in breve su "Un incontro a Pechino" di Jean François Billeter (Edizioni Casagrande, traduzione di Maurizia Balmelli)

 

"Un incontro a Berlino" di Jean François Billeter (Edizioni Casagrande, traduzione di Maurizia Balmelli) è un libro che mi ha preso una mattinata e che mi ha lasciato sorpreso perché non pensavo fosse così bello. Di una delicatezza che lascia i brividi.

Non pensavo che la testimonianza dello scrittore che nei primi anni '60 si trasferì dalla Svizzera in a Pechino per studiare il cinese e dove poi avrebbe incontrato una giovanissima ragazza cinese, Wen, che sarebbe diventata sua moglie mi avrebbe commosso in questo modo. 

Una narrazione che vive di ricordi e di piccole cose, di incontri e sfumature in grado di far rivivere un mondo a me in gran parte sconosciuto e capace di descrivere gli orrori della Rivoluzione culturale in quel modo che a me piace tanto: quello con gli occhi di chi incontra un mondo/cultura da visitatore, studente, turista un po' spaesato e innocente e che scopre un centimetro dopo l'altro, una parola che si avvinghia a un racconto dietro l'altro, un abbraccio che fugge da un pedinamento, il silenzio come regola di sopravvivenza che quel mondo dove sta vivendo nasconde tragedie inenarrabili, violenze terribili, fame, arresti e che si spoglia della bellezza e della complessità cancellate giorno dopo giorno dalla freddezza purificatrice dell'ideologia.

Una Cina da cui non si può che infine scappare.

E non posso che pensare con orrore a tutti quelli che ancora oggi sventolano il Libretto rosso e ammirano Mao.

Ancora oggi dopo tutti i milioni di morte causati dalle sue grandi trovate.

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