Nessuno tocchi Caino - RICORDIAMO MANDELA ABOLENDO IL 41 BIS

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Anno 23 - n. 43 - 09-12-2023

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : RICORDIAMO MANDELA ABOLENDO IL 41 BIS
2.  NEWS FLASH: MADRE IRANIANA ARRESTATA PER AVER PIANTO AI FUNERALI DEL FIGLIO GIUSTIZIATO
3.  NEWS FLASH: LA SOTTILE LINEA TRA SICUREZZA ED AUTORITARISMO
4.  NEWS FLASH: MALESIA: COMMUTATE CONDANNE CAPITALI DI NOVE DETENUTI
5.  NEWS FLASH: CINA: UN GIUSTIZIATO PER STUPRI, DUE PER TRAFFICO DI DROGA
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :


RICORDIAMO MANDELA ABOLENDO IL 41 BIS
Sergio D’Elia su L’Unità del 6 dicembre 2023

Nelson Mandela è venuto a mancare dieci anni fa. Ma nessuno può veramente dire che ci ha lasciati o che ha lasciato un vuoto. Tanti sono quelli che della sua mancanza hanno fatto in questi anni una presenza, tanto è quello che in nome suo e del suo vissuto è diventato stato di vita e di diritto.
Il capolavoro del padre del nuovo Sudafrica si chiama “Commissione verità e riconciliazione”. Mandela lo ha concepito alla fine dell’apartheid quando, insieme a Desmond Tutu, ha pensato a un altro modo di rendere giustizia alle vittime di violenze inaudite. Quando, per ricucire le ferite del passato, non si è affidato al solito tribunale penale ma ha concepito una istanza di verità per non dimenticare le vittime del passato e una di riconciliazione per dare un futuro al Paese. Un cambio di paradigma radicale della giustizia, che non punisce e separa ma riconcilia e ripara. Nelson Mandela continua anche per questo a essere esempio, fonte di ispirazione e proposta di governo per le grandi questioni del nostro tempo e del nostro mondo.
È il miracolo della “compresenza dei morti e dei viventi” di cui parlava Aldo Capitini e di cui era fermamente convinto Marco Pannella, convinzione che ripeteva come un mantra nelle assemblee radicali, che viveva e dimostrava agli occhi increduli dei suoi compagni di lotta. Contro il luogo comune che vuole il morto non debba afferrare il vivo, che il morto è morto e non torna mai più. A ben vedere, invece, la compresenza è il prodigio di una realtà che diventa di tutti mentre prima era di uno solo, financo di una realtà compiutamente liberata proprio dal venir meno della persona fisica che l’aveva immaginata.
Che lo si voglia o no, che lo si creda o meno, è una realtà evidente, al di là di ogni evidenza. “Su ogni assemblea passa il soffio della compresenza”, diceva Capitini. La compresenza va oltre la fisica della materia, opera nella quarta dimensione, quella dello spirito, l’essenza che illumina, letteralmente crea una nuova realtà, la orienta ai valori umani universali. Veni creator spiritus! Non esiste assemblea umana sulla quale non spiri il vissuto di chi è passato prima di noi, illumini il presente e prefiguri il futuro.
Nelson Mandela, il suo vissuto, i suoi 27 anni passati in carcere, compreso quello duro dell’isolamento totale, hanno ispirato nel 2015 l’Assemblea della Comunità Umana Universale, quando le nazioni si sono riunite nell’atto di scrivere le regole dette appunto “Mandela”, per porre un limite al potere degli Stati nel momento del giudicare, del condannare, del sorvegliare, del punire e isolare un essere umano.
