Nessuno tocchi Caino - A SINGAPORE LA GUERRA ALLA DROGA E’ TORNATA A UCCIDERE

 Nessuno tocchi Caino News

Anno 22 - n. 31 - 06-08-2022

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : A SINGAPORE LA GUERRA ALLA DROGA E’ TORNATA A UCCIDERE
2.  NEWS FLASH: MIO PADRE VITTIMA DI MAFIA, IO DEI SOSPETTI DELL’ANTIMAFIA
3.  NEWS FLASH: BANGLADESH: SEI CONDANNATI A MORTE PER CRIMINI CONTRO L’UMANITA’ COMMESSI NEL 1971
4.  NEWS FLASH: IRAN: UOMO AMPUTATO PER FURTO
5.  NEWS FLASH: ALABAMA (USA): TRE ORE DI RITARDO NELL'ESECUZIONE DI JAMES PER PROBLEMI A INSERIRE L’ENDOVENA
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : DESTINA IL TUO 5X1000 A NESSUNO TOCCHI CAINO


A SINGAPORE LA GUERRA ALLA DROGA E’ TORNATA A UCCIDERE
Sergio D’Elia su Il Riformista del 5 agosto 2022

Singapore è la Città-Stato più famosa al mondo. In sanscrito vuol dire “città del leone” e la parte del leone la fa in molti campi. È uno dei principali centri finanziari del mondo. È una delle principali città cosmopolite del globo. È tra i primi porti su scala mondiale per attività e traffico. È il Paese più densamente popolato dopo il Principato di Monaco. Ha la più alta concentrazione di milionari in rapporto alla popolazione.
Singapore è fiera di tutti questi suoi primati e ne fa pubblico vanto. Ha un altro primato, quello della “guerra alla droga”, ma non vuole che nessuno ne parli. È una guerra senza quartiere, spietata fino alla morte. A Singapore puoi finire sulla forca se ti beccano con 15 grammi di eroina o con mezzo chilo di cannabis.
Il 2022 si preannuncia come l’anno più brutale della “guerra alla droga” a Singapore. Dalla fine di marzo, dopo due anni di tregua dovuti alla pandemia, le autorità hanno recuperato il tempo perduto e hanno ripreso a tirare il collo a un ritmo mai visto prima. Sei uomini sono stati impiccati, altri tre si sono salvati per miracolo. Nella furia di esecuzioni, ad aprile, è finito sulla forca anche un disabile mentale. Il 22 luglio è toccato a Nazeri bin Lajim, un uomo di 64 anni condannato per possesso di 33 grammi di eroina. Ha lottato contro la sua tossicodipendenza da quando aveva 14 anni. È entrato e uscito dal carcere più e più volte fino alla sua ultima tragica uscita.
L’ultimo condannato per droga è stato appeso a una forca alle prime luci dell’alba del 26 luglio. La sua esecuzione è avvenuta nel più rigoroso segreto. Si sa solo che era un cittadino malese di 49 anni, arrestato nel 2015 per traffico di cannabis. Anche i membri della sua famiglia, gli unici autorizzati a darne notizia, hanno scelto il più stretto riserbo.
I Giardini botanici di Singapore sono una delle più popolari attrazioni turistiche e sono stati premiati come patrimonio dell’UNESCO per la loro preziosa collezione di oltre 3.000 specie di orchidee. La prigione di Changi, una delle più temute mete del Paese, è nota per la sua disumanità e per la sua povera “collezione” di appartenenti alla specie umana. Nella seconda guerra mondiale, i giapponesi l’avevano riempita di prigionieri di guerra alleati. Dopo la liberazione, la prigione fu utilizzata dagli inglesi per detenere i prigionieri di guerra giapponesi e tedeschi. Oggi il carcere è destinato ai nemici della “guerra alla droga”, una guerra che a Singapore non sembra vedere mai la pace. La maggior parte delle 496 persone giustiziate nella città-stato dal 1991 sono state condannate per reati di droga. Impiccate nello stesso cortile dove negli anni ‘40 tre forche furono erette dai soldati britannici per le esecuzioni.
Attualmente, le persone detenute a Changi e destinate alla morte sono circa 60, un numero significativo per un paese così piccolo. Il braccio della morte è sempre sovraffollato e le esecuzioni sono pianificate non perché è giunto il momento della resa dei conti, ma semplicemente per fare spazio ai “nuovi giunti”. La loro vita è trattata come un problema amministrativo, di capienza regolamentare e di capienza massima tollerabile per la qualità della vita nel braccio della morte.
Così, i condannati a morte vivono nel timore che arrivi il giorno degli avvisi di esecuzione. Sono notificati ai familiari tramite una lettera dal carcere e una telefonata giusto in tempo per fare le ultime visite e i preparativi del funerale. Prima di andare alla forca, nella prigione di Changi, si svolge anche una bizzarra sessione fotografica: i detenuti sono costretti a sedersi sorridenti davanti alla telecamera coi loro vestiti preferiti.
I giornali parlano della pena di morte solo quando le autorità rilasciano una dichiarazione, altrimenti fingono che la questione non esista. Spesso non riferiscono nemmeno quando è avvenuta un’esecuzione. Nessun partito politico è disposto a sollevare il tema in parlamento. Gli avvocati rischiano anche di essere accusati di abuso del processo giudiziario e di pagare ingenti spese processuali per la presentazione di ricorsi oltre il processo di primo grado e l’appello.
Nel cuore della città-giardino patrimonio dell’umanità c’è un solo parco, Hong Lim Park, dove si possono tenere convegni pubblici non autorizzati. Ad aprile, due manifestazioni contro la pena di morte hanno attirato folle di centinaia di persone, tra attivisti abolizionisti e familiari dei condannati a morte. Un evento significativo in un Paese come Singapore dove lo slogan “legge e ordine” ispira la violenza di Stato. Sono state manifestazioni di speranza quelle tenute al parco di Hong Lim, ispirate da un’altra legge, da un altro ordine, votate alla sacra triade dei diritti umani universali – il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona – che sono il patrimonio dell’umanità più prezioso da tutelare.

