Nessuno tocchi Caino - RITA È GIÀ GARANTE, VA SOLTANTO NOMINATA

 Nessuno tocchi Caino news

Anno 23 - n. 24 - 24-06-2023

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : RITA È GIÀ GARANTE, VA SOLTANTO NOMINATA
2.  NEWS FLASH: STORIA DI WON, DA TRENT’ANNI SULLA SOGLIA DELLA FORCA
3.  NEWS FLASH: LUCIA E GIUSEPPE, GUARITI DAL PERDONO
4.  NEWS FLASH: AFGHANISTAN: SECONDA ESECUZIONE PUBBLICA DA QUANDO I TALEBANI HANNO RIPRESO IL POTERE
5.  NEWS FLASH: USA: 122.840 PERSONE IN ISOLAMENTO NELLE CARCERI STATUNITENSI
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : DESTINA IL TUO 5X1000 A NESSUNO TOCCHI CAINO


RITA È GIÀ GARANTE, VA SOLTANTO NOMINATA
Andrea Nicolosi* su L’Unità del 23 giugno 2023

Poco più di un mese fa è trascorso il 7° anniversario dall’ultimo saluto, dallo stigmatico e indimenticabile “A subito” di Marco Pannella, a cui la Repubblica Italiana e il mondo intero devono tanto.
Indimenticato il suo indefesso impegno politico – nel tempo divenuto transnazionale e transpartito – per il riconoscimento ovunque dei diritti inviolabili e violati e la tutela dei portatori, anch’essi violati, di tali diritti, la cura degli ultimi e tra questi dei detenuti, condannati a vari tipi di morte: alla pena di morte, alla pena fino alla morte, alla morte per pena, alla tortura...
Quella portata avanti da Marco Pannella, insieme a Mariateresa Di Lascia e tanti altri, è una battaglia sacra che merita da parte di tutti il massimo rispetto e riconoscimento.
Una totale dedizione e un afflato umano e politico di valore inestimabile proseguito e interpretato negli anni da Nessuno tocchi Caino e, in special modo e con lo stesso spirito di abnegazione, da chi da anni lo presiede, dirige e amministra: Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti.
Siamo alla vigilia delle nomine della terna che dovrà presiedere l’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e oltre a Nessuno tocchi Caino, che conta ormai 3.000 iscritti, e al suo direttivo che tiene insieme, uno accanto all’altro, docenti universitari, professionisti del diritto, ex detenuti, parlamentari di tutti gli schieramenti politici, giovani studenti, attivisti, tutto il “mondo carcere” non può oggi non sperare nella nomina di Rita Bernardini. Sapendo, peraltro, del particolare favore del Ministro Nordio nei confronti della sua persona, così come dell’attenzione e considerazione del Presidente Meloni e del Governo verso Rita Bernardini e la sua quotidiana attività che, sempre più qualificata, prosegue ininterrotta da più di 30 anni, così come del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che è anche intervenuto per dissuaderla a proseguire scioperi della fame divenuti estremi che la mettevano in serio pericolo di vita.
C’è tutto un “mondo carcere” che, con Rita Bernardini Garante nazionale dei detenuti, spera si possa realizzare la perfetta corrispondenza tra l’istituzione e la funzione e tra la funzione e il suo preposto.
In tutti questi anni, Rita è stata già di fatto una Garante dei detenuti, avendo girato e girando in lungo e in largo per le carceri d’Italia, letteralmente incarnando quell’opera cristiana di misericordia corporale che è il “visitare i carcerati”, caricandosi delle criticità e disagi non solo dei detenuti ma anche della comunità dei c.d. “detenenti”, la polizia e tutti gli altri operatori penitenziari, che operano troppo spesso in condizioni di estrema difficoltà e in carenza di organico, risorse, organizzazione, formazione... È certo che se Rita non si fosse caricata e non avesse assunto in sé e nella sua vita il “mondo carcere”, i condannati, i detenuti, i carcerieri, i direttori, gli educatori, gli assistenti sociali e tutte le figure che vi ruotano intorno, comprese, indirettamente, le loro rispettive famiglie, il danno ambientale ed esistenziale proprio della carcerazione sarebbe senz’altro più drammatico e, forse, non più calcolabile.
Sempre pronta al soccorso, al salvataggio, al conforto, all’amore verso questi condannati – anche con i suoi scioperi della fame estremi, che ci hanno tenuti tutti in allarme per la sua vita – con la forza gentile della nonviolenza ha contrastato gli effetti di un potere che può divenire il più duro, cieco, spietato.
Rita Bernardini continua a essere un patrimonio della storia non solo radicale, di Nessuno tocchi Caino, che andrebbe tutelato come bene prezioso con un dovuto riconoscimento del valore che le è proprio. Una investitura, finalmente ufficiale, consentirebbe a Rita di esercitare la funzione di Garante dei detenuti come ha sempre fatto e di essere quella che è sempre stata, con la visione del carcere che era di Marco Pannella: una comunità, non una somma, un insieme di parti diverse, non contrapposte, da rispettare, conciliare. Un mondo difficile da tenere insieme, in ordine, nell’unico modo possibile: con il rispetto della legge, della regola, con il dialogo e la nonviolenza.
Servono “portatori d’acqua” nel deserto dei diritti carcerari, per questo serve Rita Bernardini.
* Direttivo di Nessuno tocchi Caino

