Nessuno tocchi Caino - IRAN, LA FORCA DEI MULLAH LAVORA A PIENO RITMO
Nessuno tocchi Caino news
Anno 23 - n. 16 - 22-04-2023
Contenuti del numero:
1. LA STORIA DELLA SETTIMANA : IRAN, LA FORCA DEI MULLAH LAVORA A PIENO RITMO
2. NEWS FLASH: TARFUSSER, IL PM CHE SI BATTE PER PROVARE L’INNOCENZA
3. NEWS FLASH: NESSUNO TOCCHI CAINO, CONTINUA IL VIAGGIO DELLA SPERANZA NEI LUOGHI DI PENA IN TOSCANA
4. NEWS FLASH: NIGERIA: 3.298 DETENUTI NEL BRACCIO DELLA MORTE. IL
SERVIZIO DI CORREZIONE INCORAGGIA I GOVERNATORI A COMMUTARE LE CONDANNE
CAPITALI
5. NEWS FLASH: MYANMAR: 151 CIVILI CONDANNATI A MORTE DAI MILITARI DAL COLPO DI STATO
6. I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :
IRAN, LA FORCA DEI MULLAH LAVORA A PIENO RITMO
Elisabetta Zamparutti su Il Riformista del 21 aprile 2023
La settimana scorsa è stato pubblicato il Rapporto sulla pena di morte
in Iran, curato da Iran Human Rights (IHR) e da Ensemble Contre la Peine
de Mort (ECPM). Si riferisce all’anno 2022. Un anno che passerà alla
storia per le rivolte innescate dalla morte, il 16 settembre, di Mahsa
Amini, e per l’uso che della forca si è fatto in termini intimidatori
con le almeno 582 esecuzioni registrate da IHR e che sarebbero ancora di
più, almeno 642, secondo i dati di Nessuno tocchi Caino. Un numero che
segna lo sbalorditivo aumento del 75% rispetto alle esecuzioni compiute
l’anno precedente.
Due sono i manifestanti impiccati nel dicembre del 2022 (altri due ne
sono seguiti nel 2023). Uno è stato fatto penzolare come monito in una
pubblica piazza.
Al momento della pubblicazione di questo Rapporto risultano oltre 100 i
manifestanti a rischio di condanna capitale mentre almeno 20 già sono
stati condannati a morte seppur in via ancora non definitiva. La
repressione dei manifestanti ha avuto però un costo politico per le
reazioni internazionali che ha provocato.
La censura internazionale è stata meno ferma verso le esecuzioni per
reati non politici, anche se nei soli mesi di novembre e dicembre 2022, i
più caldi delle proteste, sono state almeno 127 (oltre 2 al giorno!).
Quasi la metà dei giustiziati dall’inizio delle proteste e un 44% degli
impiccati nell’arco di tutto l’anno erano stati condannati a morte per
reati legati alla droga senza che né l’Ufficio per la droga e il crimine
delle Nazioni Unite (UNODC) né i paesi che ne finanziano i progetti in
Iran abbiano espresso la benché minima critica.
L’aumento delle esecuzioni è andato di pari passo con l’intensificarsi
del silenzio che le ha avvolte. Solo l’1% di quelle per droga e giusto
un piccolo 12% di tutte le altre sono state pubblicamente dichiarate dal
regime. Sul resto, silenzio.
A pagare il prezzo della repressione come sempre sono state le minoranze etniche.
I giustiziati baluci costituiscono il 30% del totale nonostante
costituiscano solo circa il 4% della popolazione iraniana. Per il resto
gli Ayatollah hanno mandato sulla forca persone accusate di omicidio,
compresi 3 minorenni al momento del fatto e 13 donne. In Iran non c’è
differenza tra omicidio premeditato e omicidio colposo. In entrambi i
casi, viene riconosciuto ai parenti della vittima il potere di vita o di
morte. Se decidono di far morire il condannato sono incoraggiati a
eseguire personalmente la condanna.
