Nessuno tocchi Caino - DUE IMPICCATI AL GIORNO: LA GUERRA DELL’IRAN AGLI IRANIANI
Nessuno tocchi Caino news
Anno 24 - n. 6 - 10-02-2024
Contenuti del numero:
1. LA STORIA DELLA SETTIMANA : DUE IMPICCATI AL GIORNO: LA GUERRA DELL’IRAN AGLI IRANIANI
2. NEWS FLASH: ASSOLTI DEFINITIVAMENTE. MA IL CALVARIO DOVEVA ANCORA INIZIARE
3. NEWS FLASH: CARCERI: CAMERA DICE SI’ ALL’ESAME URGENTE
4. NEWS FLASH: CHI ERA MARIA FIDA MORO, LA RIBELLE PRIMOGENITA DEL GRANDE LEADER DC
5. NEWS FLASH: ZIMBABWE: GOVERNO ABOLISCE LA PENA DI MORTE
6. I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :
DUE IMPICCATI AL GIORNO: LA GUERRA DELL’IRAN AGLI IRANIANI
Elisabetta Zamparutti su L’Unità del 4 febbraio 2024
Guerra deriva dal tedesco antico werra che esprime il senso del
disordine proprio della mischia in cui i corpi, nello scontro, si
aggrovigliano e si macellano secondo quella modalità di combattimento
che connotava le popolazioni germaniche antiche, “barbare” appunto.
Guerra e barbarie camminano insieme. Tant’è che dove c’è guerra c’è
barbarie. Meno scontato ma altrettanto vero è che dove c’è barbarie c’è
guerra. Come definire infatti la carneficina delle esecuzioni capitali
in Iran se non come una guerra del regime teocratico nei confronti del
suo stesso popolo?
Nell’anno che si è da poco concluso sono state giustiziate almeno 883
persone secondo il monitoraggio quotidiano di Nessuno tocchi Caino
(almeno 850 secondo Iran Human Rights Monitor). Solo una minima parte di
questa macellazione, il 17%, è stata resa pubblica dai mezzi di
informazione. Eppure parliamo di una media di più di due persone fatte
penzolare ogni giorno con una corda intorno al collo secondo un orrido
ritmo confermato da questo primo mese del 2024 che ha visto almeno 70
giustiziati in 31 giorni. Una mattanza talmente vergognosa che è lo
stesso regime che la vuole tenere nascosta. Mi ricorda la segretezza che
avvolgeva l’industria della morte del campo nazista di Auschwitz, ben
descritta dal medico ebreo ungherese Miklos Nyiszli nel libro curato da
Augusto Fonseca “Sono stato l’assistente del dottor Mengele”.
La barbarie, come la guerra, comporta l’eclissi del senso di umanità per
come questo è andato definendosi anche nelle norme di diritto
internazionale cogente, perché da tutti condivise, che vietano la pena
di morte nei confronti di chi era minorenne al momento del fatto o abbia
compiuto reati non di sangue legati alla droga. La barbarie iraniana è
giunta l’anno scorso a impiccare 7 minorenni e 494 condannati per reati
legati alla droga. Quanto alle 27 donne giustiziate, prima
dell’aggrovigliarsi della corda al loro collo ci sono stati i processi
ingiusti attorcigliati ai loro corpi abusati da mariti che alla fine
hanno ucciso per difendersi.
Avviluppati da processi privi delle garanzie minime sono stati anche i
corpi dei 20 giustiziati per motivi politici nel 2023. Tra loro i
partecipanti alle manifestazioni “Donna, vita, libertà” come Mohammad
Ghobadloo, giustiziato a Karaj lo scorso 23 gennaio. Gli era stata
scagliata addosso l’accusa di Moharebeh (guerra contro Dio) e corruzione
in terra per aver investito con la sua auto e ucciso un agente di
polizia durante le proteste scatenate dalla morte di Mahsa Amini.
