NESSUNO TOCCHI CAINO - BASTA CLEMENZA, RIAPRE IL PATIBOLO A MYANMAR

Nessuno tocchi Caino  News

 Anno 22 - n. 24 - 18-06-2022

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : BASTA CLEMENZA, RIAPRE IL PATIBOLO A MYANMAR
2.  NEWS FLASH: IN CELLA PER MAFIA, DIFENDO LA MEMORIA DI FALCONE E BORSELLINO
3.  NEWS FLASH: MALESIA: IL GOVERNO HA DECISO DI ABOLIRE LA PENA DI MORTE OBBLIGATORIA
4.  NEWS FLASH: ARABIA SAUDITA: CONFERMATA CONDANNA A MORTE PER ‘MINORENNE’
5.  NEWS FLASH: EGITTO: CONDANNA A MORTE PER L’OMICIDIO DEL SACERDOTE COPTO
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : DESTINA IL TUO 5X1000 A NESSUNO TOCCHI CAINO


BASTA CLEMENZA, RIAPRE IL PATIBOLO A MYANMAR
Sergio D’Elia su Il Riformista del 17 giugno 2022

“Ordine e disciplina”, è l’imperativo che da almeno ottanta anni connota la storia della Birmania, una terra straordinaria per l’estrema varietà di forme di vita e l’apparente anarchia delle oltre cento diverse etnie. In questo mare di biodiversità la religione ufficiale è il Buddismo Theravada, la “via degli anziani”, che tra le più antiche scuole ispirate alla vita del Buddha è la più ostile al cambiamento e la meno compassionevole. Il potere politico – quello ufficiale e quello di fatto – è sempre stato nelle mani dell’esercito. E, come quella degli anziani, anche la “via dei militari” è sempre stata ostile ai cambiamenti e poco incline alla compassione.
L’unico “significativo” cambiamento è avvenuto nel 1989 quando l’allora giunta militare cambiò nome al Paese. “Birmania” era stato imposto dai coloni inglesi e si riferiva ai “birmani”, l’etnia prevalente. Col nuovo nome, “Myanmar”, i generali hanno tenuto conto dei 135 gruppi etnici riconosciuti nel Paese, ma poi hanno continuato la guerra senza quartiere contro di loro. Anche quando il potere formale per un po’ è stato nelle mani di un Premio Nobel della Pace, i militari non hanno smesso di opprimere i Karen, i Kachin, gli Shan e i Rohingya, la popolazione musulmana forse più perseguitata al mondo. Hanno cambiato il nome del Paese, ma hanno continuato in tutti i modi a distruggere ogni specificità etnica. L’unica biodiversità a cui sono rimasti interessati è quella delle ricche risorse naturali, il legname, il gas, le pietre preziose, l’oro che le zone abitate da queste etnie offrono.
La politica “ordine e disciplina” delle forze armate è continuata fino ai giorni nostri e, dopo il colpo di stato del gennaio 2021, si è dedicata alla repressione violenta delle manifestazioni antimilitariste, ai processi nei tribunali militari e alle condanne a morte dei seguaci di Aung San Suu Kyi, arrestata subito dopo aver vinto le elezioni. Da allora, almeno 114 prigionieri sono stati condannati a morte, inclusi studenti e attivisti antimilitaristi, anche minorenni. Arrestati, torturati, processati per terrorismo davanti al tribunale speciale e, senza garanzie minime di difesa, condannati a morte. Il 4 giugno scorso, la giunta birmana ha annunciato che avrebbe giustiziato quattro di loro, tra cui l’ex parlamentare Phyo Zeya Thaw e il veterano attivista per la democrazia Ko Jimmy, due figure molto popolari, care a molti in Birmania e considerate dall’opinione pubblica simboli della continua resistenza al regime militare.