Da quando sono state istituite 44 anni fa, le Corti rivoluzionarie
continuano a essere fonte primaria di condanne a morte in un contesto in
cui il giusto processo è una chimera tra confessioni estorte con la
tortura, negazione del diritto alla difesa in un sistema in cui
sostanzialmente manca la separazione dei poteri, tutto dovendo
ricondursi e ubbidire alla Guida Suprema. È accaduto così che Mohsen
Shekari che aveva bloccato una strada rovesciando bidoni di immondizia e
portava un coltello per autodifesa sia stato arrestato il 25 settembre,
torturato, processato senza che avesse un avvocato e condannato a morte
per moharebeh (guerra contro Dio) in un processo mediatico che ha steso
un tappeto rosso alla sua impiccagione avvenuta a soli 75 giorni
dall’arresto. Un’impiccagione avvenuta l’8 dicembre, il nostro giorno
della Madonna.
Con le esecuzioni pubbliche è proseguita anche la consuetudine di
catturare cittadini stranieri per usarli come arma di ricatto sotto
minaccia di condannarli alla pena capitale e giustiziarli come è
accaduto con Habib Asyoud (cittadino svedese iraniano) e Jamshid
Sharmahd (tedesco iraniano). Aspettiamo allora l’esito di quello che
l’epocale Missione conoscitiva internazionale istituita dal Consiglio
per i diritti umani delle Nazioni Unite lo scorso 24 novembre accerterà
in merito alle violazioni dei diritti umani in Iran durante le
manifestazioni “Donne, vita, libertà in Iran” e che presenterà durante
la 55ma sessione del Consiglio nel marzo 2024.
Intanto però siamo tutti d’accordo – Iran Human Rights ed ECPM con
Nessuno tocchi Caino – che vada stabilita subito una moratoria delle
esecuzioni capitali in Iran. Ma soprattutto, che l’attenzione sulle
esecuzioni e le violazioni dei diritti umani in questa dittatura
teocratica vada mantenuta su ogni esecuzione non solo per quelle
politiche. E che questa attenzione vada mantenuta anche quando i
riflettori dei media si spengono o si affievoliscono come è avvenuto
nelle scorse settimane sulle
manifestazioni antiregime. Potrei dire, come Marco Pannella diceva sul carcere, che dall’Iran non ci si deve distrarre mai.
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TARFUSSER, IL PM CHE SI BATTE PER PROVARE L’INNOCENZA
Fausto Malucchi su Il Riformista del 21 aprile 2023
Accade spesso che alla fine di una proiezione, anche di una proiezione emozionante e complessa come quella che aveva ripercorso la vicenda giudiziaria di un uomo, condannato innocente e, per ventun anni, prigioniero senza colpa delle galere italiane, si chieda se qualcuno vuole intervenire. Spesso nessuno si alza e la serata finisce lì.
Ma quella sera, un uomo percorse il breve spazio che separava la platea dal palco, salì le scalette di servizio, si fermò davanti a un altro uomo, vittima dell’errore di Dike o forse di qualche giudice sbagliato e, con sguardo diretto e voce nordica, pronunciò parole giuste, a corredo di una sentenza che nella forma ma solo nella forma aveva riportato l’orologio della vita di Angelo Massaro indietro di ventuno anni: “in nome del popolo italiano e delle istituzioni, le chiedo umilmente scusa”. Sembrarono parole strane ma Angelo Massaro, commosso, le capì.
E mentre la gente si guardava ancora, interrogandosi con gli occhi sull’identità di quello sconosciuto, Cuno Tarfusser, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano, già Vice Presidente per nove anni della Corte Internazionale dell’Aja, Procuratore Capo di Bolzano, era già lontano, sul primo taxi che nella notte lo portava a casa. Lui non c’entrava nulla con quel caso, non lo aveva mai trattato, ma era un giudice e come giudice si scusò.
