Nessuno tocchi Caino - PUTIN HA UCCISO NAVALNY, IL FEROCE OMICIDIO DI UN EROE DELLA NONVIOLENZA
Nessuno tocchi Caino news
Anno 24 - n. 8 - 24-02-2024
Contenuti del numero:
1. LA STORIA DELLA SETTIMANA : PUTIN HA UCCISO NAVALNY, IL FEROCE OMICIDIO DI UN EROE DELLA NONVIOLENZA
2. NEWS FLASH: IL RINASCIMENTO DI MBS È PRECIPITATO NEL MEDIOEVO
3. NEWS FLASH: QUESTO CARCERE INFLIGGE PENE CORPORALI: PAROLA DI ARCHITETTO
4. NEWS FLASH: EMERGENZA CARCERI, IL MPA ADERISCE ALL’INIZIATIVA DI NESSUNO TOCCHI CAINO
5. NEWS FLASH: AFGHANISTAN: DUE ESECUZIONI IN PUBBLICO PER OMICIDIO
6. I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :
PUTIN HA UCCISO NAVALNY, IL FEROCE OMICIDIO DI UN EROE DELLA NONVIOLENZA
Sergio D’Elia su L’Unità del 17 febbraio 2024
Ho solo letto la notizia, come tutti. Non so e non voglio approfondire
quale siano state le cause della morte del dissidente russo Alexei
Navalny. In ogni caso non possono essere “cause naturali”. Non c’è nulla
di naturale in tutto ciò che avviene in Russia, meno che mai in un
luogo di privazione della libertà dove tutto è strutturalmente
innaturale, concepito e realizzato contro la natura umana e il senso di
umanità.
Mai come in questo caso può valere la massima che molti attribuiscono,
oltre che a Voltaire, proprio a due grandi della storia e della
letteratura russa, Tolstoj e Dostoevskij: se vuoi misurare il grado di
civiltà di un Paese vai a vedere cosa accade nelle sue carceri.
Non solo in Russia, una morte in carcere non può essere mai un evento
naturale, ma solo un atto criminale. La morte di Navalny è un atto
omicida del regime russo che ha mostrato così la sua vera faccia, un
volto feroce e spietato.
Può accadere che un oppositore politico decida di fare una lotta di
liberazione violenta nei confronti del regime e quindi mette nel conto
le conseguenze di questa sua azione. Nel caso di Navalny parliamo di una
persona forte e mite, col carattere di acciaio e un corpo lieve come
una piuma.
Di anno in anno, di lotta in lotta, da un digiuno all’altro, da una
prigione all’altra, da una cella di isolamento all’altra, di tortura in
tortura, il corpo di Navalny ha perso peso, è stato scavato e levigato
fino a scomparire in esso ogni traccia di materia.
Come in un processo omeopatico, di diluizione in diluizione, della
materia originaria di cui era fatto Navalny era rimasta l’essenza, il
principio attivo, quello della coscienza. Hanno ucciso un obiettore di
coscienza. Nel senso che hanno ucciso un uomo che era diventato un
tutt’uno con la sua coscienza. Non hanno ucciso Navalny, hanno ucciso la
sua coscienza, l’essenza di tutto ciò che di lui era rimasto.
Navalny è stato, continua a essere testimone e simbolo della resistenza
al regime, a tutti i regimi, “incarnazione” spirituale di una visione
diversa, quella della coscienza, dell’armonia, della fratellanza,
dell’amore universali. Navalny è stato un essere di luce che, anche nel
silenzio e nel buio di una galera, ha illuminato e continua a illuminare
la via per creare un nuovo mondo.
