglio subissarsi in quell’infinito
ululio, piuttosto che essere sbattuti vergognosamente a sottovento,
anche se in questo è la salvezza. Perché, a quel punto, chi vorrebbe
strisciare a terra come un verme? Davvero il terribile è senza fondo. Ed
è possibile che tutta questa agonia sia inutile? Coraggio, Bulkington,
coraggio! Stringi i denti, semidio. Dalle sferzate d’acqua della tua
morte nell’oceano si scaglia in alto, a perpendicolo, la tua
deificazione.”
“Il baseball era diverso. Schwartz lo considerava uno sport omerico:
non una mischia, bensì una serie di singoli duelli. Battitore contro
lanciatore, difensore contro palla. Uno non poteva fiondarsi sul campo
grugnendo e dando schiaffoni come faceva Schwartz quando giocava a
football. Doveva restare fermo, aspettare e cercare di placare la mente.
E quando arrivava il suo momento doveva essere pronto, perché se avesse
cannato qualcosa sarebbe stato chiaro a tutti di chi era la colpa.
Quale altro sport teneva un conteggio tanto crudele come quello degli
errori, segnalandoli su un tabellone?” (pag. 260)
Draft. Semplificando potremmo dire che il draft è il sistema con cui
le squadre professionistiche statunitensi scelgono ogni anno i giocatori
provenienti dalle università o i senza contratto. Una scelta basata su
vari fattori, in particolare il potenziale. E allora dopo aver condiviso
con voi vari spunti come gli appunti su un taccuino degli scout che
assistono alle partite di Henry, vi consiglio di leggere “L’arte di
vivere in difesa” perché è un libro che commuove e fa piangere come
fanno i film di Douglas Sirk e perché ci costringerà a riflettere sul
significato di talento e sulla sconfitta. Che cos’è questo dannato
talento? Per metterlo a frutto qual è la strada preferibile da
percorrere: spingere l’acceleratore sulla tavoletta dell’individualismo o
piegarlo e rimodularlo all’interno di un contesto più ampio e sfumato?
Prendersi una pausa e chiedersi se si voglia davvero vedere il proprio
nome nella Hall of Fame è un segno di debolezza o di libertà? E il vero
talento non potrebbe solo essere quello di vivere la propria età e di
scegliere al momento giusto ciò che sta nel nostro cuore? E se ciò
significa diventare un campione tanto meglio. Lo so, sembrano
considerazioni alla “Va dove ti porta il cuore” di Susanna Tamaro ma
provate a immergervi nei dubbi che si insinuano in Henry mentre sta
giocando o nel momento in cui Henry si blocca sul diamante e smette di
giocare e scappa via e non sa più che fare della propria vita, perché in
quel momento continuare a fare quella cosa è controproducente. Perché
ti senti un fallito. Uno che non ha un posto in questo mondo. Se avete
mai vissuto o state vivendo una fase del genere o tutta la vostra vita è
un continuo fallimento e sentirvi vuoti allora capirete quanti dubbi
stia sollevando Harbach sull’esistenza intera e non solo su un giocatore
di baseball. E poi c’è da dire una cosa: leggetelo perché noi poveri
cristi somigliamo di più a Henry, a chi vive in difesa che ai grandi
campioni, ai grandi eroi, sempre che ne esistano veramente. Siamo più
simili alle sue giravolte, al suo bloccarsi, al suo crollare, al suo
tornare indietro, al suo cambiare strada, ai suoi tormenti che alle
storielle edificanti che ci propinano quotidianamente. Perché Harbach
scrive delle nostre esistenze irrisolte, di ciò che abbiamo perso per
strada ma anche di ciò che abbiamo trovato o riscoperto e che gli altri
non possono, non riescono e non vogliono capire. Perché il non capire la
scelta di Henry e di Mike è del tutto simile a quando gli altri non
capiscono e non condividono le nostre scelte. Scelte che gli altri non
capiranno mai quanto siano, in verità, scelte coraggiose.
“Ci vollero dieci minuti per guardare la cassetta dall’inizio alla
fine. Al termine, Schwartz la riavvolse; la riguardarono al
rallentatore. Poi di nuovo a velocità normale. Poi un’altra volta al
rallentatore. Uno scroscio di pioggia primaverile tamburellò sul tetto
di metallo del centro sportivo. Il ragazzino sullo schermo prendeva e
giocava una palla dopo l’altra, deciso e instancabile, immerso in
un’estasi velata di noia. “Possiamo andare adesso?” Henry batteva
nervosamente il piede sul tappeto. “Ho una fame da lupi.” Non era vero:
aveva poco appetito, negli ultimi tempi, ma voleva uscire di lì. Era
strana, perfino maniacale, la fissazione di Schwartz per quel video,
quasi volesse riportare in vita il ragazzino osuto e avventato. Come se
Henry fosse moto, anziché seduto lì a fianco. Sono qui, avrebbe voluto
dirgli. “Un’altra volta” sussurrò Schwartz. “Solo una.” Lo guardarono di
nuovo, e alla fine il dito di Schwartz indugiò ancora sul tasto rewind.
Per lui il ragazzino sullo schermo era un messaggio cifrato, una
sfinge, un messaggero muto arrivato da un altro tempo. Non saprete mai
come ci si sente. Schwartz cercava di capirlo da anni, e ancora non si
era arreso. Se fosse riuscito a intrufolarsi in quella mente vuota, a
carpire la profezia del ragazzino dallo sguardo imperturbabile – senza
espressione, esprime Dio – forse allora avrebbe saputo cosa fare. Henry
si diresse in mensa, e Schwartz verso Glendinning Hall con la sua poco
esaltante pila di raccoglitori sotto il braccio. Tornato a casa consumò
tre rasoi per tagliarsi la barba che si era fatto crescere nel periodo
della tesi.” (pp. 260-261)
E a quei tempi non avevo ancora questo gioco da tavolo sul baseball:
A 10/11 anni eravamo un piccolissimo gruppo di ragazzini che giocava a baseball in maniera super rudimentale. Le regole le conoscevamo più o meno tutte, le avevamo apprese dai videogiochi del tempo. Fa-vo-lo-so, eravamo extraterrestri!
RispondiEliminaTantissimi anni dopo, da adulto giocai una stagione con la squadra amatori.
E' uno sport complicato e difficile da seguire - e giocare soprattutto, ma è fantastico, affascinatissimo, peccato sia ammerigano...
Io ci ho giocato solo una volta e mi hanno fatto giocare perché allora correvo velocissimo. A me piace tanto. E lo amo anche perché americano. Sai, io sogno il giorno di poter trascorrere qualche mese negli Stati Uniti. Tanti anni fa avrei potuto anche lavorarci se solo fossi stato un po' meglio di come stavo allora.
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