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

STORIA DI WON, DA TRENT’ANNI SULLA SOGLIA DELLA FORCA
Sergio D’Elia su L’Unità del 18 giugno 2023

Il signor Won ha vissuto tra la vita e la morte per quasi trent’anni. Con cucita addosso una targhetta rossa, il colore che identifica i condannati a una morte che incombe come una spada sulla vita quotidiana. Nei suoi anni nel braccio della morte, Won ha visto passare davanti alla sua cella molti compagni diretti alla forca. Ogni volta ha pensato che il prossimo poteva essere lui.
Lo ha portato nel braccio un fatto orribile. Won non approvava della moglie la frequentazione dei Testimoni di Geova. Un giorno, ubriaco, entrò nella Sala del Regno del luogo di culto a Wonju, nella provincia di Gangwon, la cosparse di benzina e accese un fuoco. Le fiamme si sono propagate all’istante. Morirono 15 persone, 25 rimasero ferite, una delle vittime aveva solo 13 anni.
L’articolo 78 della legge penale della Corea del Sud stabilisce che il periodo di prescrizione della pena capitale termina se la pena non viene eseguita entro 30 anni dalla pronuncia della sentenza. Won è stato condannato dalla Corte Suprema nel novembre 1993. Per trent’anni non ha mai dimenticato che sarebbe potuto arrivare il momento del raccolto di ciò che aveva seminato. “Sarà oggi? Sarà domani? Sarà l’anno prossimo?”, ha pensato e sentito ogni giorno, per trent’anni.
I termini di prescrizione scadono fra pochi mesi. Ma cosa scade dopo 30 anni? Il tempo limite per l’esecuzione capitale o anche quello della detenzione? A novembre, qualcuno dovrà decidere se il condannato a morte più longevo dello Stato può tornare a vivere tra i vivi o restare tra quelli che son sospesi sul ciglio della fossa dei morti viventi. Le opinioni dei giuristi sono contrastanti. Alcuni sostengono che una persona incarcerata nel braccio della morte dovrebbe essere rilasciata allo scadere del limite di 30 anni. Altri affermano che il prigioniero dovrebbe rimanere in detenzione perché il tempo trascorso in attesa dell’esecuzione non conta ai fini della prescrizione. A seconda di come viene interpretata la legge, la vita di Won può cambiare dal giorno alla notte.
Tra il riportarlo alla vita tra i vivi fuori dal carcere e il destinarlo alla morte nel cimitero dei vivi, il governo coreano ha preso posizione. Dopo lo scandalo di 23 prigionieri impiccati in un solo giorno, il 30 dicembre 1997, la Corea del Sud ha “quasi” abolito la pena di morte, ma pare non voglia abolire la pena fino alla morte.
Il 5 giugno scorso, il governo ha approvato un disegno di legge che elimina la prescrizione per le condanne a morte. Il provvedimento, una volta in vigore, sarà applicato anche retroattivamente. Probabilmente, la tregua di fatto delle esecuzioni non sarà violata, e Won e gli altri 58 prigionieri del braccio non saranno impiccati. Ma sulla loro divisa rimarrà affissa la targhetta rossa, il marchio d’infamia dei condannati a morte.
Won è un detenuto modello che non è mai stato mandato nel “buco” per aver litigato con i suoi compagni di reclusione o aver causato problemi. Negli ultimi quattro anni, ha inviato 34 lettere al Professor Lee Deok-in che studia la pena di morte. Ha espresso rammarico per le azioni passate e il timore che la sua condanna venga eseguita. La paura quotidiana della morte ha assunto anche la forma fisica di un cancro al fegato. È finito nel braccio della morte per aver bruciato un luogo di culto e ora è un fervente protestante. La conversione è avvenuta grazie a un membro della chiesa che dopo la condanna a morte gli ha fatto visita e regalato la Bibbia. Da sopravvissuto alla pena di morte e alla sua appendice tumorale, Won si sveglia ogni giorno alle 4 del mattino per leggere il sacro libro e pregare per le vittime e le loro famiglie.
In una lettera, Won ha scritto che essere nel braccio della morte ed essere imprigionato a vita sono due cose molto diverse, come il cielo e la terra, la vita e la morte. Mentre i condannati a morte vivono ogni giorno con un piede sulla soglia della forca, i detenuti a vita possono sperare un giorno di tornare al mondo. A questo puntano gli abolizionisti coreani: a una politica di “ergastolo relativo” come alternativa alla pena capitale, che offra l’opportunità della libertà condizionale.
Il dono della grazia può cambiare il modo di pensare, di sentire e di agire di un prigioniero. “Non ho il diritto di esigerlo”, ha scritto Won in una lettera. Ma è certo che se gli fosse data la possibilità, vivrebbe il resto della vita donandola al prossimo, cercando di riparare l’irreparabile. Versando lacrime di rimpianto per il danno arrecato e cercando di rimediare nell’unico modo umanamente possibile. Come nel kintsugi, l’arte giapponese della riparazione con l’oro: quel che si è rotto non può essere riparato e tornare alla sua forma originaria, ma può ritornare a essere bello, rivivere in una forma diversa e anche più preziosa.