Coi loro processi, è finito anche il tempo della clemenza, la breve parentesi di misericordia aperta e subito chiusa dal Presidente Thein Sein dopo decenni di repressione sotto i regimi militari precedenti. Da quando si era insediato nel marzo 2011 e fino alla fine del suo mandato nel marzo 2016, nel tentativo di una riconciliazione nazionale, Thein Sein aveva emanato sei amnistie generali: migliaia di prigionieri, tra cui centinaia di condannati del braccio della morte, erano stati graziati.
Nonostante la condanna internazionale e gli appelli alla clemenza, la giunta del Myanmar ha promesso di eseguire le condanne a morte di Ko Jimmy, Ko Phyo Zeya Thaw e di altri due prigionieri, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw, condannati a morte per aver ucciso una spia dei militari. “Le esecuzioni andranno sicuramente avanti. Non ci sarà pietà per i condannati a morte. Hanno terminato il processo di appello e saranno impiccati secondo le procedure carcerarie”, ha comunicato il portavoce dei militari. Sarebbero le prime esecuzioni giudiziarie del Paese dal 1990.
Non bisogna arrendersi a questo corso naturale della violenza del potere militare in Birmania. C’è un’altra legge, c’è un altro ordine, c’è un’altra disciplina da far rispettare e che possiamo invocare per disarmarlo. Sono la legge, l’ordine e la disciplina tendenti all’armonia, fondati sull’amore, sulla forza dei diritti umani universali! Un anno fa, una suora, in ginocchio dinnanzi alla polizia, ha compiuto il “miracolo” di fermare, per un giorno, la legge marziale. In quella giornata felice, gli agenti in assetto anti-sommossa hanno smesso di sparare sui civili che manifestavano nel nome della libertà e dei diritti umani. È la forza gentile, inerme ma non inerte, della nonviolenza che fa miracoli: la forza di chi non mostra i muscoli, ma non smette di lottare; la forza di chi ama, con speranza, anche il proprio avversario disperato.
Come diceva Mariateresa Di Lascia, la nonviolenza non è tolleranza: non sopporta cose, fatti, situazioni che sono intollerabili; non significa “tollĕre”, levare lo sguardo, voltarsi da un’altra parte. Se, in queste ore, saremo capaci di “commuovere”, “muovere insieme”, volgere la nostra vita, la nostra mente, il nostro cuore, le nostre mani nel senso dei condannati in Birmania, ma anche nel senso, non contro il potere di Myanmar, un altro “miracolo”, un’altra tregua della legge marziale è ancora possibile. È possibile che un’unica coscienza dell’universo, un comune senso di umanità, emergano di nuovo.