Come pro-memoria ai finti smemorati del potere e del dis-ordine costituito ricordiamo quelle essenziali: la regola 44 dice che è isolamento il confinamento per 22 ore o più al giorno in una cella senza significativi contatti umani e che è isolamento prolungato quello superiore a quindici giorni consecutivi; un trattamento questo che, insieme all’isolamento indefinito, la regola 43 considera una forma di tortura o un trattamento o punizione crudele, inumana e degradante; la regola 45 stabilisce poi che, in ogni caso, è proibito l’isolamento dei detenuti che abbiano disabilità mentali e fisiche quando le condizioni possano aggravarsi in ragione della misura applicata.
Lo spirito di Mandela svanisce alla vista dei dannati del 41 bis, nelle sezioni del “carcere duro” dove le sue regole minime sono profanate, dove la perdita dei sensi e dei sentimenti umani fondamentali si aggiunge a quella della libertà e si traduce in vere e proprie pene corporali. La mancanza della vista di un tramonto, di un monte o del mare, di un orizzonte che vada oltre i pochi metri di lunghezza della cella, rende ciechi. La negazione di affetti e del calore di un contatto fisico di una mano e di una carezza di una persona cara, ti fa perdere il senno, spezza letteralmente il cuore. La proibizione di una parola possibile di conforto o un solo saluto scambiato tra una cella e l’altra, rende sordi e muti. Il ricordo negato del sapore e del profumo di un cibo familiare della propria infanzia e del paese d’origine, fa perdere il sapore, l’olfatto, i denti. Le sezioni del “carcere duro” sono diventate istituti per ciechi, sordomuti, sdentati, stazioni terminali per
 malati terminali: di cuore, di cancro, di mente, di tutto.
“Cimiteri dei vivi” chiamava le carceri Filippo Turati. Lo sono non solo il “carcere duro”, ma anche il “carcere normale”, dove è concentrato tutto quello di inumano, incivile e mortifero che nella storia dell’umanità abbiamo abolito, perché, appunto, inumano, incivile, mortifero: i luoghi di tortura, i bracci della morte, i manicomi, i lazzaretti. Tali sono le celle di isolamento, le sezioni di osservazione, ordine e sicurezza, i reparti di transito e di assistenza detta “sanitaria” del “carcere normale”, dove sono cumulati e tumulati tossici, minorati fisici, malati terminali e malati mentali che in altri tempi tenevamo in luoghi di cura, non di pena.
Nelson Mandela e le sue regole sono oggetto di preghiera soprattutto nelle celle di isolamento che si trovano di solito nella parte più bassa, buia e sperduta del carcere. Dove la luce filtra malamente da finestre di pochi centimetri quadrati. Dove a una fila di sbarre si aggiunge una rete a trama molto fitta che impedisce non solo di guardare fuori, sia pure un muro di cinta, ma anche all’aria di scorrere libera. Dove, nella stanza di pochi metri quadri, tutto è piantato alla parete o al pavimento di cemento: branda, tavolo, sedile, armadietto, lavabo. Dove tutto è “a vista”, anche il gabinetto che a volte è la solita tazza, altre volte il water incastonato nel cemento, altre ancora il “cesso alla turca”. Dove l’ora d’aria può avvenire uno alla volta in una vasca di cemento armato lunga e larga pochi metri, con le mura invece altissime e sopra, a chiudere il tutto, una rete come quella di un pollaio.
In questi luoghi dove la sola permanenza induce alla pazzia, ho visto coi miei occhi: persone in “cura psichiatrica” da anni, con il corpo segnato da cicatrici per i continui atti di autolesionismo, sorvegliate a vista giorno e notte perché a rischio di suicidio; persone trovate nude con una coperta sulle spalle in celle con la branda priva di materasso, lenzuola e cuscino piantata su un pavimento ricoperto di cibo, urina ed escrementi; evidenti casi psichiatrici di persone che, però, erano state dichiarate del tutto capaci di intendere e volere. È una pena dell’anima vivere tutto ciò, non solo per l’uomo privato della libertà, ma anche per l’occasionale visitatore e, soprattutto, per il suo custode, condannato a lavorare ogni giorno in un tale degrado umano e ambientale.