LUCIA E GIUSEPPE, GUARITI DAL PERDONO
Cristina Franchini su L’Unità del 18 giugno 2023

È sempre interessante guardare all’origine delle parole, specie quando nei secoli il loro significato si è stratificato di rimandi culturali e religiosi. Nel caso del “perdono” questo processo è stato incisivo: per molti evoca concetti come colpa, vittima, carnefice, remissione dei peccati, prerogativa divina. Poi c’è l’accezione universale, laica, originaria: il per-dono. L’attitudine, la scelta di riconoscere e onorare la vita in ogni sua manifestazione come un dono.
Questo è il senso che anima la Giornata Internazionale del Perdono, evento istituzionale ideato da Daniel Lumera, che ogni anno coinvolge migliaia di persone per un confronto pragmatico su questo valore individuale e sociale, che tocca in modo trasversale tanti ambiti, tra cui scienza, cultura, spiritualità. In questa 8° edizione la giustizia ha avuto ampio spazio, mediante una tavola rotonda in cui erano presenti persone che hanno subito perdite irreparabili, autori di reati gravissimi e rappresentanti di realtà che si spendono per una giustizia consapevole, come Nessuno tocchi Caino, Made in Carcere e My Life Design ODV, organizzatrice dell’evento.
Il sottotitolo della Giornata recitava: “Ogni ferita può diventare feritoia”. E proprio questo è stato esplorato con le testimonianze che si sono intrecciate pur partendo da posizioni diametralmente opposte. I presenti hanno accolto con uguale rispetto e commozione le parole di chi un reato l’ha subito e di chi l’ha commesso. Storie di ferite profondissime che nel tempo, giorno dopo giorno si sono trasformate in nuove possibilità, per sé stessi e per gli altri. Il perdono trascende i ruoli, non per dimenticare, ma per imparare, curare, unire. Proprio per questo è stato assegnato il titolo di Ambasciatore del Perdono a due persone con vicende apparentemente contrapposte.
Lucia di Mauro, vedova di Gaetano Montanino, vittima innocente della criminalità organizzata, che si è fatta carico del ragazzo, ai tempi minorenne, che tolse la vita al marito e sta dedicando la propria vita a supportare tanti adolescenti come lui che incontra nel carcere di Nisida e in altri istituti. Questa la motivazione: “Perché attraverso la tua ferita hai aperto una feritoia talmente luminosa da contagiare tutto e tutti, con determinazione, perseveranza e Amore.”
Giuseppe Grassonelli, recluso da oltre 30 anni, durante i quali si è laureato con lode in Lettere e Filosofia, ha partecipato attivamente ai laboratori Spes contra Spem di Nessuno tocchi Caino e ha dimostrato una profonda presa di coscienza, che intende mettere a servizio dei più giovani per dissuaderli dal seguire la via della criminalità. Questa la motivazione: “Perché testimoni che da qualunque esperienza veniamo, possiamo intraprendere un cammino di profonda e autentica trasformazione.”
Grassonelli aveva ottenuto un permesso premio per partecipare alla Giornata insieme ad altre 7 persone recluse nel carcere di Opera: Antonio Albanese, Vito Baglio, Felice Falanga, Corrado Favara, Domenico Ferraioli, Vincenzo Solli, Vito Troisi. Il destino ha voluto che il treno sul quale viaggiavano accumulasse così tante ore di ritardo, a causa di un blackout generale sullo snodo di Roma, da impedire, con grande dispiacere di tutti, la partecipazione in presenza, che si è trasformata in un collegamento telefonico.
All’atto della consegna delle targhe di Ambasciatore del Perdono, si è offerta di fare le veci di Grassonelli la giovane Emanuela Sannino, figlia di Palma Scamardella, vittima innocente di camorra, affinché potesse compiersi uno scambio altamente simbolico tra Lucia e Giuseppe, in rappresentanza di tutti coloro che hanno vissuto la perdita, il dolore, la colpa. E così il perdono, che non ha nulla a che vedere col rimuovere, condonare o subire, diviene un processo di guarigione attraverso cui qualunque accadimento, anche il più terribile, può essere liberato dall’odio e generare una rinascita individuale e sociale, in virtù dell’interconnessione che ci lega tutti.
Il 1° giugno scorso, durante il laboratorio Spes contra Spem di Opera, l’attestato è
finalmente giunto nelle mani di Grassonelli, che accettandolo si assume la responsabilità di dedicare la propria vita a diffondere il valore del perdono e della consapevolezza. Le centinaia di persone che hanno applaudito questa assegnazione hanno compreso che quando una persona finisce in carcere il fallimento è dell’intera società e quando qualcuno rinnega la vita criminale e decide di mettersi al servizio per restituire alla società stessa, allora il beneficio è collettivo. La presa di coscienza di ogni singolo individuo produce un cambiamento, perché il pensiero modifica e genera la realtà. Siamo dunque pronti a perdonare?