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

IN CELLA PER MAFIA, DIFENDO LA MEMORIA DI FALCONE E BORSELLINO
Claudio Conte* su Il Riformista del 17 giugno 2022

Nonostante io sia in carcere ininterrottamente da quasi 33 anni non mi addolora l’ulteriore rinvio della Corte costituzionale che sospende fino all’8 novembre 2022 gli effetti della sua ordinanza del 2021 sull’illegittimità dell’articolo 4-bis dell’Ordinamento Penitenziario in relazione alla liberazione condizionale. Non che io sia d’accordo sul dare altro tempo al legislatore per una riforma che, dopo la sentenza Viola contro Italia della Corte di Strasburgo, attendiamo dal 2019. O che io non condivida le rilevatissime “questioni costituzionali” che solleva la sospensione di una decisione favorevole in materia di libertà, di cui hanno scritto Andrea Pugiotto e Davide Galliani e alle quali aggiungerei quella sulla compatibilità di un giudice costituzionale che decide su una legge “sostenuta” dal Governo che ai tempi presiedeva.
Non mi addolora il rinvio per altri due motivi. Il primo è che né la sentenza sospesa né la legge auspicata cambieranno il destino del 71,1% dei 1.750 condannati alla pena dell’ergastolo che papa Francesco definisce una “pena di morte nascosta”. Perché, in ventuno anni – dal 2001 al 2022 – si contano solo 32 ergastolani usciti in “condizionale”. Altri 111 sono usciti pure, ma “coi piedi davanti”. Il secondo motivo è l’intempestività di una decisione che avrebbe fatto cadere nel pozzo delle illegittimità la norma simbolo della lotta alla mafia in coincidenza con il mese e nel trentennale della morte di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Sarebbe stato un atto di insensibilità umana e istituzionale. Come è pure quello di assegnare la paternità di tale norma ai due magistrati. Non vi è traccia documentale né alcuna intervista in tal senso. Anzi. Per la loro cultura giuridica e umana, Falcone e Borsellino mai avrebbero partorito o consigliato una legge palesemente incostituzionale.
Ma nessuno poteva farlo poiché la modifica del 4-bis con l’introduzione della “ostatività” è avvenuta con il decreto-legge dell’8 giugno 1992 n. 306 e, dunque, dopo l’uccisione di Falcone. E solo per coincidenza, nel 1991, l’alto magistrato arrivò agli Affari Penali di Via Arenula quando l’art. 4-bis rientrava in vigore con il decreto-legge del 13 maggio 1991 n. 152 che era alla sua quarta reiterazione. Esso prevedeva un regime più gravoso rispetto alle soglie di pena da espiare, all’assenza di attualità di collegamenti da dimostrare e alla pericolosità sociale da valutare. Aggravamenti che resterebbero intatti anche se il Parlamento da qui a novembre non legiferasse e la Consulta rendesse esecutiva la sua pronuncia di incostituzionalità del 4-bis (versione 1992) senza “diaboliche” o “magiche” interpolazioni additive. Dunque, nessun rischio di equiparazione agli altri detenuti, i condannati per mafia resterebbero soggetti a regime aggravato. In sintesi, “entrerebbe in vigore” l’equilibrata proposta di legge n. 1951 presentata il 2 luglio 2019 dalla senatrice Bruno Bossio e che le Commissioni giustizia hanno ignorato.
A volerli ricordare, i “padri” del 4-bis hanno tra gli altri il nome di Giulio Andreotti, Francesco De Lorenzo e Claudio Martelli, tutti ministri in carica ai tempi delle “riforme” del 4-bis – da quello “aggravato” a quello “ostativo” – e loro malgrado poi infangati e in alcuni casi condannati per reati che, come quelli previsti nella legge “spazzacorrotti”, oggi sono inclusi nel 4-bis. Coinvolgere oggi Falcone e Borsellino fa effetto ma non aiuta né i loro familiari, né la loro memoria, né gli italiani. Non sono loro i “padri” dell’ergastolo ostativo, come ripete Fiammetta Borsellino e come ricordo personalmente, poiché ai tempi ero già in carcere e ne seguivo il pensiero in TV quando erano attaccati quasi da tutti. Ricordo la professionalità, la pacatezza e l’ironia dei due magistrati che oggi vedo trasformati in fanatici giustizialisti quasi ignoranti dei valori costituzionali per i quali invece sono morti.
A quel tempo, avevo 19 anni di età ed ero io che ignoravo finanche l’esistenza della Costituzione. L’ho scoperta in carcere dove mi sono laureato in Legge e sono ora impegnato in un Dottorato di ricerca sul nuovo paradigma della Giustizia riparativa: un modo per pensare meno alla punizione e più alle vittime, alla “Verità e Riconciliazione”. Quella a cui si riferisce il presidente del Tribunale di Roma Alberto Cisterna che, dopo l’incontestabile vittoria dello Stato sulle mafie, parla di necessaria “pacificazione”, perché – sottolinea – non si può essere sempre in “guerra”. Ed è paradossale che, in carcere dal 1989, condannato, salentino, lontano dalle storie siciliane, debba essere io, quasi, a difendere la “verità” in omaggio alla memoria dei due magistrati siciliani. O, forse, paradossale non lo è perché come le “buone idee” restano, così, anche le “persone cattive” cambiano.