In tutti gli istituti di pena del nostro Paese, nell’ufficio del direttore, accanto alla foto del Presidente della Repubblica, dovrebbe essere incorniciata anche quella dell’ex Presidente del Sudafrica. Nei corridoi delle sezioni, accanto ai murales di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dovrebbe essere pitturato il volto sorridente di Nelson Mandela. Nelle biblioteche del carcere, dove è raro trovarlo, oltre al Regolamento d’istituto, dovrebbero essere stampate in più lingue e messe a disposizione di detenuti e detenenti anche le Regole Mandela. Non solo in Italia, lo spirito di Mandela e delle sue Regole continua a essere invocato nelle celle di isolamento di tutto il mondo dove non splende mai il sole, dove “vivono” anime sempre in pena, dove sono ridotti a zero quei significativi contatti umani senza i quali una persona è sottoposta a trattamento inumano e degradante, dove il diritto diventa torto, e tutto si torce nel senso della tortura.

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

MADRE IRANIANA ARRESTATA PER AVER PIANTO AI FUNERALI DEL FIGLIO GIUSTIZIATO
Valerio Fioravanti

“Afsaneh Zohrevand arrestata perché, contravvenendo agli ordini delle autorità, ha pianto ai funerali del figlio”. Che poi non erano nemmeno veri e propri funerali, quanto un seppellimento senza cerimonie religiose in un cimitero di risulta. Questa cosa è successa in Iran, e fa affiorare alla mente un’altra dittatura, la Corea del Nord, dove periodicamente “Ciccio Kim” (oltre a lanciare missili per farsi notare) ordina dei periodi di lutto nazionale durante i quali “è vietato ridere, pena l’arresto”. Già, sono notizie che ci fanno venire voglia di scherzare, tanto ci sembrano lontane nel tempo e nello spazio. Ma non è così, è semplicemente il meccanismo su cui poggiano le dittature, non importa se personali, ideologiche, o religiose: bisogna tenere il popolo nella paura.
Secondo informazioni ottenute da Iran Human Rights, un’attiva ONG di iraniani in esilio che fanno base in Norvegia, il 24 novembre il corpo del manifestante Milad Zohrevand è stato deposto in un cimitero cristiano (armeno) di Hamedan, non gli hanno permesso di essere sepolto in uno musulmano.
Il corpo è stato consegnato alla famiglia in presenza di un massiccio apparato di sicurezza. Gli agenti non hanno permesso a nessuno di fare foto e video. Non hanno nemmeno permesso di stampare avvisi o distribuire le tradizionali foto ricordo del defunto. Non hanno nemmeno permesso a nessuno di piangere. Sua madre è stata arrestata e trattenuta per diverse ore per aver pianto.
Milad era stato arrestato il 27 ottobre 2022, 40 giorni dopo la morte di Mahsa Amini che ha scatenato le proteste in tutto l'Iran. È stato giustiziato segretamente nella prigione di Hamedan il 22 novembre 2023.
Milad Zohrevand è stato l'ottavo manifestante di "Donna, Vita, Libertà" giustiziato dal dicembre 2022.
“Manifestante” è un termine generico, e si riferisce alle centinaia di migliaia di persone scese in piazza dopo le uccisioni nel settembre 2022 di Mahsa Amini e nell’ottobre 2023 di Armita Garavand, due giovani donne di 23 e 16 anni, picchiate a morte per non aver indossato correttamente il velo islamico, anzi Armita, con il coraggio dell’adolescenza, per non averlo indossato per niente.
Per reprimere le manifestazioni di piazza le forze di polizia, agendo quasi sempre in borghese, hanno arrestato decine di migliaia di persone, e secondo ONG attendibili, hanno ucciso 750 giovani. I tribunali hanno emesso un centinaio di condanne a morte, e il parlamento ha creato un nuovo reato capitale: parlare con la stampa straniera.