AFGHANISTAN: SECONDA ESECUZIONE PUBBLICA DA QUANDO I TALEBANI HANNO RIPRESO IL POTERE
I Talebani al potere in Afghanistan il 19 giugno 2023 hanno effettuato la seconda esecuzione pubblica da quando il gruppo ha preso il potere nel 2021, secondo la Corte Suprema del Paese.
La Corte aveva condannato a morte un uomo di Kabul identificato solo come Ajmal, riconosciuto colpevole di aver ucciso cinque persone in due diversi casi, lo scorso anno.
L'esecuzione è stata praticata con un fucile d'assalto dal figlio di Siad Wali, uno dei cinque uomini uccisi da Ajmal. L’uomo è stato ucciso all’esterno di una moschea vicina agli uffici del governatore della provincia orientale di Laghman, secondo la legge islamica, ha affermato la Corte in una nota.
I parenti delle altre quattro vittime di Ajmal hanno assistito all'esecuzione.
È probabile che quest’ultima esecuzione pubblica attiri le critiche della comunità internazionale.
L’esecuzione giunge appena un mese dopo che le Nazioni Unite in un rapporto hanno fortemente criticato i talebani per aver praticato esecuzioni pubbliche, frustate e lapidazioni da quando hanno preso il potere, e hanno invitato i governanti del Paese a fermare tali pratiche.
A maggio, la Missione di Assistenza in Afghanistan delle Nazioni Unite ha dichiarato che solo negli ultimi sei mesi, 274 uomini, 58 donne e due ragazzi sono stati fustigati pubblicamente nel Paese.
La Corte Suprema di Kabul, controllata dai talebani, ha detto che quando il caso di Ajmal è stato portato all'attenzione del governo, è stato esaminato e indagato a fondo, con tre diversi tribunali che alla fine hanno confermato la condanna a morte.
La Corte ha affermato che l'approvazione finale per l'esecuzione è stata data dal leader supremo talebano Hibatullah Akhundzada, dopo aver supervisionato un'indagine separata sul caso di omicidio.
Akhundzada è stato nominato leader talebano nel 2016 dopo che un attacco aereo statunitense in Pakistan ha ucciso il suo predecessore, il mullah Akhtar Mohammad Mansour.
Si tratta della seconda esecuzione pubblica nota dopo la ripresa del potere da parte dei talebani, nonostante i gruppi per i diritti umani e la comunità internazionale si siano opposti a punizioni così estreme.
La prima esecuzione è avvenuta nel dicembre dello scorso anno, quando le autorità talebane hanno punito un afghano condannato per l'omicidio di un uomo. L'esecuzione è stata praticata con un fucile d'assalto dal padre della vittima nella provincia occidentale di Farah, davanti a centinaia di spettatori e molti talebani di spicco.
Durante il precedente dominio talebano nel Paese alla fine degli anni '90, il gruppo ha effettuato regolarmente esecuzioni pubbliche, fustigazioni e lapidazioni di persone condannate nei tribunali talebani.
Dopo aver ripreso il potere in Afghanistan nel 2021, i talebani hanno inizialmente promesso di riconoscere i diritti delle donne e delle minoranze. Invece hanno in seguito limitato i diritti e le libertà, inclusa l'imposizione di un divieto all'istruzione delle ragazze oltre la prima media.
(Fonte: AP, 20/06/2023)