* ergastolano detenuto a Parma, Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino

MALESIA: IL GOVERNO HA DECISO DI ABOLIRE LA PENA DI MORTE OBBLIGATORIA
Il governo della Malesia ha deciso di abolire la pena di morte obbligatoria e di sostituirla con altre pene a discrezione dei tribunali.
Il Ministro del Dipartimento del Primo Ministro (Parlamento e Legge) Wan Junaidi Tuanku Jaafar ha affermato il 10 giugno 2022 che la decisione è stata presa dopo la presentazione del suo rapporto sulle pene sostitutive della pena di morte obbligatoria alla riunione del Gabinetto dell'8 giugno.
"Il governo ha anche concordato in linea di principio di accettare e prendere atto delle raccomandazioni formulate dal Comitato Speciale sulle Condanne Sostitutive della Pena di morte Obbligatoria, come spiegato nel rapporto", ha dichiarato.
Il Comitato è guidato dall'ex presidente della Corte Suprema Tun Richard Malanjum e comprende esperti di diritto come un ex giudice capo della Malesia, un ex procuratore generale, professionisti legali, un docente di diritto e un criminologo.
Wan Junaidi ha affermato che il Gabinetto ha anche concordato che vengano condotti ulteriori studi sulla proposta di pene sostitutive per 11 reati che attualmente comportano la pena di morte obbligatoria, uno dei quali è relativo alla Sezione 39B della Legge sulle Sostanze Pericolose del 1952 (Legge 234) e per 22 reati che comportano la pena di morte a discrezione del giudice.
Wan Junaidi ha affermato che lo studio sarà condotto in collaborazione con le
Camere del Procuratore Generale, la Divisione Affari Legali del Dipartimento del Primo Ministro e altri ministeri e dipartimenti competenti.
Ha sottolineato che la decisione è estremamente significativa per garantire che tutti gli emendamenti alle leggi pertinenti tengano conto dei principi di proporzionalità e costituzionalità per qualsiasi proposta presentata al governo in seguito.
Il Ministro ha affermato che il governo condurrà anche uno studio di fattibilità sulla direzione del sistema di giustizia penale nel Paese, come l'adozione di procedimenti di pre-sentenza, un consiglio per le condanne e linee guida per le condanne.
Da studiare anche l'istituzione di una Commissione legislativa, la riforma carceraria e l'esecuzione di sentenze basate sulla giustizia riparativa.
"La decisione in merito mostra l'impegno del governo nel garantire che i diritti di tutte le parti siano protetti e tutelati, riflettendo così la trasparenza della leadership del Paese nel migliorare il sistema di giustizia penale", ha affermato.
Wan Junaidi ha aggiunto che il governo ha anche espresso apprezzamento per l'impegno assunto dal Comitato nella produzione del rapporto che sarà la base per un cambiamento più complessivo ed efficace del sistema di giustizia penale del Paese.
Secondo una risposta scritta in Parlamento del febbraio 2022, ci sono attualmente 1.341 persone nel braccio della morte della Malesia, con 905 casi relativi a condanne a morte obbligatorie per traffico di droga.
(Fonti: Bernama, Amnesty, 10/06/2022)