Ci vuole coraggio, sensibilità, umanità, per scendere dallo scranno e mettersi all’altezza degli uomini; per guardarli negli occhi, per scoprire i loro errori o, talvolta, anche i propri. Certo il prestigio di Tarfusser non nasceva quella sera, con quel telegrafico e bellissimo intervento che aveva colpito la sensibilità dei presenti ma non aveva avuto conseguenze e meritato risalto nell’opinione pubblica. Era stato lui a condurre importantissime indagini a Bolzano e poi all’Aja, aveva firmato i mandati di cattura a carico del Presidente del Sudan Al Bashir per genocidio, nei confronti di Gheddafi per crimini contro l’umanità e per la stessa ragione aveva rinviato a giudizio il Presidente del Kenya Uhuru Kenyatta e il Vicepresidente del Congo Jean Pierre Bemba. Era per queste “pratiche” e non per essere salito sul palco a chiedere scusa per la magistratura che Cuno Tarfusser aveva assunto un ruolo primario tra i giudici.
Devo dirvi la verità, di tutto ciò non mi importava molto. Bravo, veramente bravo Tarfusser, però il tema non mi coinvolgeva emotivamente più di tanto.
Poco dopo però mi imbattevo in un articolato, appassionato e complesso ricorso per Cassazione, avverso una sentenza di condanna per omicidio, redatto con stile degno del migliore dei difensori, che però non era un avvocato bensì il titolare dell’accusa, il pubblico ministero. Cuno Tarfusser, si proprio lui, si firmava. E nella premessa spiegava ai Giudici della Suprema Corte che era l’art. 73 dell’Ordinamento Giudiziario che gli imponeva come Pubblico Ministero il controllo sull’osservanza delle leggi, anche di quelle che avevano portato alla condanna, ed era poi l’art. 359 del codice di procedura penale che lo obbligava “a ricercare ed acquisire le prove anche a favore dell’imputato”. Niente di strano quindi in quel ricorso ma soltanto rispetto e applicazione della legge, a cui sono tenuti tutti e in particolare il Pubblico Ministero. E la Corte di Cassazione, accogliendo le censure del dott. Cuno J. Tarfusser, annullava con rinvio la sentenza di condanna dell’i
mputato, pronunciata dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano.
Apprendevo allora che Tarfusser aveva presentato anche altri ricorsi, a favore di altri imputati ingiustamente condannati e aveva ottenuto l’annullamento anche di altre sentenze. Il caso Alfano non era stato per lui un fatto eccezionale ma il consueto adempimento del dovere che lo obbligava al doppio controllo, sia quando l’imputato veniva assolto ma anche quando risultava condannato.
Non so se la Corte d’Appello di Brescia accoglierà o meno la richiesta di revisione da lui presentata in queste ore avverso la sentenza che condannò Olindo Romano e Rosa Bazzi alla pena dell’ergastolo per la strage di Erba. Già di per sé è comunque un fatto clamoroso che comunque vada a finire aumenterà a dismisura la sua notorietà. Ma non sarà l’esito di questo importantissimo procedimento ad accrescere o intaccare il valore di un uomo, preparato e libero, che per gran parte della sua vita ha inciso sulla vita di altri uomini e che ha ricordato o insegnato, a noi tutti, che nel nostro ordinamento il pubblico ministero, così come è il titolare dell’accusa, rimane pur sempre il primo codifensore dell’imputato.
Non per lo stile incerto o per l’inesistente fama dello sconosciuto autore, bensì per la storia che contiene, per le persone e il gesto che vi viene raccontato, consiglierei di ritagliare, rileggere e conservare questo articolo: all’interno di un libro se siete studenti o uomini curiosi, tra le pagine del codice se siete Magistrati.
NESSUNO TOCCHI CAINO, CONTINUA IL VIAGGIO DELLA SPERANZA NEI LUOGHI DI PENA IN TOSCANA
E’ ripreso il 18 aprile con la visita al carcere di Arezzo il “Viaggio della speranza” nei luoghi di pena organizzato da Nessuno tocchi Caino (presenti i dirigenti Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti) in collaborazione con le Camere Penali.
Il giro in Toscana prevede tappe negli istituti di Pisa, Livorno, Massa, Lucca, Porto Azzurro, Pistoia, Prato, Siena e Grosseto dove, nelle intenzioni degli organizzatori, il “visitare i carcerati” non è solo un’opera di misericordia, ha lo scopo anche di ascoltarli, verificare le loro condizioni di vita materiale e raccontarle, ma soprattutto infondere fiducia e speranza in chi rischia di prevalere sfiducia e disperazione, come testimonia il numero dei suicidi che anche in questo anno aumenta giorno dopo giorno.