USA: 122.840 PERSONE IN ISOLAMENTO NELLE CARCERI STATUNITENSI
Solitary Watch (solitarywatch.org) e Unlock the Box (unlocktheboxcampaign.org) il 28 maggio 2023 hanno pubblicato un rivoluzionario rapporto congiunto che mostra che almeno 122.840 persone sono rinchiuse quotidianamente in isolamento nelle carceri statunitensi per 22 o più ore al giorno.
‘Calculating Torture’ (Calcolando la tortura) è il primo rapporto che ha raccolto i dati delle 4 principali tipologie di carceri statunitensi: le prigioni locali (Jails) gestite dalle singole contee oppure dal governo federale, e le prigioni statali (prisons), gestite dai singoli stati, o dal governo federale.
(A grosse cifre, negli Stati Uniti 2/5 dei detenuti complessivi sono tenuti nelle carceri di contea, dove si rimane quando si è in attesa di giudizio, ma anche dopo la condanna se il reato non è particolarmente grave. 3/5 dei detenuti è invece nelle carceri statali, dove si arriva dopo il processo se si è stati condannati a pene di un certo tipo, di solito oltre i 5 anni.
Questa suddivisione esiste anche all’interno del circuito penitenziario cosiddetto ‘federale’, ossia per quei reati che vengono ritenuti così gravi da essere perseguiti dal governo centrale di Washington invece che dai singoli stati. Questo rapporto usa i dati attualmente disponibili, aggiornati al 2019, che nel complesso contano oltre 2 milioni di detenuti nel sistema penitenziario statunitense, suddivisi in 159.233 detenuti ‘federali’, 1.126.970 detenuti ‘statali’, e 745.960 detenuti nelle carceri di contea, per un totale quindi di 2.032.163 detenuti.
Si basa sull'analisi dei dati rilasciati recentemente dal Federal Bureau of Justice Statistics (BJS), un’agenzia federale collegata al FBI, ma vi ha aggiunto i dati anche di quei sistemi carcerari statali che non hanno collaborato al BJS, e i dati di un'indagine sulle carceri locali condotta dal Vera Institute of Justice.
Le cifre di questo rapporto sono quanto di più vicino alla realtà sia mai stato pubblicato sul tema delle persone in isolamento nelle carceri statunitensi. I conteggi precedenti si sono concentrati in gran parte sulle carceri statali, non includendo le carceri locali che, essendo spesso piccole e disseminate sul territorio, rendono più difficoltosa la raccolta dei dati.
In alcuni casi, i dati precedenti omettevano alcuni stati e/o contavano solo gli individui tenuti in isolamento per più di due settimane. Per questi motivi, i rapporti precedenti hanno offerto un quadro incompleto di quanto sia ampiamente utilizzata la pratica screditata dell’isolamento, e del numero di persone che colpisce.
“L'uso diffuso dell'isolamento nelle nostre carceri è una crisi umanitaria. Come hanno confermato le Nazioni Unite, si tratta di torture in atto sul suolo statunitense. Eppure fino ad ora, non abbiamo nemmeno avuto un conteggio completo di quante persone sono in isolamento ", ha affermato Jean Casella, direttore di Solitary Watch.