E’ già successo nella storia russa, che la speranza di un ordine nuovo
nascesse proprio nel sottosuolo del regime, e di un regime come quello
sovietico, nei gulag e nelle prigioni di Stalin. Era incarnata da uomini
e donne come Navalny, dai perseguitati, dai prigionieri e dai deportati
sui quali era comunque sceso lo spirito creatore di un ordine superiore
che non sarebbe tardato a venire. Ci è voluto tempo, eppure, contro
ogni speranza, la loro forza “religiosa”, letteralmente, di relazione,
pur nell’isolamento dal mondo, è riuscita a cambiare il mondo e i suoi
confini.
Alexei Navalny ha provato che quel che si vive nel proprio mondo
interiore è indistruttibile, può risuonare oltre le mura della prigione
più isolata, cupa, blindata. Non bisogna essere in miliardi, in milioni,
in migliaia e neanche centinaia per cambiare il mondo.
Anche pochi, rari, uomini soli possono creare il cambiamento: la loro
coscienza, il loro amore e la coerenza del loro modo di pensare, di
sentire e di agire e il metodo della nonviolenza, possono creare il
nuovo possibile. Coscienza, amore, nonviolenza sono la forma delle cose,
il principio d’ordine da cui tutto origina, che tutto lega e a cui
tutto tende.
Alexei Navalny ha amato a tal punto il suo Paese da decidere, da libero,
di ritornare nel luogo che sarebbe stato per lui di prigionia, di
tortura e di morte. Questo significa amare. È in questo che si misura il
valore della nonviolenza. Sentirsi profondamente responsabili di ciò
che si ama, responsabili financo della vita del proprio nemico.
Il corpo di Navalny è stato, dal suo nemico, fatto prigioniero, isolato,
torturato, umiliato, ucciso. Ma il suo spirito irriducibile non morirà
mai, continuerà a illuminare e orientare la vita russa, l’istanza di
libertà, di diritto, di democrazia di milioni di russi, e non solo.
NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH
IL RINASCIMENTO DI MBS È PRECIPITATO NEL MEDIOEVO
Sergio D’Elia su L’Unità del 18 febbraio 2024
Il 30 gennaio 2024, l’Arabia Saudita ha tagliato la testa ad Awn Hassan Abu Abdullah, ha reso noto la European Saudi Organization for Human Rights (ESOHR). Nulla di nuovo sotto il sole che batte e acceca la terra dei Saud dove la dea bendata con la spada sguainata in una mano e la bilancia spaiata nell’altra non è una icona metaforica della giustizia. È letteralmente e perfettamente tale: è cieca e misteriosa, mozza le teste con la spada, è sbilanciata tra il bene e il male. Come spesso accade, l’esecuzione si è svolta in segreto, la famiglia non è stata avvisata e non ha potuto dirgli addio. Il boia ha sguainato la spada e con un colpo gli ha staccato la testa. Giustizia è fatta. Allah è grande.
La stessa dichiarazione del Ministero degli Interni, a ben vedere, svela che tra il delitto di Abu Abdullah e il suo castigo non v’era alcuna proporzione. La gigantesca e roboante accusa di “essersi unito a una cellula terroristica che cercava di minare la sicurezza del Regno, destabilizzare la società, disturbare la stabilità dello Stato, prendere di mira il personale di sicurezza, impegnarsi nella produzione di esplosivi e finanziare il terrorismo”, conferma che Abu Abdullah non era colpevole di nulla ed evidenzia l’uso di imputazioni tanto gravi quanto vaghe che non indicano esattamente il presunto crimine, neanche un omicidio intenzionale che è il minimo indispensabile per una condanna capitale. Il suo arresto, il processo e l’esecuzione sono probabilmente legati alle sue attività legittime, come esprimere libere opinioni e partecipare a riunioni, sollevare preoccupazioni sulle pratiche di tortura, maltrattamenti e processi ingiusti in Arabia Saudita.
