Nessuno tocchi Caino - ABOLIAMO I PREFETTI: LA BATTAGLIA DI EINAUDI E PANNELLA, LO STATO DI EMERGENZA ANTIMAFIA È DIVENTATO REGIME

Nessuno tocchi Caino newù

Anno 24 - n. 13 - 30-03-2024

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : ABOLIAMO I PREFETTI: LA BATTAGLIA DI EINAUDI E PANNELLA, LO STATO DI EMERGENZA ANTIMAFIA È DIVENTATO REGIME
2.  NEWS FLASH: L’ATTRAZIONE PER IL BOIA COLPISCE LAICI E TALEBANI
3.  NEWS FLASH: ALTRO CHE RIEDUCAZIONE, IL CARCERE SERVE A SODDISFARE LA SETE DI VENDETTA
4.  NEWS FLASH: YEMEN: PENA DI MORTE E CARCERE PER ‘SODOMIA’
5.  NEWS FLASH: IRAN: I ‘MARTEDÌ NERI’ DI SCIOPERO DELLA FAME IN CARCERE CONTRO LA PENA DI MORTE
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :


ABOLIAMO I PREFETTI: LA BATTAGLIA DI EINAUDI E PANNELLA, LO STATO DI EMERGENZA ANTIMAFIA È DIVENTATO REGIME
Sergio D’Elia su L’Unità del 28 marzo 2024