Soffriva di un disturbo bipolare e la sua esecuzione era stata annullata
dalla Prima Sezione della Corte Suprema. Eppure, nella mischia del
disordine anche istituzionale del regime iraniano per cui un tribunale
non rispetta quello che dispone un altro, è finito sulla forca,
undicesimo manifestante dopo Mohsen Shokati, Majidreza Rahnavard,
Mohammad Mehdi Karami, Mohammad Hosseini, Saleh Mirhashemi, Majid
Kazemi, Saeed Yaghoobi, Milad Zahrawand, Mohammad Ramz Rashidi e Naeim
Hashemi Qatalli.
Dallo stesso carcere di Karaj è giunta il 29 gennaio la tremenda notizia
dell’esecuzione di altri quattro prigionieri politici curdi: Pejman
Fatehi (28 anni), Mohsen Mazloum (27 anni), Vafa Azarbar (26 anni) e
Mohammad (Hajir) Faramarzi (28 anni). Erano stati arrestati a Urmia il
22 giugno del 2021 e da allora non hanno mai potuto avere alcun
contatto, visite o telefonate, con i propri familiari. L’unica visita è
stata concessa poco prima dell’esecuzione. Durante la loro detenzione in
una località tenuta segreta, con l’accusa di spionaggio a vantaggio di
Israele, hanno subito torture che li hanno portati ad autoaccusarsi
davanti alla telecamera. Immagini che poi sono state diffuse attraverso i
canali del regime iraniano.
Occorre porre fine a questo barbaro disordine interno se vogliamo far
terminare le minacce all’ordine internazionale. Ma per stabilire in Iran
un ordine basato sull’armonia dei diritti umani universali bisogna che
cambi il regime dei mullah e che cambino registro i paesi democratici,
perché è stata la loro ultradecennale politica dell’accondiscendenza a
mantenerlo immutato se non a renderlo peggiore.
NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH
ASSOLTI DEFINITIVAMENTE. MA IL CALVARIO DOVEVA ANCORA INIZIARE
Pietro Cavallotti* su L’Unità del 4 febbraio 2024
Dopo dodici anni di calvario giudiziario e quattro gradi di giudizio, mio padre e i miei zii sono stati assolti con formula ampia e liberatoria “perché il fatto non sussiste”. Quando pensavamo che il calvario era finito, è lì che è cominciato. Perché, parallelamente al processo penale, veniva avviato il processo per le misure di prevenzione con il sequestro di tutto il patrimonio. Quando dico “il sequestro di tutto il patrimonio”, significa che ti portano via tutto quello che hai, da un giorno all’altro: i soldi che hai in tasca, la macchina, il conto corrente, l’azienda.
Siamo stati costretti a difenderci senza soldi e senza lavoro perché ti hanno tolto pure la possibilità di trovare un’occupazione alternativa. Fortunatamente, abbiamo incontrato avvocati coraggiosi che hanno anteposto l’ideale all’arricchimento personale. Spesso noi ci lamentiamo perché crediamo di non essere difesi bene dagli avvocati. In realtà, gli avvocati in un processo di prevenzione non contano nulla. Quando si dice che “non serve la prova perché basta il sospetto”, quando si dice “anche se sei stato assolto, io ti confisco lo stesso tutto quello che hai”, qual è lo scopo di un avvocato in un processo del genere? Nessuno. Il processo di prevenzione si basava sugli stessi elementi indiziari che erano già stati valutati nel processo penale: le accuse dei collaboratori di giustizia. Fortunatamente, noi abbiamo avuto la possibilità di smentire le loro dichiarazioni e, però, nel processo di prevenzione ci è stato detto “si, è vero, ma qui siamo in un processo di prevenzione e i riscontri e la certezza non servono”.