Il verdetto era stato emesso dal Tribunale penale specializzato per il terrorismo, lo strumento di repressione del Regno noto per aver preso di mira e punito attivisti e difensori dei diritti umani. L’esecuzione di Abu Abdullah porta a 7 il numero totale di esecuzioni dall’inizio del 2024, secondo l’ESOHR che sta attualmente monitorando i casi di altre 65 persone che rischiano la decapitazione, tra cui 9 minorenni, di cui almeno 2 – Abdullah Alderazi e Jalal Al-Labbad – con sentenze definitive approvate dalla Corte Suprema, il che significa che l’esecuzione potrebbe avvenire in qualsiasi momento. Informazioni dall’interno della prigione investigativa generale di Dammam sono segnali allarmanti di esecuzioni imminenti. Questa prigione ospita la maggior parte dei condannati a morte, condannati per accuse non considerate tra le più gravi. Le informazioni hanno riportato strane attività che preludono alla loro esecuzione fra pochi giorni o poche settimane. Procedure come f
oto del profilo del volto dei condannati, esami medici, rilevamento delle impronte digitali e firma di documenti.
Il 2023 è stato un anno orribile per il diritto alla vita e la vita del diritto nel Regno saudita. La spada del boia si è abbattuta senza pietà su 172 teste. Il numero di esecuzioni ha addirittura superato il record del 2022, quando la spada aveva fatto strage di esseri umani in nome di Dio a un ritmo che sembrava irripetibile: 147 teste decollate, di cui 81 in un solo giorno. Il Ministro degli interni ha così attribuito le 172 teste mozzate nel 2023: 66 erano di condannati per reati di omicidio per i quali è previsto il Qisas, la “restituzione dello stesso tipo”, una pena ordinata da Dio, inesorabile, inappellabile; altre 54 erano di condannati per offese contro lo Stato o la società, per i quali le pene, dette Ta’zir, non sono volute da Dio ma dagli uomini, discrezionali e capricciose come la volontà del Re e dei suoi giudici; altre 50 erano di condannati a pene Hadd, una parola che vuol dire “limite, confine”, che i giudici dovrebbero rispettare ma che spesso supe
rano con le loro sentenze eccessive e sconfinate emesse, ad esempio, per “reati” come fornicazione, calunnia, ubriachezza, furto e brigantaggio; le ultime 2 teste erano di condannati per reati militari, raramente puniti in un sistema islamico, se non fossimo in Arabia Saudita.
Il rinascimento saudita del principe ereditario Mohammad bin Salman, alla prova dei fatti, ha tradito la promessa originaria di un cambiamento radicale nel Regno, si è ridotto a mera retorica di discorsi ufficiali in occasione di incontri internazionali, promozione e propaganda di un’immagine irrealistica dei diritti umani in Arabia Saudita. Il sogno rinascimentale di umanesimo, di una nuova era di luce e civiltà di pensiero, nel Regno dei Saud, si è infranto al cospetto di una realtà medievale, cupa e anacronistica, quella della terribilità della pena capitale tramite decapitazione, della sua applicazione a reati non violenti e del suo uso politico nei confronti anche di liberi pensatori pacifici e miti obiettori di coscienza.
QUESTO CARCERE INFLIGGE PENE CORPORALI: PAROLA DI ARCHITETTO
Cesare Burdese* su L’Unità del 18 febbraio 2024
L’1 e il 2 febbraio scorsi, con i vertici di Nessuno tocchi Caino e una delegazione di avvocati del Movimento Forense e della Camera Penale ‘Vittorio Chiusano’ del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta, ho visitato le case circondariali di Torino e di Brissogne-Aosta. “Niente di nuovo sotto il sole” è il mio primo commento. È emersa la mancanza di agenti, educatori, assistenti sociali, psicologi e mediatori culturali. Il fenomeno del sovraffollamento, invece, si riscontra solo nella struttura torinese.
Dal punto di vista architettonico quanto mi è apparso corrisponde al tratto indistinguibile delle carceri, come da tempo ripeto, luoghi che impediscono ogni possibilità di crescita che arricchisce, monotoni, uniformi, paralizzanti per la deprivazione sensoriale ed emozionale, dove il costruito invalida, rende incerti, scoraggia, mina e reprime, anziché convalidare, rassicurare, incoraggiare, sostenere, favorire.