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MIO PADRE VITTIMA DI MAFIA, IO DEI SOSPETTI DELL’ANTIMAFIA
Desirè Vasta su Il Riformista del 5 agosto 2022

Ho voluto raccontare in un romanzo la mia vita e quella della mia famiglia per liberarmi da un peso, riscattarmi dal passato e, chissà, magari scuotere le coscienze di persone, come i magistrati, che hanno un potere eccezionale: quello di riparare al torto e decidere di compiere un atto di giustizia. Sì, perché io credo fortemente nella Giustizia; d’altronde se non ci avessi creduto fino in fondo, oggi, farei un altro lavoro.
Con questo mio libro, che si intitola “A testa alta”, voglio anche trasmettere un messaggio di forza, di coraggio e di speranza a tutti quegli imprenditori che si trovano ad affrontare una situazione simile alla mia. La mia esperienza può servire anche a loro. Mettere nero su bianco ciò che mi è accaduto nella vita mi ha aiutato a comprendere meglio e ad affrontare le mie paure. Con questo libro ho avviato un percorso introspettivo che per me è stato fondamentale anche per superare i drammi che ho vissuto e gettarmi il dolore alle spalle.
Non ho nulla contro la magistratura. Penso semplicemente che sia il sistema a essere sbagliato. Un sistema che su molti imprenditori ha avuto pesanti conseguenze, non solo per le loro aziende, ma anche, soprattutto, nella loro vita privata e familiare. Parliamo di persone che con sacrificio e impegno si sono totalmente dedicati alla loro impresa e, dopo esserci riusciti, hanno fatto di essa l’orgoglio della propria vita. Perché fare attività economica è un gesto eroico, soprattutto in Sicilia. Ed è una grande soddisfazione quando si riesce a garantire un futuro diverso ai propri figli e un impiego solido ai propri dipendenti che a loro volta sono padri di famiglia.
Ho deciso, non senza difficoltà, di parlare apertamente di avvenimenti dolorosi. Racconto, in primo luogo, della mafia e di come essa ai tempi ha colpito mio padre con intimidazioni pesanti. Ma parlo anche del lato oscuro dell’antimafia e di come essa sia riuscita a svilire anni di sacrifici e di duro lavoro. Dico ovviamente quanto abbiamo sofferto io e la mia famiglia che lo Stato ha tentato ingiustamente di dividere, mettendo una parte di essa contro l’altra. Dopo una ingiusta detenzione di mio padre, come tale riconosciuta dallo stesso Stato italiano, abbiamo cercato di riprendere in mano la nostra vita sia a livello familiare che economico.
Nonostante gli innumerevoli ostacoli frapposti sulla strada della mia azienda, sono riuscita a crearmi una realtà imprenditoriale discreta. Ma non posso permettere a nessuno di diffamare, ancora oggi, il nome della mia famiglia con accuse senza fondamento di giudizio. Pregiudizi, solo pregiudizi, che si trasformano in asfissianti preclusioni, interdittive al lavoro onesto.