Il processo di prevenzione è iniziato nel 1999, la confisca di tutto il patrimonio è avvenuta nel 2016 alla fine dei tre gradi di giudizio. Nel 2017 ci hanno persino buttato fuori di casa. L’hanno fatto passare come “prevenzione del reato”. Scusami, ma se io non ho fatto niente, perché mi togli la casa, cosa stai prevenendo? Allora dicono: no, è la casa che è intrinsecamente pericolosa: tu sei stato pericoloso trent’anni fa e hai trasferito la tua pericolosità alla casa. Si stenta a credere, eppure, queste sono le motivazioni con cui le Sezioni Unite della Cassazione hanno difeso e salvato la confisca di prevenzione. Così, le cose inanimate assumono vita propria e diventano pericolose. Però, le aziende “intrinsecamente pericolose” rimangono sul mercato con gli amministratori giudiziari. In quel caso perdono la loro pericolosità intrinseca? Questo sono le misure di prevenzione!
Assolti definitivamente e, al tempo stesso, confiscati. È stato il primo filone della nostra vicenda giudiziaria, quello dei nostri padri. C’è un secondo filone, quello dei figli. Noi non ci definiamo “imprenditori”, siamo solo operai che, a un certo punto, hanno deciso di ricominciare a lavorare e poi metter su un’impresa che nel corso degli anni è cresciuta. Ma non è piaciuto a una parte della Procura di Palermo che ha fatto sequestrare anche questa.
Iniziano un processo penale per intestazione fittizia e un processo di prevenzione sulla base della medesima accusa. Anche in questo caso, veniamo buttati fuori dall’azienda che, in poco tempo, fallisce e 150 persone perdono il posto di lavoro. L’accusa è che “i padri hanno trasferito i loro beni ai figli”. Ma come? Se avevano avuto tutti i beni confiscati, che cosa avrebbero potuto trasferire? Allora il Pubblico Ministero precisa: il vero oggetto dell’attribuzione fittizia è l’esperienza lavorativa, il know-how che i padri hanno trasmesso ai figli. Con questa accusa, è stato chiesto il carcere per i miei fratelli, per i miei cugini – che erano i soci e gli amministratori dell’azienda – e per i padri. Non mi ricordo quanti anni di carcere avevano chiesto! Mio padre e i miei zii hanno rivissuto tutta la trafila: il carcere, gli arresti domiciliari e anche la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Con quale motivazione gli hanno dato la sorveglianza speciale?
“Non avete dimostrato il vostro recesso dall’associazione mafiosa”, ci è stato detto. Ma, scusa: io sono stato assolto perché non ho mai fatto parte dell’associazione mafiosa, come faccio a dimostrare di esserne uscito se non ci sono mai entrato?
Accade poi l’imprevisto. Al Tribunale di Palermo scoppia lo “scandalo Saguto”, cambiano i giudici e, dopo nove anni, l’azienda viene dissequestrata. Si rendono conto che è pulita ma ci viene restituita una società con oltre dieci milioni di debiti. Avremmo dovuto liquidare ciò che era rimasto per pagare i debiti fatti dall’amministratore giudiziario. Peccato, però, che non riuscivamo ad avere un conto corrente per vendere, incassare e pagare i fornitori. Nel giro di pochi mesi, l’azienda è fallita e siamo passati dalla sezione misure di prevenzione alla sezione fallimentare, dall’amministratore giudiziario al curatore fallimentare.
Questo è il dramma che ha vissuto la mia famiglia, quella di Massimo Niceta e di altri imprenditori. Quello che mi spinge ad andare avanti è il sogno di vedere mio padre e mia madre ritornare nella propria casa. E l’auspicio che quel che abbiamo subito noi non sia subito da altre persone. Che tutto sia capitato sia perché noi ci impegnassimo a cambiare il sistema e contribuire a liberare l’Italia dall’oppressore giudiziario.