ARABIA SAUDITA: CONFERMATA CONDANNA A MORTE PER ‘MINORENNE’
Una corte saudita il 13 giugno 2022 ha confermato la condanna a morte di un giovane, Abdullah al-Huwaiti, in relazione a crimini che avrebbe commesso quando era minorenne.
La Corte d'Appello dell'Arabia Saudita ha deciso di confermare la condanna a morte contro Huwaiti, che è stato arrestato nel 2017 quando aveva solo 14 anni ed è stato condannato a morte a 17 anni per omicidio e rapina a mano armata.
Reprieve, una ONG con sede nel Regno Unito, ha dichiarato che la condanna a morte nei confronti del giovane, che ora ha 19 anni, "va contro la richiesta degli esperti delle Nazioni Unite di revocare la sua condanna capitale".
"Condannare a morte un minore è un atto di insopportabile crudeltà. Abdullah ha passato la sua adolescenza temendo di essere giustiziato e ogni sentenza del tribunale lo sottopone a un trauma emotivo più grave. Deve essere rilasciato immediatamente", ha aggiunto Reprieve.
La madre di Huwaiti ha scritto su Twitter che suo figlio è innocente rispetto all’accusa di aver ucciso un militare e che non aveva precedenti penali. Ha risposto alle persone su Twitter difendendo suo figlio da un’”ingiustizia" e ha chiesto alle autorità saudite di arrestare il vero autore del crimine.
Ha anche invitato il Re Salman e il principe ereditario Mohammed bin Salman a intervenire per salvare Huwaiti.
A maggio, esperti legali delle Nazioni Unite hanno esortato l'Arabia Saudita a revocare la condanna a morte inflitta al giovane, residente nella regione occidentale di Tabuk.
Gli esperti hanno chiesto al regno di "abolire l'imposizione della pena di morte ai minorenni per tutti i reati, senza eccezioni" perché è "intrinsecamente crudele giustiziare i minori".
Il processo iniziale di Huwaiti è stato segnato da polemiche, poiché le prove utilizzate contro di lui e il modo in cui sono state ottenute sono state contestate dalle organizzazioni per i diritti umani. Aveva un alibi che lo collocava a 200 km dalla scena del crimine, secondo Human Rights Watch.
Dopo il suo arresto nel maggio 2017, il giovane è stato tenuto in isolamento per quattro mesi e gli è stato negato l'accesso a un avvocato.
È stato interrogato sotto tortura, frustato con filo elettrico e picchiato al punto da non poter camminare per giorni, secondo Reprieve.
Oltre a Huwaiti, ci sono almeno altri cinque imputati a rischio di condanna a morte per crimini commessi in Arabia Saudita da minorenni, ha affermato Reprieve.
La legge sui minori dell'Arabia Saudita protegge i minori imputati dalla condanna a morte solo per una categoria di reati.
Lo scorso aprile, Re Salman ha emesso un decreto che pone fine alle condanne a morte per reati commessi da minorenni, prevedendo invece la pena massima di 10 anni in un carcere minorile.
Tuttavia, gruppi per i diritti umani hanno sollevato preoccupazioni sulla sua attuazione e da tempo hanno avvertito che diversi giovani rischiano ancora la pena di morte nel Paese.
(Fonte: MEE, 14/06/2022)
Per saperne di piu' :

EGITTO: CONDANNA A MORTE PER L’OMICIDIO DEL SACERDOTE COPTO
Un tribunale penale di Alessandria l'11 giugno 2022 ha condannato a morte un uomo di 60 anni per l’omicidio del sacerdote copto ortodosso Arsanios Wadid, avvenuto il mese scorso nella città costiera egiziana.
Il verdetto del tribunale è stato emesso dopo che il Gran Mufti - la massima autorità religiosa del Paese - ha approvato la punizione, dal momento che il parere consultivo non vincolante del Mufti è richiesto nei casi di pena di morte dal codice penale egiziano.
La vittima di 56 anni – un sacerdote della Chiesa della Vergine Maria e Mar Boulos – fu accoltellata a morte la sera del 7 aprile mentre camminava sul lungomare nel distretto di Sidi Bishr ad Alessandria.
L'aggressore - Nehru Tawfiq - è stato arrestato poche ore dopo e avrebbe confessato il crimine.
L'imputato avrebbe poi modificato la confessione, sostenendo che il coltello trovato in suo possesso fosse solo per legittima difesa e di non essere consapevole di quello che stava facendo il giorno dell'omicidio, secondo l'accusa.
L'accusa ha aggiunto che una valutazione della salute mentale ha stabilito che l'uomo non mostrava segni di disturbo psichico ed era pienamente consapevole mentre commetteva il crimine.
L'accusa ha anche controllato le telecamere di sorveglianza sulla scena del crimine e ha raccolto le testimonianze di 17 testimoni oculari.
Inoltre, l'accusa ha appreso che l’imputato si era unito a gruppi estremisti e che in precedenza aveva anche scontato una pena detentiva di 20 anni per appartenenza a un gruppo fuorilegge.
L’imputato si è rifiutato di farsi difendere da un avvocato, scegliendo invece di negare semplicemente le accuse mosse contro di lui.
Il 18 maggio il tribunale aveva deferito al Mufti la condanna a morte emessa in via preliminare nei confronti dell'imputato.
La condanna capitale emessa l'11 giugno non è definitiva e può essere impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione egiziana.
(Fonti: Ahram, Times of Israel, 11/06/2022)


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