Quanto visto e ascoltato mi consente di tornare su aspetti stigmatizzanti. Il carcere torinese denuncia la rimozione del carcere, relegato come è all’estrema periferia della città, quello valdostano la noncuranza, in quanto collocato in aperta campagna, in una zona della valle che per molti mesi all’anno rimane in ombra. Le loro origini risalgono all’epoca dell’emergenza terroristica e al periodo degli episodi di corruzione e truffa ai danni dello Stato, che portarono allo scandalo delle “carceri d’oro”. Due circostanze che ancora oggi ne condizionano l’ambiente materiale.
Le esigenze securitarie di allora portarono a concepire strutture compatte e molto frazionate al loro interno, dove la cella, e il suo uso, prevale sul resto degli spazi previsti. Questa soluzione pregiudica la funzionalità penitenziaria attuale, nell’ottica delle esigenze trattamentali. La scarsa qualità del costruito, frutto di logiche affaristiche, e la mancanza di manutenzione, ci hanno restituito ambienti inospitali, malsani e lesivi della dignità di quanti a vario titolo li utilizzano. Gli interni delle sezioni detentive sono fortemente compartimentati e frazionati e non relazionano con gli spazi all’aperto prospicienti, che in questo modo risultano estranei e per lo più inutilizzati. Tali condizioni obbligano a una quotidianità detentiva che si consuma costantemente al chiuso e in condizione di totale infantilizzazione del detenuto, impossibilitato a muoversi autonomamente nella struttura.
L’illuminazione nelle sezioni è garantita artificialmente, quella naturale è ridotta per la presenza di schermature a volte opache e reti metalliche alle finestre per scongiurare il getto in basso di scarti di alimenti. Ovunque le finestre sono tamponate con lastre di plexiglas, inconsistenti e in parte staccate dal loro alloggiamento. I detenuti durante le visite, per lo più, hanno lamentato la claustrofobia degli ambienti nei quali sono ristretti, sottolineando l’insorgere di ansia e la perdita progressiva della vista. Tale fenomeno è conseguente alla mancanza della possibilità di variare la profondità delle visuali, che consente alla retina un regolare funzionamento.
In linea di massima sono entrato in celle ove sono rispettati i 3 metri quadri di spazio pro capite, con l’accortezza, nel caso di cella a due posti, di utilizzare il letto a castello. Resta il fatto, nel caso della cella doppia, di dover condividere per molte ore uno spazio grande poco più della metà di un box auto, dove l’arredo è sciatto e inconsistente e il servizio igienico è anche luogo dove cucinare e conservare alimenti.
L’assenza di verde è ovunque e la permanenza episodica nel tutto cementificato dei cortili di passeggio, pregiudica ulteriormente il benessere psicofisico dei ristretti. Tra le conseguenze dei vizi costruttivi originari più evidenti, ho riscontrato in entrambi i casi, vistosi fenomeni di condensa sulle pareti perimetrali delle celle, causa della mancanza di
una adeguata coibentazione dell’involucro edilizio. I servizi igienici delle celle sono sprovvisti di docce e acqua calda, contraddicendo il nuovo regolamento del 2000 che, tra il resto, le prevedeva.
In questo modo, la pena del carcere diventa pena corporale e la Costituzione viene tradita. Necessita pertanto un monitoraggio costante della dimensione architettonica delle nostre carceri ed elaborare proposte per migliorarne le condizioni di vita e di lavoro. Nelle prossime settimane sarà presentato il progetto architettonico per il benessere dei reclusi e operatori del carcere di Como, scaturito da una mia proposta, curato dall’Università Cattolica di Milano e finanziato da Fondazione Cariplo di Milano.