La mia impresa ha dovuto fare i conti con quelle che, con sentenze passate in giudicato, si sono rivelate accuse prive di prova rivolte a mio padre. Ma la certificazione giudiziaria della sua innocenza non basta a rendere libera la mia attività. È paradossale e ingiusto che io debba pagare un “fine pena mai” per un errore giudiziario – sentenziato in via definitiva dallo Stato – di cui mio padre è stato vittima. Ma mentre mio padre è stato vittima conclamata di estorsioni mafiose, io, sua figlia, sono interdetta da misure cosiddette antimafia. Capite bene allora che qualcosa non va nel sistema in cui mi sono, mio malgrado, ritrovata.
Io vedo – e ne sono felice – parenti di un tempo capi mafia oggi non più in vita che ricoprono incarichi di prestigio nei comuni, che gestiscono appalti e somme pubbliche di enorme rilievo o che concorrono alle elezioni regionali. È giusto, è sacrosanto che sia così – lo ripeto: ne sono felice – perché nel nostro sistema penale non è scritto da nessuna parte che figli o nipoti debbano pagare gli errori di padri, nonni o zii. Ma questa regola – giusta, umana, civile – vale solo nel sistema penale antimafia? Il sistema di cosiddetta prevenzione antimafia è un mondo a parte? Per gli imprenditori che hanno avuto successo in terra di mafia vige un’altra legge: quella del sospetto?
Come nel mio caso, la stortura è evidente: un’impresa creata da una ragazza, figlia di un imprenditore assolto da ogni accusa penale di mafia, sconta per via amministrativa un pregiudizio antimafia, paga a caro prezzo un discredito fondato sul dubbio inesistente. Non mi arrendo a questo stato di cose. Qualcuno mi dovrà spiegare come e perché io, figlia di un soggetto assolto da accuse di mafia, non posso fare impresa, non sono degna della fiducia da parte dello Stato.

BANGLADESH: SEI CONDANNATI A MORTE PER CRIMINI CONTRO L’UMANITA’ COMMESSI NEL 1971
Il Tribunale per i Crimini Internazionali del Bangladesh il 28 luglio 2022 ha condannato a morte sei ex membri della forza paramilitare "Razakar Bahini" per "crimini contro l'umanità" commessi durante la Guerra di Liberazione del 1971.
Il verdetto è stato emesso da un collegio di tre giudici guidato dal giudice Mohammad Shahinur Islam.
"Saranno appesi per il collo fino alla loro morte", ha dichiarato Islam, con cinque degli imputati che hanno partecipato al processo di persona, mentre il sesto è stato processato in contumacia.
I sei condannati sono Amjad Hossain Howladar, Sahar Ali Sardar, Atiyar Rahman, Motachim Billah, Kamal Uddin Goldar e Nazrul Islam. Di loro, Nazrul Islam è latitante.
"Tutti e sei sono stati accusati di quattro capi d'imputazione per crimini contro l'umanità", ha detto ai giornalisti il pubblico ministero Mokhlesur Rahman.
I funzionari del tribunale hanno ricordato che i sei condannati erano membri del "Razakar Bahini", una forza paramilitare del Pakistan orientale affiliata all'esercito pakistano.
Tutti e sei provenivano dal distretto sudoccidentale di Khulna e hanno compiuto atrocità come uccisioni di massa, incendi dolosi e torture, ha stabilito il tribunale.
Gli avvocati dell'accusa si sono detti soddisfatti del verdetto, mentre i difensori hanno affermato di voler impugnare il verdetto presso la Sezione d'Appello della Corte Suprema dopo aver consultato i loro assistiti.
(Fonti: PTI, 29/07/2022)