Dopo le visite in carcere si svolgeranno conferenze nel corso delle quali verranno presentati i risultati e le proposte di superamento di una realtà, quella carceraria, che sempre più appare fuori controllo, fuori legge, fuori dal tempo e fuori dal mondo.
Dopo le visite in carcere e le iniziative di Arezzo, Pisa, Livorno e Massa, il calendario prosegue con:
LUCCA Sabato 22 aprile
Ore 11 - Visita al Carcere
PORTO AZZURRO Lunedì 24 aprile
Ore 11 - Visita al Carcere
PISTOIA Martedì 25 aprile
Ore 11 - Visita al Carcere
PRATO Mercoledì 26 aprile
Ore 11 - Visita al Carcere
Ore 16:30 - Pubblico dibattito
c/o Caffè La Piazzetta Piazza Buonamici
SIENA Giovedì 27 aprile
Ore 11 - Visita al Carcere
Ore 15:30 - Conferenza "Bisogna aver visto: analisi comparata della situazione carceraria italiana e tedesca"
Auditorium Unistrasi Via dei Pispini 1
GROSSETO Venerdì 28 aprile
Ore 11 - Visita al Carcere
Ore 13 - Conferenza stampa
c/o Libreria Palomar P.za Dante 18
Il Viaggio della speranza in Toscana è organizzato da Nessuno tocchi Caino in collaborazione con l’Osservatorio Carcere dell’UCPI e le Camere Penali di Firenze, Arezzo, Pisa, Livorno, Massa, Lucca, Pistoia, Prato, Siena e Grosseto.
Per informazioni
335 8000577
Per saperne di piu' :
NIGERIA: 3.298 DETENUTI NEL BRACCIO DELLA MORTE. IL SERVIZIO DI CORREZIONE INCORAGGIA I GOVERNATORI A COMMUTARE LE CONDANNE CAPITALI
Il Servizio di Correzione Nigeriano (NCoS) ha dichiarato che sono 3.298 i prigionieri nel braccio della morte del Paese.
Parlando con l’agenzia di stampa NAN il 19 aprile 2023, Abubakar Umar, addetto alle pubbliche relazioni dell'NCoS, ha anche affermato che il termine "criminale condannato" è stato abrogato.
Umar ha precisato che la Legge sul NCoS del 2019, che ha ridefinito le carceri come centri di correzione, ha abolito il termine.
Ha detto che il Servizio preferisce usare il termine più amichevole “detenuti nel braccio della morte (IDR)”.
Ha osservato che le condanne a morte non vengono sempre eseguite immediatamente dopo essere state emesse.
"Ci sono spesso lunghi periodi di incertezza per i condannati mentre i loro casi vengono appellati a livelli più alti", ha detto Umar.
“I detenuti in attesa di esecuzione vivono in quello che chiamiamo braccio della morte. Alcuni prigionieri sono stati giustiziati più di 15 anni dopo la loro condanna.
“Stavano praticamente aspettando il cappio del boia nei nostri centri di custodia dopo essere stati giudicati colpevoli di reati capitali.
“Ne abbiamo parecchi; ad oggi, abbiamo un totale di 3.298 detenuti nel braccio della morte. Costituiscono circa il 4,5% del numero totale di detenuti nei nostri vari centri di custodia a livello nazionale”.
Umar ha detto che alcuni detenuti nel braccio della morte sono reclusi da molti anni, aggiungendo che la maggior parte di loro ha commesso reati capitali come omicidio colposo, rapina a mano armata e terrorismo.
“La cosa buona è che li coinvolgiamo tutti in attività che riformeranno e modificheranno i loro comportamenti”, ha detto.
“L'obiettivo è renderli migliori cittadini della nazione.
“Li sottoponiamo anche a programmi di sviluppo personale come la gestione della rabbia, l'educazione civica e l'imprenditorialità.