* Architetto, esperto di architettura penitenziaria
Per saperne di piu' :
EMERGENZA CARCERI, IL MPA ADERISCE ALL’INIZIATIVA DI NESSUNO TOCCHI CAINO
Raffaele Lombardo e il Mpa aderiscono all'iniziativa di “Nessuno Tocchi Caino” che accompagna il digiuno deciso da Rita Bernardini per sollecitare un provvedimento d’urgenza del governo in merito alla grave situazione che si vive all’interno delle carceri italiane: sia per i detenuti che per gli agenti della polizia penitenziaria. Una situazione resa drammatica dall’escalation di suicidi, già 20, registrati dall’inizio del 2024. L’iniziativa non violenta di Rita Bernardini e di tutti coloro che si sono uniti con una staffetta al digiuno, ha l’obiettivo di dare voce a chi in prigione continua ad essere solo un numero, invece di essere coinvolto nel percorso di reinserimento previsto dalla nostra costituzione. Anche gli autonomisti sollecitano un intervento del governo nazionale per correggere un vulnus insopportabile.
"Il carcere – dichiara Sabrina Renna, esponente autonomista e componente del consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino - non deve essere una discarica sociale. Servono educatori, psicologi, occorre non abbandonare le persone ristrette perché in carcere entrano gli uomini, non i reati. Uscire morti dalla restrizione rappresenta una sconfitta per la convivenza civile".
"Anche il nostro movimento – prosegue Sabrina Renna - è in prima linea a difesa dell'articolo 27 della costituzione. Serve rispettare lo stato di diritto. Sergio D'Elia, Elisabetta Zamparutti, Rita Bernardini conducono una battaglia imprescindibile sulla giustizia che ho apprezzato e continuo ad apprezzare perché nutrimento del nostro patto sociale democratico".
(Fonte: Adnkronos, 20/02/2024)
AFGHANISTAN: DUE ESECUZIONI IN PUBBLICO PER OMICIDIO
I Talebani hanno giustiziato in uno stadio due uomini il 22 febbraio 2024, nel sud-est dell’Afghanistan, con migliaia di spettatori che hanno visto i parenti delle vittime uccidere con armi da fuoco i due condannati.
La Corte Suprema dei Talebani aveva stabilito in precedenza che i due fossero responsabili della morte per accoltellamento di due persone, in casi distinti.
I due giustiziati sono stati identificati come Syed Jamal della provincia centrale di Wardak e Gul Khan di Ghazni, anche se non è chiaro chi abbia materialmente accoltellato, se i due giustiziati o altri.
Secondo il comunicato della Corte Suprema, tre tribunali di grado inferiore e il leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada, hanno ordinato le esecuzioni come punizione per i loro crimini.
Il giorno dell’esecuzione, le persone si sono accalcate fuori dallo stadio, nella zona di Ali Lala della città di Ghazni, arrampicandosi per entrare, mentre esperti religiosi invitavano i parenti delle vittime a perdonare i condannati, senza successo.
Abu Abu Khalid Sarhadi, portavoce della polizia di Ghazni, ha detto che i parenti delle vittime hanno giustiziato i due uomini, senza precisare il tipo di armi usate.
Le esecuzioni sono iniziate poco prima delle 13:00. Sono stati sparati 15 proiettili, otto contro uno degli uomini e sette contro l'altro. Le ambulanze hanno poi portato via i loro corpi.
Le uccisioni sono state la terza e la quarta esecuzione pubblica da quando i Talebani hanno preso il potere nel 2021, dopo il caotico ritiro delle forze statunitensi e della NATO dall’Afghanistan.
Le Nazioni Unite hanno fortemente criticato i Talebani per aver effettuato esecuzioni pubbliche, frustate e lapidazioni da quando hanno preso il potere, e hanno invitato i governanti del Paese a porre fine a tali pratiche.
Durante il loro precedente governo in Afghanistan, alla fine degli anni '90, i talebani praticavano regolarmente esecuzioni, fustigazioni e lapidazioni pubbliche.
(Fonte: AP, 22/02/2024)
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