IRAN: UOMO AMPUTATO PER FURTO
Un uomo, identificato solo come P. T., ha subito l’amputazione di quattro dita della mano destra il 27 luglio 2022 nel carcere di Evin, a Teheran.
La notizia è stata data via Twitter dall’ex prigioniero politico Arash Sadeghi, che ha aggiunto che l’atto è stato compiuto, alla presenza del pubblico ministero e di altre autorità giudiziarie, con una macchina a ghigliottina appositamente installata nell’infermeria del carcere.
Nel giugno 2022, le autorità iraniane si stavano preparando ad amputare le dita di altri otto uomini, tra cui Hadi Rostami, Mehdi Sharfian e Mehdi Shahivand.
I prigionieri hanno opposto resistenza agli agenti, e grazie alle polemiche suscitate dal fatto che la notizia fosse trapelata all’esterno del carcere, l'esecuzione delle loro condanne è stata posticipata.
Hadi Rostami, uno di questi prigionieri, aveva fatto uscire dal carcere un file audio in cui ha chiesto aiuto alle organizzazioni per i diritti umani.
Il 19 giugno 2022, l'agenzia di stampa statale ISNA ha citato un funzionario della magistratura che affermava: "Non è affatto vero che ci stiamo preparando a eseguire la sentenza di amputazione".
Ma pochi giorni prima, il 14 giugno, il procuratore capo della provincia del Khorasan Razavi, Mohammad-Hossein Doroudi, aveva dichiarato che diversi casi di amputazioni per rapina sono attualmente in fase di esecuzione e aveva esortato i giudici a non esitare a emettere condanne a morte e all’amputazione.
"La magistratura non deve mostrare pietà per coloro che infrangono le norme della società e violano l'ordine pubblico".
Doroudi ha poi ribadito la sua ferma convinzione che sia perfettamente legittimo punire il furto con l’amputazione, e in determinati casi anche con l’impiccagione, perché questo è previsto dalla costituzione iraniana, la quale è pienamente basata sulla sharia (legge islamica), indipendentemente dai richiami stranieri contro tali sentenze.
All'inizio di giugno, quattro dita erano state amputate nella prigione di Evin a Teheran a Seyyed Barat Hosseini.
Le statistiche ufficiali della Forza di sicurezza dello Stato rivelano che in Iran, insieme alla povertà crescente e alle difficoltà economiche, è aumentato anche il numero di crimini come il furto. Tuttavia, il regime iraniano non solo non adotta misure efficaci per ridurre i problemi economici, ma sa dare come unica risposta l’intensificazione della repressione, anche attuando tali sentenze disumane.
Come Nessuno tocchi Caino ha riassunto in altre occasioni, il furto (art. 201 del codice penale iraniano) rientra tra i sei reati definiti “Hodud” (o Hudud), reati considerati “insindacabili” perché citati espressamente nel Corano e le cui pene sono severissime ed indiscutibili. I sei reati Hudud sono: l’apostasia (Riddah), la fornicazione e l’adulterio (Zina), la falsa accusa di fornicazione e di adulterio (Qadf), il furto (Sariqa), il saccheggio a mano armata (Hiraba) e il bere alcolici (Shurb al Khamr). Questi sei reati sono considerati particolarmente gravi perché ritenuti molto pericolosi per il benessere e la pacifica coesistenza della Ummah Islamica nel suo complesso. L’art. 201 prevede che per una prima condanna per furto la punizione sia l’amputazione di quattro dita della mano destra (“avere quattro dita della mano destra completamente tagliate in modo che rimanga solo il palmo della mano e il pollice”), per una seconda condanna l’amputazione del pie
 de sinistro, per una terza condanna l’ergastolo, e per una quarta condanna l’impiccagione.
(Fonte: Iran-HRM)