Il consiglio comunale di Africo è stato sciolto per mafia nel dicembre del 2019. Era composto da 12 ragazzi incensurati e da un sindaco studente universitario. La loro colpa? L’identità anagrafica, il rapporto di parentela, l’appartenenza a una comunità di poche anime nata col segno di Caino marchiato sulla fronte fino all’ultima discendenza di nomi e cognomi identici. Nessun delitto di sangue, nessuna appartenenza alla mafia. La colpa dei ragazzi del consiglio di Africo era di essere nati ad Africo.
Il comune di Siderno è stato sciolto da un Prefetto che appena lasciata la Calabria ha pubblicato un libro dal titolo “Prefetto in terra di ‘ndrangheta”. Quasi fosse il capo di una spedizione coloniale in una terra barbara da liberare dal male e condurre alla civiltà. Quel Prefetto “sceso” in Calabria con le armi e i bagagli dell’antimafia ha travolto anche un Sindaco, Pietro Fuda, che in tutta la sua vita, da militante comunista, sindacalista, senatore della Repubblica, la mafia l’aveva davvero combattuta. Con le armi del diritto e della coscienza e non con la terribilità di leggi speciali e d’emergenza.
Nell’aprile del 2017 questura e prefettura avevano delegato all’Amministrazione guidata da Paolo Mascaro l’organizzazione della Festa Provinciale della Polizia di Stato sino ad allora mai tenutasi in città. A novembre, su proposta della prefettura, il Consiglio Comunale di Lamezia Terme è stato sciolto. La colpa? Aver assegnato alla Caritas per trent’anni, previo bando pubblico, un bene confiscato alla criminalità organizzata. L’anomalia? La durata temporale della concessione: trent’anni erano troppi.
Il consiglio comunale di Sinopoli è stato sciolto per decreto il 1° agosto del 2019. Il pericolo mafioso consisteva nelle relazioni di parentela, affinità, frequentazioni tra amministratori e soggetti “controindicati” abitanti in un borgo di duemila anime in cui tutti sono parenti di tutti e amici di tutti.
Il Comune di Mezzojuso è stato sciolto in diretta TV. Nel corso dell’ennesima puntata trasmessa dalla piazza del paese di una delle telenovelas più lunghe dei talk-show italiani, il conduttore Massimo Giletti chiese all’allora Ministro degli Interni Matteo Salvini l’invio degli ispettori per una verifica di infiltrazioni mafiose. Come un imperatore che nell’arena con il pollice decide la vita o la morte secondo il volere del popolo, il Ministro inviò i commissari prefettizi e qualche mese dopo il Comune fu sciolto.
Il consiglio comunale di Monte Sant’Angelo è stato sciolto nel luglio del 2015 con la formula di rito: “condizionamenti della criminalità organizzata tali da alterare il libero esercizio delle funzioni politiche e amministrative”. Il Sindaco Antonio Di Iasio, una persona per bene lontana anni luce da logiche e pratiche criminali, non credeva a suoi occhi e ha subito pensato “avranno sbagliato Comune”, visto che una memoria dell’Avvocatura di Stato scritta per Monte Sant’Angelo, che è in provincia di Foggia, veniva presentata a firma della prefettura di Reggio Calabria.
L’eventuale scioglimento del Comune di Bari sarebbe l’ennesimo capitolo di una storia tutta italiana segnata tragicamente dal braccio violento della legge: la Giustizia che, nella sua raffigurazione classica, è personificata da Dike, la dea che in una mano brandisce una spada e con l’altra regge una bilancia. L’arma è in alto e incute timore, incombe minacciosa ed è pronta a colpire. La bilancia è in basso, i piatti a volte sono in perfetto equilibrio di bene e male, a volte sono impari, il torto predomina sulla ragione e, letteralmente, “torce” il “diritto”. E quando la giustizia tortura il diritto, inevitabilmente, tortura persone, violenta non solo la loro libertà e dignità, ma anche la loro vita.
Gli ultimi trent’anni di storia italiana possono essere autenticamente testimoniati solo da chi li ha vissuti nei luoghi deputati, giudiziari ed extragiudiziari, del potere di Dike: le questure, i tribunali e le carceri, ma anche le commissioni parlamentari e le prefetture del nostro Paese, che un tempo era detto “culla del Diritto” e che oggi ne è divenuto, ormai, la tomba.
Se apriamo le pagine di cronaca di un giornale o le pagine di un libro di Storia, non troveremo mai raccontate le vicende di un Paese alla luce dello stato del diritto, l’unico lume che può farci vedere davvero quanto è accaduto e continua ad accadere in Italia. Meno che mai sono raccontate le storie delle vittime – gli imprenditori espropriati dei loro beni, gli interdetti dai pubblici affari, i sindaci, gli assessori e i consiglieri comunali derubati del voto popolare – che hanno vissuto sulla propria pelle la morte del diritto che comporta ineluttabilmente la morte di persone e di popoli.