"Questo tipo di informazioni complete e accurate è fondamentale per creare responsabilità (‘accountability’, il termine anglosassone per stabilire chi debba essere ritenuto responsabile di una determinata scelta politica o amministrativa) e apportare cambiamenti", ha affermato Casella. "Dovrebbe anche scioccare la coscienza di tutti gli americani preoccupati per la giustizia penale e i diritti umani".
Calculating Torture mostra che in un dato giorno del 2019, 80.758 persone si trovavano in una qualche forma di isolamento (noto anche come "alloggi restrittivi") nelle carceri federali e statali, pari al 6,28% della popolazione carceraria totale.
Allo stesso tempo, sulla base di un'analisi del Vera Institute of Justice, si stima che il 5,64% delle persone nelle carceri locali e federali fosse in isolamento. Nel 2019, questo equivaleva a 42.072 persone.
Mentre la cifra totale di 122.840, che rappresenta il 6,08 per cento della popolazione carceraria totale, supera di gran lunga i numeri precedenti, gli autori del rapporto avvertono che indubbiamente sottostima ancora il numero di persone che subiscono l'isolamento.
Per cominciare, si basa su dati auto-riportati dai dipartimenti penitenziari. Riflette solo quelli tenuti in isolamento per 22 ore al giorno o più, e omette un numero minore di ore in isolamento, unità che equivalgono a isolamento con un altro nome e forme informali o transitorie di isolamento come blocchi o quarantene. Inoltre, non include le persone tenute in isolamento in strutture per immigrati o minorenni.
"L'isolamento provoca danni devastanti, fino alla morte, e peggiora la sicurezza per tutti", ha affermato Jessica Sandoval, direttrice di Unlock the Box, riferendosi a un numero crescente di prove che dimostrano che l'isolamento provoca danni psicologici, neurologici e fisici duraturi e aumenta drasticamente il tasso di suicidi, e non riesce a ridurre la violenza carceraria. "Bloccare oltre 122.000 persone in isolamento è una macchia sulla nostra nazione".
Gli autori di Calculating Torture notano che i numeri del 2019 utilizzati nel rapporto (i più recenti disponibili dal BJS) non tengono conto di un picco nell'uso dell'isolamento nei primi giorni della pandemia di COVID-19 e potrebbero non tenere conto per alcune riduzioni incrementali nell'uso complessivo dell'isolamento a causa dell'attuazione di alcuni nuovi cambiamenti legislativi e politici. I sostenitori ritengono che i recenti cambiamenti ridurrebbero probabilmente il totale di qualche migliaio.
"Grazie alle campagne guidate da persone direttamente colpite dall'isolamento, c'è un crescente slancio e un diffuso sostegno pubblico alle politiche per limitare o porre fine all'isolamento e utilizzare alternative comprovate", ha affermato Sandoval. “Ma il nostro lavoro è appena iniziato e questo rapporto dovrebbe aggiungere ulteriore urgenza a quella lotta. Ora è il momento per i leader politici a livello locale, statale e federale – da New York alla Georgia, dal Nevada alla California, alla Casa Bianca e al Congresso – di agire per fermare questa tortura autorizzata dallo stato”.
Solitary Watch (solitarywatch.org) e Unlock the Box (unlocktheboxcampaign.org) hanno pubblicato Calculating Torture, un rapporto che mostra che, in media, ogni giorno nelle carceri statunitensi oltre 120.000 persone vengono tenute in isolamento per 22 o più ore.
