due righe intorno "Azzardo" di Alessandra Mureddu (Einaudi)

 

Il quarto giorno, sfinita, consegno gli oggetti dei miei e dei miei nonni. Dalla vendita degli ori e degli orologi ottengono l'equivalente di quasi due anni di stipendio, in quattro giorni in sala brucio tutto. Di quel posto ricorderò per sempre l'unico cliente che mi è capitato di incrociare, una piccola signora che si separava piangendo da un pendente grande come un'unghia con sopra incisa la Madonna.” (pag. 66)

Conosco una donna che accompagna la sua giornata fermandosi in ogni edicola, bar, Lottomatica, supermercato per acquistare Gratta e vinci. L'ultima volta che ci siamo incontrati è riuscita a grattarne ben cinque mentre mi chiedeva di mia sorella e del mio lavoro in Svizzera. Ha le unghie nere per tutti i residui di quei numeri o simboli che non le regalano mai un momento di pace. Vedo i suoi occhi illuminarsi solo quando le sue dita toccano Il Miliardario mentre quando gratta sembra un forno inceneritore.

Non sono certo io la persona giusta per poterla giudicare o criticare visto che vivo di dipendenze pure io. So bene cosa significa tornare a casa dal lavoro e non trovare una birra in frigo o organizzarsi scientificamente per non rimanere senza alcolici quando i negozi sono chiusi per festività. Dipendenza. Brividi. Vita che va a pezzi. Relazioni tossiche. Scuse. Bugie. Ferite che non si rimarginano mai. Promesse che sono già tradimenti. Conti in banca in rosso. Debiti. Disperazione che diventa quotidianità. La quotidianità di quella scommessa, di quella grattata, di quel bicchiere, degli incubi, di una vincita che si dissolve in due secondi.

“Azzardo” di Alessandra Mureddu (Einaudi) è tutto questo e molto di più. È una storia vera che diventa un'opera straziante, violenta capace di raccontare il calvario di una giocatrice “educata” al gioco dal padre, lui stesso dipendente dal gioco. Un calvario di anonime sale da gioco, di un casinò a Kranjska Gora, di stanze d'albergo come soste temporanee fra una sessione di giocate e la successiva che è già in rampa di lancio, di Compro oro dove vendere pezzi della propria vita, dei Dodici Passi del Programma di recupero per i Giocatori Anonimi fino alla prossima ricaduta. È il viaggio al termine di quell'ultima scommessa che non arriva mai di una donna che ha per amica e figlia e compagna Brenda, una cagnetta bastarda, e che vive l'orrore dei ricoveri in reparti psichiatrici e vede scomparire pezzo dopo pezzo la propria famiglia e ogni genere d'affetto. Tutto spazzato via dagli schermi delle slot machine, dei prelievi al bancomat, dei medicinali per tenere a bada l'orrore della propria vita.

È l'unica persona con cui parlo lì dentro. Quando gli dico “Che buon odore”, mi spiega che a ogni sala giochi viene abbinata una profumazione in modo che il giocatore riconosca l'odore e si sente a casa: la stessa profumazione viene diffusa anche all'esterno per invogliarlo a entrare. Poi indica in alto, dove ci sono dei piccoli altoparlanti nascosti nel controsoffitto: a tratti riproducono il suono dei bonus, mi dice, così il giocatore immagina che altre macchine stiano pagando e si sente spronato a continuare. Saperlo non mi serve a niente, continuo a giocare perché non posso fare diversamente, non posso scegliere.” (pag. 29)

Non aspettatevi uno di quei memoriali educativi che vanno tanto di moda e "servono" per qualche causa perché questa vita/opera disgraziata pulsa sotto i colpi di un ritmo narrativo perfetto, feroce, chirurgico (prima persona perfetta) che non concede nulla alla lacrima facile, alle confessioni buone per un programma tv pomeridiano.

“Azzardo” è un'opera incandescente che vive di dolore e talento cristallino, senza compromessi di alcuna sorta, perché gli abissi dove si precipita non sono un Harmony travestito da romanzo ma un corpo che ingrassa e svanisce, che diventa uno schermo dove brillano le nostre angosce e i nostri morti, le nostre case svuotate, quella madre che in punto di morte ci riempie di parole d'amore, i soldi che ingrassa quello Stato che poi ci invita a vivere vite sane e ad abbandonare il gioco, quel padre che sta scomparendo ma indica che c'è una possibilità per ricominciare a vivere.

Dentro questo vuoto che è la vita per fortuna capita ancora di incontrare libri che sono pura bellezza.

Che descrivono come la vita sia un gioco all'infinito di dipendenze.

Che parlano di me.

E che lo fanno senza sbagliare una frase.

Perché gli abissi in letteratura sono per me le stanze dove il mio dolore trova forma.

Tepore.

Bellezza.

Congedo.

Almeno per qualche ora.

Commenti

Post più popolari