Negli ultimi trent’anni, abbiamo assistito al degrado dalla Costituzione formale, scritta dai nostri padri costituenti, alla costituzione materiale, riscritta e interpretata dai nostri governanti. A ben vedere, il passaggio degradante è stato dall’ordine giudiziario al potere giudiziario, dall’ordine democratico al potere burocratico, dallo Stato di diritto allo Stato dei Prefetti.
Ordine e potere non sono compagni, sono nemici. “Ordine” è sinonimo di “diritto”, legge fondamentale, armonia, equilibrio, insieme di cose diverse. Non “legge e ordine”, la legge è – voce del verbo essere – ordine, il principio d’ordine da cui tutto origina, che tutto lega e a cui tutto tende.
La “guerra dei trent’anni” dichiarata dall’Italia alla mafia non è ancora finita. Se la mafia non è più quella di una volta, criminale e stragista, se i capi dei capi sono morti o sepolti nel cimitero dei vivi, permane la setta religiosa che quella guerra ha ispirato e alimentato alimentandosene. La professione di fede antimafiosa non ammette tregua, deroga giuridica, tentennamento politico, eresia garantistica. Lo stato di guerra non può essere dichiarato finito. L’armamentario emergenzialista di leggi, misure, procedure e apparati speciali non può essere smantellato.
Questo stato di cose non è più un sistema, è un regime. Sì, di questo si tratta e così va chiamato: regime. Perché quando uno stato di guerra e di emergenza dura da così tanto tempo, dal momento che la durata è la forma delle cose, questa forma di stato – illiberale, antidemocratico e violento – diventa, tecnicamente, un regime. Così abbiamo definito, giustamente, il regime fascista, che è durato un ventennio.
Il nostro regime democratico di emergenza antimafia dura ormai da oltre un trentennio. Eppure, pochi si scandalizzano, quasi nessuno ne chiede la fine.
In questo trentennio di guerra di religione contro la mafia sono stati traditi i principi sacri, le norme universali, le regole fondamentali dello Stato di diritto, del giusto processo, della presunzione di innocenza. Ai processi e ai castighi penali sono stati affiancati e spesso preferiti processi sommari e castighi immediati e più distruttivi. Quelli delle misure di prevenzione, dei sequestri e delle confische personali e patrimoniali, che hanno minato la libertà di impresa e il diritto al lavoro, hanno spogliato della proprietà le imprese e a volte dei beni minimi essenziali intere famiglie. Quelli delle informazioni interdittive antimafia, delle black e delle white list prefettizie, che hanno stravolto il sistema di trasparenza e libera concorrenza e imposto il controllo di fatto sull’economia degli organi di governo sul territorio. Quelli dello scioglimento dei Comuni per mafia, che ha umiliato e marchiato per sempre le istituzioni rappresentative di base.
Pochi si rendono conto che l’annullamento per decreto del potere centrale della vita democratica di base – la competizione politica, la partecipazione popolare, le elezioni – trasmette un messaggio devastante: cioè, che la democrazia è un sistema superato, le istituzioni più vicine ai cittadini sono forme anacronistiche della vita politica. Quasi nessuno considera che lo scioglimento di un Comune per mafia ha il significato anche di infliggere, non solo al suo sindaco, alla giunta e al consiglio comunale, ma all’intera comunità, la “pena di infamia”, una pena che veniva comminata solo nel Medioevo. Con quel marchio, i dignitari perdevano la loro dignitas, venivano degradati al rango degli “infami”, di cittadini senza cittadinanza.
Vige in Italia un sistema di potere arbitrario, pieno e incontrollato di cui sarebbe ora di liberarsi. La giustificazione al suo permanere è sempre la stessa: la mafia è il male assoluto e il fine di combatterlo giustifica ogni mezzo. Anche se i mezzi che lo Stato usa a fin di bene assomigliano molto ai mezzi usati dall’anti-Stato a fin di male. Anche se segnano la fine dello Stato di diritto e il trionfo dello Stato di sospetto, il ritorno allo Stato dei Prefetti d’epoca fascista.
In nome dell’emergenza e del pericolo mafioso, il Prefetto è diventato il dominus assoluto e incontrastato sulla vita politica, economica, sociale e amministrativa a livello locale. Di fatto decide sull’esercizio dei diritti civili e politici di una comunità, sulla libertà di fare impresa, sul diritto al lavoro, sulla vita di imprenditori e lavoratori. In definitiva, sulla vita del diritto e sul diritto alla vita nel nostro Paese.
“Abolire i Prefetti!”. Sarebbe ora di riprendere la battaglia che fu di Luigi Einaudi, e dopo di lui anche di Marco Pannella, volta a superare questo retaggio del centralismo napoleonico, questa protesi del potere centrale e di occupazione dello Stato sulla più periferica forma di vita democratica, politica e civile.:

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

L’ATTRAZIONE PER IL BOIA COLPISCE LAICI E TALEBANI
Domenico Bilotti* su L’Unità del 23 marzo 2024

Siamo abituati a credere che l’abbandono della pena di morte sia tipico di società avanzatamente secolari e che la sua ignominiosa pratica derivi invece da contesti teocratici e confessionali. Sul piano storico, giuridico e religioso, ovviamente sappiamo che non è così. La pena di morte è tutt’oggi eseguita nella Repubblica popolare cinese – che adotta una costituzione ateistica e fortemente accentrata, dove ridotto è anche lo spazio per la libertà religiosa individuale. Sopravvive in non pochi Stati federali negli USA, che hanno una costituzione separatista, improntata al libero esercizio del culto e al divieto di sanzione ufficiale di qualsiasi fede. La applica l’Iran sciita come faceva lo Stato Islamico tra Siria e Iraq, ma molti Paesi prevalentemente musulmani sono almeno giunti a una abrogazione di fatto. Le condanne a morte non formalmente abolite sono tuttavia non irrogate nella pratica in paesi come l’Algeria, la Mauritania, il Mali e altri.
Il divide tra laicità e religiosità non è più sufficiente a descrivere correttamente la lotta nonviolenta e senza quartiere contro il boia di Stato. L’istituto demoscopico SWG documenta, in un report reso noto lo scorso 23 febbraio, che quasi un italiano su tre (circa il 31% degli intervistati) sarebbe favorevole al ritorno della pena di morte nel nostro Paese. Gli abolizionisti non arrivano al 60. Cosa determina tutto ciò: il nostro retaggio conformista, a volte bigotto? Il nostro aver tolto invece ogni sacralità alla vita? Se guardiamo le ipotesi di reato per cui i peones delle condanne vendicative sarebbero pronti a riarmare il boia, ci rendiamo conto che gli argomenti spirituali c’entrano davvero poco. C’è chi la propone, ad esempio, per il furto in abitazione. Quanto hanno contato le tendenziose, insistite, sciocche, polemiche che politici preparati ad arte imbastiscono scambiando con dolo legittima difesa e uso sproporzionato e privato della violenza e della forza? Per non parlare dello sciacallaggio su reati particolarmente esecrabili, quali la violenza sessuale avverso i minori, che però i corifei acchiappaconsensi risolvono sbraitando inapplicabili (e non producenti) proposte sulla castrazione chimica. Anche stavolta: non c’è dietro alcuna etica della sessualità, nessun effetto deterrente, nessuna idea educativa, nessuna presa sociale. Del resto, molti di quegli stessi agitatori dimostrano una concezione delle donne e della minore età che farebbe invidia ai mostri dell’horror anni Ottanta.
Parziali spinte controtendenziali non mancano, e quanto noi consideriamo periferia richiama una centralità democratica che meriterebbe ben altra attenzione. La piccola repubblica presidenziale dello Zimbabwe, dallo scorso febbraio, ha adottato di iniziativa parlamentare una commutazione universale delle condanne a morte in carcerazioni a vita – variamente emendabili in corso d’esecuzione con alcune forme di premialità. La popolazione è essenzialmente composta da cristiani convertiti, animisti e tribalisti. Dall’altro capo del mondo, la Louisiana, un tempo avamposto di controculture nella Cintura della Bibbia, sudista e repubblicana, ha invece autorizzato l’uso dell’azoto, ulteriormente liberalizzato la circolazione delle armi e nuovamente ristretto gli istituti della liberazione condizionale. Nel Giappone tenacemente non teista e imbevuto di cultura scintoista, a opporsi al boia sono soprattutto buddhisti, minoranze laiche, ex detenuti. La pena di morte per impiccagione
 è all’opposto trasversalmente difesa da cospicue correnti interne ai due partiti principali: sia la destra nazionalista del Partito Liberal Democratico sia i moderati del Partito costituzionale.
A ben vedere è perciò in atto ovunque nel mondo una pericolosa alleanza sistemica tra due culture uguali e contrarie: fondamentalisti e indifferenti si riscoprono complici e sodali nel cammino di abbattimento della dignità umana.
* Docente di diritto ecclesiastico, Università “Magna Graecia” di Catanzaro
Per saperne di piu' :

ALTRO CHE RIEDUCAZIONE, IL CARCERE SERVE A SODDISFARE LA SETE DI VENDETTA
Salvatore Aleo* su L’Unità del 23 marzo 2024

