Due righe intorno a Ellis che non vogliono dire nulla

 


"Volevo essere come Susan Reynolds. E volevo anche scrivere in quel modo: l'insensibilità come sentimento, l'insensibilità come movente, l'insensibilità come ragione di esistere, l'insensibilità come estasi." (pag. 342)

Arrivare all'ultimo giorno. Superare l'esame di maturità. Andarmene via. Trascorsi in questo modo il mio ultimo anno al Liceo. In un Collegio Arcivescovile. 

Sopravvissi. 

Rovinandomi la vita. 

Ma me l'ero già rovinata prima fra Medie e Elementaria e non solo.

Ho 44 anni e ho smesso di studiare quando ne avevo venti. Nel 1999. Ma non ho mai smesso di svegliarmi senza fiato provando orrore di dover tornare a scuola. Gli incubi. I ricordi. Le facce. I miei errori. E Bret Easton Ellis che mi segue ormai come un amico. 

Anche io cominciai a scrivere ai tempi del Liceo. Scrivevo dei miei compagni. Delle mie paranoie. Del mio disagio. Del mio nascondermi. E intanto celavo chi fossi veramente anche se non so ancora oggi chi sono o chi io sia stato in quei giorni. Ci sono volte che non so nemmeno se io e quel ragazzo siamo la stessa persona. E intanto vivevo quei giorni ascoltando. Seguendo le tracce di mostri. Inventando storie. Collezionandole. Modificandole. Fantasticando incontri impossibili. Trasformandomi in un ragazzino da compatire, salvare. Da non lasciar scappare. 

Mi sono messo il guinzaglio e la museruola per conservare le parole giuste. Le parole giuste che poi ho perso per strada. Evaporate. Dimendicate.

Sono ancora quell'adolescente. Quel ragazzino coi brufoli e i pantaloni a coste di seconda mano che facevano tanto grunge ma erano solo scarti per star dietro ai sogni dei miei genitori. Che pensa solo alla morte.

Ma ho 44 anni. 

E gli incubi non smettono mai di arricchirsi di nuovi particolari. Anche ieri sera. Che ho sognato che in casa si moltiplicavano copie della mia cartella delle elementari che quando poi l'aprivo la scoprivo piena di vomito. 

Particolari. Un suono nuovo. Una canzone mai ascoltata. Proprio come coi libri di Ellis. Cosa c'è di nuovo ne Le schegge per uno come me che lo legge da sempre? Poco o nulla. Apparentemente. Perché invece basta una frase. Un paragrafo per trasformare ogni cosa. E poi è davvero importante che ci sia a tutti costi qualcosa di nuovo? Personalmente ne Le schegge cercavo qualcosa che non mi rassicurasse. E leggendolo mi sono spaventato. Mi sono sentito in pericolo. Ho avuto paura. Paura di questo romanzo. Di me stesso. Del mio passato. Del mio presente. Della mia voglia di morire e di uccidere. Di farmi male. Di tutte le cazzate che ho fatto e che mi riempiono la testa e con cui mi rovino le giornate. Di un futuro che non mi è mai interessato ma che è diventato un presente di dolore e depressione. 

E intanto che leggevo Ellis ricordavo le gambe e le caviglie di Chiara e il suo culo perfetto, il seno e i capezzoli duri di Luisa, le discussioni col padre confessore che mi parlò di Evelyn Waugh, l'odore acre dei nostri corpi negli spogliatoi dopo un'ora di educazione fisica, il timore dei miei compagni a mostrarsi nudi per paura che ci fossero dei froci in giro, le camere devastate nella gita a Firenze ed Elisabetta che ballava sul letto al ritmo di una canzone dei Rancid, le camicie a fiori e i maglioni di lana rosa e azzurro che mi faceva indossare mia madre, i miei capelli unti/lunghi/aspuntoni/rasatiazero, la morte di Cobain e Max che mi abbraccia e mi bacia sul collo, il campetto di calcio dove mi sfogavo dopo ore in classe trascorse a guardare il soffitto, le birre e i pacchetti di sigarette che nascondevo nello zaino, Marta sul treno e il suo cervello bruciato, quel San Firmino maledetto e tutte le volte che mi issai sul davanzale del bagno di casa per buttarmi di sotto e la volta che mia madre mi venne a prendere a scuola dopo mi avevano beccato a falsificare dei documenti. 

44 anni. 

E sono qui con troppe birre in frigo e disseminate un po' ovunque per casa. 

E le seghe che mi sono fatto pensando a Chira, Elisabetta, Luisa, Maria Antonietta. 

E i fantasmi che mi germogliano nel cuore e mi assalgono ogni volta che chiudo gli occhi. E quelli che mi hanno ritrovato quando durante la prima ondata del Covid sono tornato da mio padre e ho dormito per due mesi in quella stanza condivisa per anni con mia sorella. Con la testa poggiata su quello stesso cuscino che mi porto dietro da sempre. E che appartenne a mia nonna. 

E tutte le mie considerazioni sul mondo figlie di una mia presunzione imbarazzante. E tutte quasi sempre sbagliate. E le ferite casuate. Anche gratuitamente. E la voglia di avere una pistola e una casa nascosta da qualche parte. E poi il lago. Dove avrei potuto morire. E sulle cui rive mi piaceva fumare. E che  adesso quasi mi fa paura. E il mio stomaco distrutto. E torno sempre a Lecco per rivedere il Collegio. La sua struttura imponente. E non rivedo più nessuno dei miei compagni. E ho anche paura di incontrare chiunque sia stato parte di quei cinque anni. Ho paura di quello che penserebbero oggi di me. 

Ma ci sono giorni che sento il profumo di quegli anni. 

I sorrisi mi si muovono sulla pelle. 

Io che non sono mai andato con loro in discoteca, a sciare, al bar giusto, che non ero figlio di un imprenditore, di un notaio, di un avvocato, di un dottore, di uno con un sacco di soldi. 

Ma che in fin dei conti ero e sono molto simile a loro. Perché era ed così. 

E la delicatezza. Il cuore. Il dolore. La fragilità. 

E sì, Ellis, lo scrittore di Patrick Bateman, di giorni di quaalude, valium, serial killer e sesso, cocaina, freddezza che ha scritto un romanzo straordinario. Bellissimo che mi ha sollevato le giornate. E ne sto scrivendo con 9 ore di sonno in tre giorni che mi prendo 60 gocce di prodotti naturali per dormire ma che non servono a nulla visto tutto quello che ho bevuto.

E quanto era algida e irraggiungibile la ragazza dei miei sogni. Della mia adolescenza. Della mia vecchiaia. Della mia solitudine. E quella classe. Quei banchi. Quel ragazzo che ero. Quell'uomo che sono diventato. Quelle voci. E sono qui. A una scrivania. A scrivere sempre delle solite cose.

Con la paura di uscire di casa.

Di chiudere gli occhi.

Di incontrare persone.

"E me ne rimasi lí, nella luce del pomeriggio che sbiadiva, rendendomi conto, a diciassete anni, che stavo già guardano nel mio passato - e che il il passato aveva un significato capace di definirti per sempre. Ricordo quel momento come uno dei primi in cui mi avvicinai all'età adulta, in cui compresi quanto fosse potente la memoria - o comunque fu la prima volta in cui mi fece cosí male.  E non c'era niente che potessi fare riguardo al dolore del passato - si posò semplicemente su di me. La dépendence e Matt erano una parte della mia vita che c'era stata e adesso non c'era piú. Ecco tutto. Nessun altro lo sapeva. A nessun altro importava." (pag. 313)

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