* Sintesi dell’intervento al X Congresso di Nessuno tocchi Caino
CARCERI: CAMERA DICE SI’ ALL’ESAME URGENTE
“Rivedendo la decisione della conferenza dei capigruppo di ieri, oggi (8 febbraio) la Camera ha deciso che la settimana prossima inizierà l’iter in Commissione Giustizia della proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale promossa da Nessuno Tocchi Caino e presentata da Italia Viva all’ Assemblea di Montecitorio” - così Rita Bernardini (Presidente di Nessuno Tocchi Caino) e Roberto Giachetti (deputato di Italia Viva), giunti al 17mo giorno di sciopero della fame. “Siamo grati a tutti coloro, di maggioranza e opposizione, che hanno voluto condividere l’impegno per uscire dall’emergenza affollamento. Una scelta importante e non scontata che siamo certo aiuterà a trovare soluzioni rapide e adeguate per ridurre le sofferenze dell’intera comunità carceraria.
La decisione della Camera rappresenta un primo successo del Satyagraha sulle carceri, che vede coinvolti decine di cittadini.”
Nelle scorse ore il Ministero della Giustizia ha fornito i dati al 31 gennaio delle presenze nei 189 istituti penitenziari: in un mese i detenuti sono aumentati di 471 unità, raggiungendo quota 60.637 in 47.500 posti disponibili. Un trend che ci porterà a fine anno agli stessi livelli per i quali nel 2013 fummo condannati dalla Corte EDU per sistematici trattamenti inumani e degradanti. Per non parlare del numero dei suicidi di detenuti che, per la frequenza di questi primi 40 giorni del 2024, rischia di superare ogni record italiano ed europeo.
(Fonte: NTC, 08/02/2024)
CHI ERA MARIA FIDA MORO, LA RIBELLE PRIMOGENITA DEL GRANDE LEADER DC
Sergio D’Elia su L’Unità dell’8 febbraio 2024
Una delle ultime volte che ci siamo incontrati era il 9 di maggio di qualche anno fa. Ricorreva il 43° anniversario della morte di Aldo Moro. Lo abbiamo ricordato a Radio Radicale proprio con Maria Fida, la figlia primogenita, quella “ribelle” della famiglia, ma anche la più simbiotica con la figura, il pensiero, l’identità del padre. Era commossa e commovente, a tratti divertente durante la conferenza di presentazione del ciclo di spot – il primo proprio con Aldo Moro “testimonial” – a favore delle iscrizioni a Nessuno tocchi Caino nella campagna intitolata “Compresenza”, ispirata da Ambrogio Crespi e realizzata dal nipote Niccolò.
Il 9 maggio è un giorno particolare nel calendario della storia del nostro Paese, della nostra vita. E anche della mia, della mia prima vita, quella votata all’idea romantica e tremenda, di lotta e di lutto, per la quale “la violenza è levatrice della storia”. Verità indiscussa e indiscutibile, una dottrina fideisticamente accettata e tragicamente incompresa da filosofi e storici, intellettuali e militanti politici, ancora oggi, nel nostro tempo. Per capire un’altra verità, scoprire un altro metodo, rinascere a una nuova vita, a me, è dovuto accadere per sorte di finire in carcere e per fortuna di incontrare Marco Pannella. Che per Maria Fida era un “mito”, il fratello maggiore che aveva provato contro tutto e contro tutti a salvare il suo amato padre da chi era convinto che un nobile fine potesse essere perseguito con qualsiasi mezzo. La “verità”, che può rivelarsi tale solo alla prova del proprio singolarissimo vissuto, è che la violenza non fa nascere nulla
di nuovo che duri nella storia, è che il fine può essere dai mezzi felicemente prefigurato o, anche quello più nobile, fatalmente pregiudicato e distrutto. La “verità” è – l’esperienza dice – che la nonviolenza è il metodo gentile, è la forza sottile, è lo spirito vitale che muove e cambia il mondo. La “verità” è – il nostro vissuto ci insegna – che una vita, una idea, una lotta mosse dall’amore e non dall’odio, anche nei confronti del proprio nemico, possono superare le montagne più invalicabili, disarmare il potere più potente, persuadere il nemico più ostile.
