Che bello "Lemon" di Kwon Yeo-sun (ilSaggiatore, traduzione di Benedetta Merlini) + Rothbard + Caterina Barbieri

 

 

Ho un'ansia di tornare al lavoro terribile. Sto scrivendo ma l'idea di tornare al lavoro mi toglie il fiato. Mi dimetterò anche senza avere prospettive e magari finendo in disoccupazione. Per fortuna ci sono libri belli, feroci, inquietanti e scritti da Dio come questo romanzo  sud-coreano che ho letto stamattina quando mi sono alzato come al solito alle 4 e 45 e che mi confortano. Ormai la nostra gatta ha orari fissi. Quelli della mia sveglia per andare al lavoro. Ma ero già lì con gli occhi chiusi a chiedermi cosa fare nei prossimi mesi. E ad ascoltare il vicino di casa divertirsi con amici e amiche dopo essere rientrato da qualche discoteca o festa sul lago.

Un estratto:

"Da quel giorno, mi recai sempre più spesso al parco, mi sedevo a lungo sulla panchina e poi ritornavo a casa. Ormai sia nei sogni che nella vita reale mi trovo sempre più spesso là. Anche mia sorella siede su una panchina, indossando un vestito giallo di cotone senza maniche. Ha i capelli neri, lunghi e sciolti sulle spalle e lo sguardo sognante fisso in un punto lontano, anche se in realtà non sta osservando niente. Assomiglia a una fata del bosco. All'improvviso, dietro di lei, dall'oscurità, esce fuori una mano; una mano, che tiene qualcosa simile a una pietra con cui la colpisce alla testa diverse volte. Il sangue schizza sul suo vestito giallo. Cade a terra. Quella stessa mano la trascina nell'ombra e lei, come un fiore appassito, viene inghiottita dalle tenebre. Dove mi trovo ora? Da dove sto osservando? Che sia un sogno o la realtà non riesco a capirlo. Una volta ebbi la percezione che qualcosa mi stesse fissando, minacciosa. Non so come la cosa si sia potuta verificare dal momento che stava piovendo e io ero seduta sulla panchina completamente fradicia. Altre volte avevo l'impressione di trovarmi al parco, quando in realtà ero a casa, seduta come mia sorella sul divano con le ginocchia piegate e allargate ai lati e il telecomando e un mucchio di quaderni e penne sul tavolo. Ci fu un episodio di questi in cui sentii lo sguardo di qualcuno su di me, ma quando mi voltai, non riuscii mai a vedere nessuno. Per essere precisi, qualcosa c'era: un rotolo di carta igienica posato sul lato sinistro del tavolo. Il suo foro centrale sembrava fissarmi, per poi distogliere lo sguardo, cercando di evitarmi, quando lo guardavo io a mia volta. Posava il suo unico occhio centrale sul lato sinistro del mio mento, ancora gonfio per l'operazione appena subita. Il motivo per cui mi stesse fissando non l'avrei mai saputo. L'unica cosa certa era che si stava prendendo gioco di me. Mi alzai di scatto, lo afferrai con la mano e lo scaraventai sul pavimento, calpestandolo. Finalmente, quell'occhio appiattito era chuso per sempre. Era morto. Lo avevo ucciso. Era mia sorella, ma era anche me. E, proprio come lui, eravamo morte entrambe. Non ero più Da-on, né nell'aspetto, né nell'anima. Forse in quel preciso momento ero Chae-on oppure Ta-on o qualsiasi altra persona, ma sicuramente non da Da-on, né dentro né fuori di me. Con quel rotolo schiacciato in mano, mi accasciai a terra, piangendo. Piangevo perché non sapevo chi stavo diventando. Strappai della carta igienica e mi asciugai le lacrime. Mi ero persa, proprio come quelli che senza saperlo perdono la propria gioventù." (pp. 63-64)

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E a proposito di gatta, eccola qui con un saggio/manifesto che sto rileggendo proprio in questi giorni e che mi terrò affianco come un amuleto nei prossimi mesi:


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Che bello l'ultimo disco di Caterina Barbieri:



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Avrei dovuto partecipare anche io ma purtroppo per motivi logistici non sono riuscito. Davvero un peccato.


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