ALABAMA (USA): TRE ORE DI RITARDO NELL'ESECUZIONE DI JAMES PER PROBLEMI A INSERIRE L’ENDOVENA
L’Amministrazione Penitenziaria dell'Alabama ha dichiarato il 29 luglio che l'esecuzione di Joe Nathan James è stata ritardata a causa del tempo impiegato ad inserire l’endovena.
Lo stato ha offerto maggiori informazioni sul ritardo di ore che gli osservatori hanno affermato essere preoccupante e insolito.
“Il protocollo afferma che se le vene sono tali da impedire l'accesso endovenoso, il team eseguirà una procedura di linea centrale. Fortunatamente, questo non è stato necessario e con un tempo adeguato è stato stabilito l'accesso endovenoso", ha affermato l'Alabama Department of Corrections in una dichiarazione inviata via email all'Associated Press.
La dichiarazione non ha spiegato quanto tempo ci è voluto per trovare la vena, o quanti tentativi siano stati fatti. Ma un portavoce dell’amministrazione ha confermato le cause del ritardo.
Joe Nathan James è stato messo a morte la sera del 28 luglio per l'omicidio nel 1994 della sua ex fidanzata Faith Hall, 26 anni, più di 3 ore dopo il prefissato inizio della procedura.
L'esecuzione era fissata per le 18:00. CDT e la Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto l’ultimo ricorso di James alle 17:24. I giornalisti sono stati portati nel cortile della prigione di Holman con un furgone verso le 18:30 per assistere all'esecuzione, che non è iniziata fino alle 21:04 circa. Il detenuto è stato dichiarato morto alle 21:27.
Un ritardo di tale durata è insolito rispetto alle esecuzioni condotte in Alabama negli ultimi anni.
“I ritardi di 3 ore nell'esecuzione delle esecuzioni dopo che tutte le questioni giudiziarie sono state risolte non sono normali. Non accadono a meno che qualcosa non sia andato storto o lo stato non sia adeguatamente preparato", ha scritto in una e-mail venerdì Robert Dunham, direttore del Death Penalty Information Center.
Lo stato nel 2018 ha annullato l'esecuzione di Doyle Lee Hamm dopo che il personale ha avuto difficoltà a trovare una vena adatta. Il detenuto è stato perforato almeno 11 volte agli arti e all'inguine, secondo il suo avvocato, poiché il personale ha tentato senza successo di inserire il catetere.
Dunham ha affermato che il ritardo con l'esecuzione più recente mostra la necessità di una maggiore trasparenza.
“In un sistema veramente trasparente, i media sarebbero in grado di assistere ai tentativi di inserire l’endovena. Se ci sono volute tre ore per impostare un catetere, questo è un grosso problema, che ricorda il fallito tentativo di esecuzione di Doyle Lee Hamm", ha scritto Dunham in un'e-mail.
Il capo dell’amministrazione penitenziaria dell'Alabama, John Hamm, ha detto ai giornalisti il 28 luglio che "non è successo nulla di straordinario". Alla domanda giovedì se ci fossero state difficoltà a trovare una vena durante l'iniezione letale di James, Hamm aveva risposto: "Non lo so".
“Non posso enfatizzare troppo questa procedura. Stiamo eseguendo la punizione definitiva, l'esecuzione di un detenuto. E abbiamo protocolli e siamo molto intenzionali nel nostro processo e ci assicuriamo che tutto vada secondo i piani. Quindi, se ciò richiede pochi minuti o poche ore, è quello che facciamo", ha detto Hamm ai giornalisti.
In confronto, l'esecuzione di gennaio di Matthew Reeves è stata relativamente rapida. I giornalisti sono partiti per la prigione verso le 20:27 per assistere alla procedura, e Reeves è stato dichiarato morto alle 21:24.
Alla domanda se ci fosse stata qualche resistenza da parte di James, Hamm ha detto: "Nessuna di cui sono a conoscenza".
James non ha mostrato movimenti deliberati in nessun momento durante la parte dell'esecuzione assistita dai media, non ha rilasciato una dichiarazione finale, e aveva gli occhi chiusi. Hamm, rispondendo alle domande, ha negato che James fosse stato sedato in anticipo.
(Fonte: Associated Press, 30/07/2022)

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