"Alcuni di loro, che fanno bene e si dimostrano capaci di lavoro, operosità e disciplina, sono raccomandati per la grazia alle autorità competenti".
Il portavoce dell'NCoS ha affermato che l'intervento dei gruppi per i diritti umani, contrari alle condanne a morte, ha ridotto le esecuzioni.
"Attualmente, c'è una sorta di moratoria sulle esecuzioni dei condannati", ha detto.
“Prima che la moratoria sulle esecuzioni dei condannati a morte si diffondesse, le esecuzioni venivano praticate come e quando dovuto.
“Ma con le crescenti attività dei gruppi per i diritti umani, molti governatori evitano di firmare gli ordini di esecuzione di questi criminali.
“Anche se (la pena capitale) è ancora in pratica, non è comune come una volta. L'ultima esecuzione di un condannato a morte è stata effettuata nel 2016 a Edo.
“Incoraggiamo i governatori statali, che evitano di firmare le condanne a morte, a commutarle in altre sanzioni.
“Questo assicurerà che la toga della morte venga rimossa dai detenuti. Ci aiuterà anche a gestirli correttamente senza problemi”.
(Fonti: The Nation, 19/04/2023)
MYANMAR: 151 CIVILI CONDANNATI A MORTE DAI MILITARI DAL COLPO DI STATO
La giunta militare del Myanmar ha condannato a morte 151 civili nel corso degli oltre due anni dal colpo di stato del febbraio 2021, secondo un comunicato stampa dell'11 aprile 2023 dell'Associazione di Assistenza ai Prigionieri Politici (AAPP).
Tra i condannati a morte, 34 attivisti per la democrazia hanno meno di 30 anni, secondo AAPP.
"E’ evidente che il regime stia deliberatamente prendendo di mira i giovani che sostengono attivamente il movimento democratico che si oppone al colpo di stato militare", ha detto l’AAPP.
Il regime ha condannato a morte nel luglio 2022 quattro attivisti per la democrazia – tra cui il leader studentesco di Generazione 88 U Kyaw Min Yu aka Ko Jimmy e l’ex deputato della National League for Democracy (NLD) Ko Phyo Zeyar Thaw.
Il 22 marzo, il tribunale interno alla prigione di Insein ha condannato all'ergastolo Ko Kaung Sett Paing, 20 anni, membro del sindacato studentesco Okkalapa di Nord Yangon.
Sempre un tribunale militare, il 9 febbraio ha condannato all’ergastolo Ko Hein Htet aka Ko Po Po, membro del sindacato studentesco Okkalapa di Nord Yangon.
“L'incarcerazione degli studenti è dovuta al sistema di dittatura militare che è stato saldamente costruito negli anni con l'appoggio della giunta e della burocrazia militare. Pertanto, solo lo sradicamento della dittatura militare ci renderà liberi da questa oppressione", ha detto all’agenzia DMG un esponente della Federazione dei Sindacati Studenteschi di Burma (ABFSU).
DMG continua a tentare di contattare il Magg. Gen. Zaw Min Tun, portavoce del regime, per confermare le informazioni contenute nella dichiarazione dell'AAPP secondo cui 151 attivisti e civili pro-democrazia sono stati condannati a morte dal 1° febbraio 2021.
Il regime ha dichiarato che l'AAPP è un'associazione non registrata che non rispetta le regole relative alla registrazione di associazioni e non ha alcuna legittimità giuridica ai sensi della legge.
U Ye Tun, un analista politico del Myanmar, ha affermato che a partire dal colpo di stato il regime militare agisce come se avesse il diritto di perseguire e punire le persone che ritiene interferiscano col proprio operato.
“Dopo il colpo di stato, le persone che si ritiene abbiano interferito con il regime vengono perseguite e punite. Voglio dire che il regime vuole fare ciò che ha il diritto di fare, secondo la Costituzione”, ha aggiunto.
AAPP è un'organizzazione non governativa fondata a Mae Sot, in Thailandia, nel 2000, quando in Myanmar c’era un’altra giunta militare.
(Fonti: BNI, 18/04/2023)
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