Conoscendo la situazione dei diritti umani in Iran non ci si meraviglia che non si possa piangere ai funerali di un “nemico del popolo”. Le persone arrestate con motivazioni politiche vengono trattenute anche per mesi in apposite prigioni gestite direttamente dai Guardiani della Rivoluzione. Vengono condotti in una prigione normale solo dopo che hanno rilasciato una confessione, la quale sarà videoregistrata e mostrata in televisione durante il principale notiziario della sera. Come vengono ottenute le confessioni? Lo sanno tutti. E di solito i giovani resistono, e cedono solo quando gli arrestano anche la madre, o peggio, la sorella.
Nessuno tocchi Caino dal gennaio 2019 ha deciso di seguire la situazione iraniana con particolare attenzione, e da allora ha pubblicato 2117 notizie di, chiamiamola così, cronaca giudiziaria, a cui va aggiunta la pubblicazione dei dati delle 2.681 impiccagioni compiute nello stesso periodo. Alcune di queste notizie, purtroppo da fonti attendibili, raccontano che se le donne non sono brave musulmane e per caso sono ancora vergini, allora devono essere violentate in carcere per essere sicuri che vadano allo jahannam, all’inferno. Quindi sì, i nemici del popolo devono confessare davanti alla telecamera, e durante il processo questa è spesso l’unica prova a loro carico, e comunque, siccome non sono bravi cittadini, non gli si lascia nominare un avvocato di fiducia, e quindi che le prove ci siano o non ci siano non conta molto. Vengono poi impiccati senza preavviso alle famiglie, quindi senza un’ultima visita. Alla consegna del corpo spesso i parenti scoprono di non poterlo seppe
 llire nella tomba di famiglia, ma gli viene assegnato un posto sperduto, spesso in un’altra città. E se sulla tomba del “nemico del popolo” compaiono troppi fiori, o comunque ci va toppa gente, la lapide viene spaccata, e se i visitatori insistono, di notte, senza preavviso, la tomba sparirà. Gli antichi romani la chiamavano damnatio memoriae.
È bene allora che dalla periferia del nostro impero felice arrivino queste notizie. Dobbiamo ricordarcelo cosa c’era prima della imperfettissima democrazia. E cosa ancora c’è in troppe parti del mondo.

LA SOTTILE LINEA TRA SICUREZZA ED AUTORITARISMO
Angelo Scuderi

Ho come l’idea che tutto sembra scorrere verso un’idea confusa di sicurezza sociale che, lungi dall’essere realmente perseguita attraverso strutturali riforme interdisciplinari, si riduce a realizzarsi fittiziamente attraverso sempre più nuove e creative norme di rilievo penalistico.
Dopo aver assistito all’uso smodato della decretazione d’urgenza per l’introduzione di nuove, quanto inutili, fattispecie incriminatrici, è notizia di qualche giorno fa che il C.d.M. abbia approvato un nuovo disegno di legge che introduce nuove norme in materia di sicurezza pubblica. Ed ecco, quindi, che l’endemico problema della carenza di abitazioni da adibire alle famiglie bisognose e il problema dell’edilizia popolare da riqualificare nelle zone più difficili del nostro Paese, vengono presi a pretesto dal Governo per introdurre una nuova figura di reato, quale “l’occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, che altro non sarebbe se non l’ancora vigente norma di cui all’art. 633 c.p. con pene però quasi raddoppiate nella forbice edittale, con ogni conseguenza anche in ordine all’esecuzione dell’eventuale condanna che vedrebbe il prevenuto impossibilitato ad avvalersi delle misure alternative alla detenzione.
Più carcere, quindi, senza possibilità alcuna da parte del detenuto “scomodo” di protestare contro il degradante trattamento carcerario che, a causa del sovraffollamento penitenziario ingenerato da anni di visione carcero-centrica della pena, gli verrà riservato. Viene, infatti, previsto un cospicuo aggravamento di pena per il “delitto di istigazione a disobbedire alle leggi” se lo stesso viene commesso al fine di far realizzare una rivolta all’interno del carcere, giacché spazi per la socializzazione non ve ne sono e, quindi, guai a chi protesta o pensa di farlo; e che importa se le proteste sono legittime a causa delle condizioni disumane nelle quali sono costretti a vivere i detenuti!