Pannella amava i Moro, dal più grande al più piccolo, sì, il più piccolo, Luca, di cui Maria Fida si è preso cura con amore fino al suo ultimo istante di vita, con lo stesso infinito amore e la stessa preoccupazione struggente che il nonno, “prigioniero” delle Brigate Rosse, aveva manifestato fino all’ultimo istante della sua vita. Ricordo una bellissima serata con Luca e con Marco che lo volle incontrare a un suo concerto dove non si parlò di Aldo Moro, ma dove con la musica nell’aria aleggiava il suo spirito.
Era riconoscente Maria Fida nei confronti di Marco, al punto di accettare di capeggiare, per suo conto, ma credo anche in nome del padre, “missioni impossibili”. Come quella che, una volta, quasi vent’anni fa, Maria Fida fece a Cuba col Partito Radicale per manifestare a sostegno delle Damas de Blanco, le madri, le mogli, le figlie dei detenuti politici.
Era la figlia di Aldo Moro, amato capo di Stato in quella terra. La sua sola presenza divenne atto di tutela e garanzia che la folta pattuglia radicale non venisse toccata, nonostante i rocamboleschi e a volte goffi comportamenti dei suoi componenti. La sua testa alta, lo sguardo dritto, la parola appropriata e opportuna, la forza del suo vissuto umano e politico avevano disarmato anche Fidel Castro.
Maria Fida ci ha accompagnato fino all’ultimo nei nostri viaggi della speranza. In uno, eravamo in macchina con lei, con Elisabetta e Rita, alla volta di Milano per incontrare gli ergastolani del carcere di Opera, i condannati alla pena senza speranza. E cantava Maria Fida, ha cantato per quasi tutto il viaggio. Intonava le canzoni che da bambina aveva imparato a memoria. Erano tutte canzoni di lotta dei lavoratori o inni dei partigiani alla resistenza. Quando non cantava, parlava, ricordava suo padre, non il Moro canonico, il Presidente, cristallizzato nelle immagini della “prigione del popolo” e irretito nel sangue di via Caetani, ma un altro uomo. Quello di professore universitario che nei suoi scritti giovanili ammoniva che «La storia sarebbe estremamente deludente e scoraggiante, se non fosse riscattata dall’annuncio, sempre presente, della salvezza e della speranza». Era quel giovanissimo docente di Bari che, nel 1943, iniziò la sua prima lezione con un «la persona
prima di tutto!»; intimamente convinto che «la pena dell’ergastolo che priva così com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana, non meno di quanto lo sia la pena di morte […] Ci si può, anzi, domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto […] Quando si dice pena perpetua si dice una cosa estremamente pesante, estremamente grave, umanamente non accettabile». Era l’Aldo Moro che, prima degli esami, affittava un pulmino e portava i suoi studenti in gita in carcere per farli riflettere sul senso della pena. Un paradosso tragico e allo stesso tempo – rifletteva Maria Fida – la parabola felice di una pagina indimenticabile della storia italiana, avevano preso corpo nello stesso u
omo, Aldo Moro, suo padre. Avevano preso forma nell’essenza più intima della sua umanità, nella sua “ossessiva” attenzione al carcere – il “ministro della galera” lo chiamava uno sprezzante Ugo La Malfa, che sul tema aveva idee e sentimenti opposti ai suoi –, nella sua ricerca “non di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale”.
Pur nella tragedia, ricordava Maria Fida, suo padre aveva realizzato un miracolo. I suoi principi di giustizia e libertà, le sue opere di misericordia corporale (prima fra tutte: visitare i carcerati), la sua professione di fede e di speranza, erano proprio quelli che, con effetto postumo, avrebbero liberato dal carcere dello Stato chi lo aveva sequestrato nel “carcere del popolo”, avrebbero salvato dalla pena di morte e dalla pena fino alla morte chi lo aveva condannato a morte e a una pena fino alla morte.