Chiaramente, tali calcoli hanno fornito solo un quadro parziale, ma in assenza di dati migliori o più completi, sono stati ampiamente citati da giornalisti, studiosi e politici.
Detto questo, ci rendiamo conto che potrebbero passare mesi o anni prima che il nostro ‘numero più preciso’ diventi il nuovo standard (e ancora di più finché non avremo una cifra che includa anche il numero, oggi imprecisato, di persone in isolamento nelle strutture minorili o di immigrazione).
Il fatto che i governi a tutti i livelli (federale, statali e di contea) permettano che questa forma di tortura avvenga senza nemmeno richiedere che le sue vittime siano contate è solo una delle assurdità inerenti al modo in cui l'isolamento è praticato in questo paese.
Allo stesso tempo, siamo tormentati dall'incertezza che il nuovo numero da solo farà la differenza. Avrà importanza sapere che oltre 122.000 persone vengono torturate in isolamento, anziché 80.000 o 50.000? Il puro valore shock fornito dall'enormità del numero spingerà più persone all'azione?
Dobbiamo credere che l'accuratezza sia importante, che la verità sia importante. E ancora di più, crediamo che ogni persona in isolamento sia un'anima umana sofferente che, almeno, merita di essere contata.
Una di quelle persone era Kalief Browder, che ha sopportato più di due anni di isolamento a Rikers Island mentre era ancora un ragazzo e legalmente innocente, e che è morto suicida dopo essere stato (nelle sue stesse parole) "mentalmente sfregiato" dalla sua esperienza. Poiché era tenuto in isolamento in una prigione locale piuttosto che in una prigione statale o federale, Kalief non sarebbe stato conteggiato.
Un altro era Benjamin Van Zandt, che era già stato in isolamento, dove aveva subito abusi e minacce da parte delle guardie, e che è morto suicida all'età di 21 anni la prima notte dopo essere stato condannato ad altri 30 giorni in isolamento. Poiché non era stato in isolamento per 15 giorni o più, Ben probabilmente non sarebbe stato conteggiato.
Le loro storie ci ricordano cosa significa il nostro numero in termini umani.
Significa che più di 122.000 persone, una su 17 americani incarcerati, sono detenute in condizioni che costituiscono tortura. Significa che mentre scrivo - e mentre leggi - ognuno di questi individui soffre da solo, essendo esposto a un serio rischio di danni psicologici, neurologici e fisici, oltre che di autolesionismo e suicidio.
Assicurarsi che tutti i Kalief, i Ben e gli altri vengano contati è solo un modo per riconoscere e testimoniare la loro esperienza. Raccontare le loro storie umane individuali e incoraggiare le persone in isolamento a raccontare le proprie storie è un altro modo.
Ma la cosa più importante che possiamo fare per tutti loro è lottare per ridurre il numero di persone in isolamento e continuare a lottare finché l'isolamento non sarà un ricordo del passato e non ci sarà più nessuno da contare.
(Fonte: solitarywatch.org, 14/06/2023)

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I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA


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