Ma la sottile linea che divide la sicurezza dall’autoritarismo sembra assottigliarsi laddove si fa riferimento a un’ulteriore figura di reato, questa sì solo di matrice autoritaria e slegata da ogni esigenza di sicurezza, quale la previsione della reclusione da uno a sei anni per lo straniero che durante il trattenimento amministrativo presso i CPR (quindi, rivolta a soggetti già privati ingiustamente della libertà) osa opporre resistenza, anche passiva (!!) agli ordini impartiti dall’autorità. Si arriva a punire, per ben due volte, chi in posizione di minorata difesa e di privazione ingiusta della propria libertà, si opporrebbe anche passivamente ai comandi imposti dall’Autorità.
Per dare al cittadino l’illusoria idea di sicurezza, inoltre, non solo si è deciso di punire più severamente i “rivoltosi” in vinculis, ma si è previsto, finanche, di modificare uno degli ultimi baluardi di legalità e di dignità che nessuno aveva mai inteso scalfire negli anni, come il rinvio dell’esecuzione della pena per donne incinte e madri di bambini fino ad un anno di età.
In forza dell’autoritarismo, quindi, vedremo sempre più mamme e bambini fino ad un anno scontare la loro pena in carcere anche in considerazione del fatto che, al momento, non sembrano essere funzionanti gli istituti a custodia attenuata per le detenute madri.
La patologica bulimia in materia di introduzione di nuove fattispecie penali continua a non trovare limiti, laddove le stesse vengono previste, come nel caso dei cosiddetti divieti di “blocchi stradali” al solo fine di punire con pene rigorose i numerosi, ma non troppo, manifestanti, per di più giovanissimi e quasi mai violenti, che protestano per la tutela ambientale. Non bastavano i reati già previsti dal nostro codice per punire eventuali trasgressioni dei manifestanti rispetto ai limiti della protesta civile? No, secondo questo Governo sembrerebbe di no; ogni singola fattispecie sembra debba trovare, per forza, una norma penale che la limiti e che la punisca fino a rendere l’ideale di sicurezza sociale come l’unico fine a cospetto del quale dover sacrificare gli inviolabili diritti conquistati nel tempo.
Siamo sicuri che la sicurezza dei cittadini possa essere legittimamente tutelata da norme dal chiaro timbro autoritario? Può bastare qualche biasimevole borseggio nelle metropolitane urbane a giustificare misure repressive così autoritarie? Si può risolvere il conflitto abitativo delle grandi città con norme che, lungi dal favorire l’inclusione dei più deboli, esasperano il futuro degli stessi con pene elevatissime? C’è ancora proporzionalità, tra gli interessi perseguiti dalla collettività e le misure repressive adottate dallo Stato?
Ho il fondato timore che, nonostante tutto, incidendo solo sul piano repressivo e non su quello politico e sociale, si aggroviglierà la sottile linea tra sicurezza ed autoritarismo, sì da divenire un soffocante cappio al collo che opprimerà irrimediabilmente, il nostro Stato di diritto.

MALESIA: COMMUTATE CONDANNE CAPITALI DI NOVE DETENUTI
La Corte Federale della Malesia ha commutato le condanne a morte di nove detenuti in 30 anni di carcere, ha riportato Free Malaysia Today il 6 dicembre 2023.
Tra i nove uomini figura una ex guardia di sicurezza di 76 anni, Jun Lam alias Chin Swee Kong, la cui richiesta è stata accolta dal comitato di revisione composto da cinque membri, presieduto dal presidente della Corte Suprema Tengku Maimun Tuan Mat, ai sensi della Legge sulla Revisione delle Condanne a Morte e al Carcere a Vita (giurisdizione temporanea della Corte Federale) del 2023.