Alla fine di quella trasmissione a Radio Radicale, Maria Fida Moro decise di prendere la tessera della nostra associazione. “Lo faccio per papà”, disse. “Mi iscrivo a Nessuno tocchi Caino. Mi iscrivo, tra parentesi, ad Aldo Moro”. È la «compresenza dei morti e dei vivi», quel miracolo della vita di cui parlava Aldo Capitini, quel tema ricorrente del pensiero di Marco Pannella, nel suo costante fare di una mancanza una presenza. Come Luca, ne siamo certi, anche noi cercheremo di dare continuità alla tua vita, Maria Fida, all’amore e alla fede nella salvezza e nella speranza e nella dignità di ogni essere umano che erano anche di tuo padre, Aldo Moro. Buon viaggio Maria Fida, ovunque tu vada.
ZIMBABWE: GOVERNO ABOLISCE LA PENA DI MORTE
Il governo dello Zimbabwe il 6 febbraio 2024 ha approvato l’abolizione della pena di morte, sostituendola con pene detentive di lunga durata fino all’ergastolo, ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale New Ziana, citando il ministro dell’Informazione e Telecomunicazioni, Dr. Jenfan Muswere.
Nella conferenza stampa al termine della riunione di governo, il Ministro ha affermato che la decisione dell’esecutivo rappresenta il culmine di un lungo e intenso dibattito sulla questione in molte sedi, tra cui il Parlamento, gli spazi pubblici e a livello internazionale.
La nuova misura è la risposta al Memorandum sul progetto di legge sull’abolizione della pena di morte che il Ministro della Giustizia, degli Affari Legali e Parlamentari, Ziyambi Ziyambi, ha presentato al governo.
"Un progetto di legge è stato presentato all'Assemblea Nazionale e il suo scopo principale era quello di abolire la pena di morte nello Zimbabwe attraverso emendamenti al Codice penale e alla Legge sulla Procedura penale e le Prove", ha detto Muswere.
“A seguito dei dibattiti a livello locale, regionale e internazionale sull’opportunità o meno di abolire la pena di morte, il governo dello Zimbabwe, attraverso il Ministero della Giustizia, degli Affari Legali e Parlamentari, ha condotto consultazioni di base a livello nazionale in 30 distretti dello Zimbabwe, tre distretti per ciascuna delle dieci province, dopo di che è stato redatto un rapporto”, ha detto.
Nelle consultazioni - ha aggiunto - sono stati espressi commenti e opinioni a favore e contro la pena di morte, che il governo ha preso in considerazione prima di prendere la decisione.
Il governo ha osservato, tuttavia, che è necessario mantenere un deterrente contro l'omicidio e ha approvato l'imposizione di pene detentive fino all'ergastolo per questo crimine.
“In considerazione della necessità di mantenere l’elemento deterrente nel condannare gli omicidi, si prevede che la nuova legge imporrà lunghe condanne detentive, senza violare il diritto alla vita. L’esistenza di circostanze aggravanti potrebbe portare all’ergastolo”, ha detto Muswere.
Attualmente, la Sezione 48 della Costituzione dello Zimbabwe stabilisce che la pena di morte può essere imposta solo per omicidio commesso in circostanze aggravanti e che può essere pronunciata solo nei confronti di uomini di età compresa tra 21 e 70 anni.
I registri governativi mostrano che ci sono ancora 62 detenuti nel braccio della morte. A seguito della decisione del governo di abolire la pena capitale, la condanna di questi 62 prigionieri potrebbe essere commutata in ergastolo.
Gli ultimi detenuti a essere impiccati nel Paese furono due noti criminali nel 2005, Stephen Chidhumo e Edgar Masendeke, autori dell’unica evasione riuscita dalla prigione di massima sicurezza di Chikurubi nel 1995.
Lo Zimbabwe attualmente non ha nemmeno un boia, nonostante l’interesse per il lavoro espresso nel 2022 da parte dei candidati, due dei quali erano donne.
(Fonti: Bernama, New Ziana, 07/02/2024; News24, 06/02/2024)
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