La Corte ha ordinato che la pena detentiva di Jun decorra dal 3 dicembre 2006, data del suo arresto.
Nel panel c'erano anche il presidente della Corte d'appello Abang Iskandar Abang Hashim, il giudice capo di Malaya Zabidin Diah e i giudici Mary Lim e Abu Bakar Jais.
Jun, un convertito all'Islam, cammina con difficoltà e ha dovuto essere assistito da un funzionario della prigione quando il suo caso è stato sottoposto a revisione.
Era stato arrestato al KLIA il 3 dicembre 2006 per il traffico di 1,5 kg di ketamina.
È stato tenuto in carcere in attesa del processo poiché agli imputati di un reato punibile con la pena di morte non è concessa la libertà su cauzione.
Il 10 ottobre 2008, l'Alta Corte di Shah Alam aveva riconosciuto colpevole Jun e gli aveva imposto la condanna a morte obbligatoria.
La Corte Federale aveva respinto il ricorso finale di Jun il 20 marzo 2014.
Si trova in carcere da 17 anni e nel braccio della morte da 15 anni.
Il sostituto procuratore Tertralina Ahmed Fauzi non si è opposto alla richiesta di Jun.
L'avvocato Abdul Rahid Ismail ha detto ai giornalisti che Jun dovrebbe trascorrere altri tre anni in prigione prima di avere diritto al rilascio grazie alla remissione di un terzo della pena detentiva normalmente concessa ai prigionieri.
"Chiederemo la grazia, dato che Jun versa in cattive condizioni di salute", ha detto.
Gli altri uomini a cui è stata sostituita la pena capitale con quella detentiva sono: Emmanuel Yaw Tieku del Ghana, 63 anni; Nobies Weah Ezike della Liberia, 52 anni; Zaiham Mislan, 48 anni; Mohamad Che Tam, 62 anni; Faiz Khairudin, 53 anni; Siew Yoke Keong, 56 anni; Wong Hong, 68 anni; e Phung Geok Hoay, 70 anni.
Tutti verranno liberati dal carcere, con Zaiham che riceverà 12 colpi di rotan poiché ha un’età inferiore a 50 anni.
(Fonte: FMT, 06/12/2023)
Per saperne di piu' :

CINA: UN GIUSTIZIATO PER STUPRI, DUE PER TRAFFICO DI DROGA
Un ex insegnante e due cittadini filippini sono stati di recente giustiziati in Cina, in casi distinti.
L’ex insegnante di scuola media della contea di Longhui, nella provincia cinese di Hunan, è stato giustiziato il 1° dicembre per aver stuprato e molestato diversi studenti.
Dopo essere stata approvata dalla Corte Suprema del Popolo, la sentenza capitale è stata eseguita dal Tribunale Intermedio del Popolo di Shaoyang nei confronti di Long Peizhu, 60 anni.
Long avrebbe violentato ripetutamente cinque studentesse, di età compresa tra 12 e 14 anni, da aprile 2016 a ottobre 2020 mentre prestava servizio come preside.
Gli stupri sono avvenuti nel suo ufficio, nel dormitorio della scuola e a casa di Long.
Tutte le ragazze violentate da Long hanno avuto in seguito problemi di salute mentale. Una si è addirittura tolta la vita.
Long aveva molestato anche tre studenti maschi di età compresa tra i 12 e i 14 anni.
Secondo la legge penale cinese, le persone riconosciute colpevoli di stupro possono essere condannate a più di 10 anni di carcere, all'ergastolo o addirittura alla morte. Coloro che violentano ragazze di età inferiore a 14 anni ricevono condanne più dure.
Il tribunale di Shaoyang aveva condannato Long a morte, sentenza confermata dall'Alta Corte del Popolo di Hunan e approvata infine dalla Corte Suprema del Popolo.
Il Tribunale ha affermato che la protezione dei diritti dei minori è un principio fondante di lunga data e che continuerà ad agire senza indugi.
Secondo la massima Corte del Paese, nel solo mese di maggio tre tribunali nelle province di Hubei, Shandong e Henan hanno giustiziato tre uomini per aver violentato bambini.
Zhou Guangquan, preside della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Tsinghua, ha detto che ciò che ha fatto Long è stato così oltraggioso che la punizione è stata adeguata al crimine.
La legge penale prevede che le persone che commettono crimini estremamente gravi possano essere condannate a morte, e l'esecuzione della condanna a morte ha dimostrato la risolutezza del Partito e del Paese nel punire le persone che hanno gravemente leso i diritti e gli interessi dei bambini e delle donne, ha dichiarato a China Women's News.
I due cittadini filippini sono stati giustiziati il 24 novembre per traffico di droga, nonostante gli appelli del governo filippino affinché le loro condanne capitali fossero commutate in ergastolo. Lo ha reso noto il 2 dicembre il Dipartimento Affari Esteri di Manila senza identificare i due giustiziati, citando la volontà delle loro famiglie di mantenere la privacy.
Il governo filippino ha detto di aver atteso la comunicazione ufficiale da parte delle autorità cinesi prima di annunciare le avvenute esecuzioni.
Nessun altro dettaglio è stato fornito dalle autorità di Pechino e Manila sulle due esecuzioni e sui casi di traffico di droga.
Il Dipartimento Affari Esteri ha affermato che dal momento in cui i due filippini sono stati arrestati nel 2013 fino alla loro condanna nel 2016 da parte di un tribunale cinese, ha fornito tutto l’aiuto possibile, compresi i finanziamenti per la loro difesa legale.
"Il governo della Repubblica delle Filippine ha inoltre utilizzato tutti gli strumenti disponibili per appellarsi alle autorità competenti della Repubblica Popolare Cinese affinché le loro sentenze fossero commutate in ergastolo per motivi umanitari", ha affermato il Dipartimento.
“Ci sono state anche richieste politiche di alto livello a questo riguardo.
"Il governo cinese, citando le proprie leggi interne, ha confermato le condanne capitali e ricordato che le Filippine devono rispettare le leggi penali e i processi legali della Cina", ha affermato il Dipartimento.
"Mentre il governo filippino continuerà a esperire tutte le vie possibili per assistere i nostri cittadini d'oltremare, alla fine saranno le leggi e le decisioni sovrane dei paesi stranieri, e non le Filippine, a prevalere in questi casi".
Le esecuzioni sono avvenute in un momento difficile nelle relazioni tra Cina e Filippine a causa dell’escalation nelle controversie territoriali nel Mar Cinese Meridionale.
Le Filippine, attraverso il Dipartimento Affari Esteri, hanno presentato più di 100 proteste diplomatiche contro le azioni aggressive della Cina nelle acque contese da quando il presidente Ferdinand Marcos Jr. ha preso il potere nel giugno dello scorso anno.
Il Dipartimento ha dichiarato che, pur rattristandosi per le esecuzioni dei filippini, la loro morte rafforza "la determinazione del governo nel continuare i nostri incessanti sforzi per liberare il Paese dalle organizzazioni della droga che depredano i più vulnerabili, compresi coloro che cercano una vita migliore per se stessi e per le loro famiglie".
Le autorità di Manila raccomandano ai filippini che viaggiano all’estero di vigilare contro le organizzazioni della droga, che reclutano viaggiatori come “muli della droga” o corrieri, e di rifiutarsi di trasportare qualsiasi pacco non ispezionato proveniente da altre persone.
Altri due casi di pena di morte che coinvolgono filippini sono in fase di appello e di revisione finale in Cina, ha detto la portavoce del Dipartimento, Teresita Daza, senza fornire ulteriori dettagli.
(Fonti: AP, 02/12/2023; China Daily, 05/12/2023)

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