Ho studiato e insegnato diritto penale per quasi cinquant’anni e la mia considerazione del carcere è mutata nel tempo secondo l’evoluzione delle mie conoscenze e della mia sensibilità. Da giovane consideravo il carcere, da un punto di vista soprattutto etico, come un luogo crudele, dove vengono praticati trattamenti inumani e degradanti, dove vengono mortificati i corpi e le coscienze di persone nostri simili.
Più avanti ho valutato il carcere, da un punto di vista utilitaristico, come strumento poco utile o perfino disfunzionale rispetto al perseguimento degli obiettivi dichiarati. La violenza contrapposta alla violenza non la elide ma piuttosto la raddoppia, la riproduce e contribuisce a diffonderla socialmente e culturalmente. Il carcere non rieduca. I tassi di recidiva dei detenuti sono molto più alti dei soggetti condannati ammessi all’esecuzione penale esterna, anche se questi sono mediamente autori di reati meno gravi. Pensando all’immagine tradizionale della (cosiddetta) giustizia, mi piace pensare che sui due piatti della bilancia non vi siano il reato e la pena, che sono grandezze non confrontabili, ma bensì i cittadini che devono essere uguali di fronte alla legge.
Ancora più avanti, ho visto il carcere, da un punto di vista politico, essenzialmente come discarica sociale, come luogo dove ammassare e contenere umili derelitti e sfortunati: le classi pericolose. Dove non c’è nessuna chiave da buttar via, perché la botola della discarica è perfino priva di chiave come di uscita. Un terzo dei detenuti sono stranieri. Un terzo sono tossicodipendenti, dei quali un terzo di nazionalità straniera. Moltissimi sono i detenuti con problematiche psichiatriche, per i quali la struttura complessiva dell’apparato detentivo e penitenziario sembra inadatta e inefficace.
Diventato vecchio, mi sono convinto che una funzione del carcere sia di mantenere in piedi lo status culturale e istituzionale. Nel bilancio dello Stato sono previsti 3 miliardi 348 milioni 626 mila 567 euro per il mantenimento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che divisi per il numero attuale di circa 60.000 detenuti fanno 55 mila 810 euro per detenuto. Perciò possiamo dire che un detenuto costi a tutti noi circa cinquantaseimila euro l’anno. Proviamo a immaginare quante cose si potrebbero fare se ci dessero cinquantaseimila euro per ogni detenuto affidatoci da aiutare a riabilitarsi e reinserirsi in società. Occorre considerare che nel numero precedente non sono compresi gli emolumenti di avvocati, magistrati, poliziotti non penitenziari, cancellieri, professori di diritto, consulenti, che pure dovrebbero cercarsi un altro lavoro se il carcere fosse eliminato.
Nel 2014 feci un’esperienza di studio di diversi mesi nelle case circondariali di Bicocca, alta sicurezza, e piazza Lanza, media sicurezza, nella mia città di Catania, e pubblicai un libro che s’intitola Dal carcere. Autoriflessione sulla pena. Vidi le pene che avevo immaginato e molto molto di più. Scoprii, inoltre, le difficoltà e il disagio dei lavoratori del carcere. Una donna lavoratrice del carcere mi sottopose la considerazione che la società non riflette sul fatto che poi i detenuti il carcere glieli restituisce, spesso peggiori di prima, certamente non migliorati.
Autoriflessione sulla pena perché il problema va affrontato a partire dal sentimento e bisogno di vendetta di ciascuno di noi, a cominciare dunque da me. La pena può essere ritenuta il prolungamento logico e storico della vendetta. Il paradigma più essenziale della nostra teoria della responsabilità è fondato, in realtà, sulla vendetta, sul contrappasso. La nostra cultura sociale produce sentimenti di rivalsa e spirito di vendetta, che vengono corrisposti e soddisfatti da politiche per nulla utili a risolvere i problemi, ma rispondenti a bisogni primitivi considerati essenziali.
Oggi, risorse culturali e tecnologiche più avanzate consentirebbero tante soluzioni diverse e assai più efficaci. Non più la nozione di responsabilità ‘di’, una cosa passata, ma quella di responsabilità ‘per’, il futuro, per un progetto. Come facciamo per i nostri figli. Mi piace ricordare che quando re Ferdinando di Borbone abolì in Sicilia il Tribunale dell’Inquisizione (16 marzo 1782) il Senato di Palermo gli inviò una supplica (luglio 1780) affinché soprassedesse a quella abolizione, da cui «verrebbero a mancare molti impieghi che danno al presente e potrebbero dare in appresso di vivere decentemente a molti cittadini di ogni ceto e condizione». «Sono questi impieghi per la maggior parte occupati dagli abitanti di questa Capitale, e in quelli trovano il loro decente sostegno molte famiglie anche illustri, persone ecclesiastiche di riguardo, e vari altri soggetti di ogni ceto e condizione».
* Professore ordinario di diritto penale in quiescenza
 
YEMEN: PENA DI MORTE E CARCERE PER ‘SODOMIA’
Un tribunale Houthi il 23 gennaio 2024 ha condannato 32 uomini, 9 dei quali alla pena capitale, in un processo di massa basato su dubbie accuse di “sodomia”, ha reso noto Human Rights Watch il 27 marzo 2024.
Oltre alle nove condanne a morte, che includono la crocifissione e la lapidazione, il tribunale Houthi ha condannato 23 uomini al carcere per periodi fino a 10 anni.
Tre di loro sono stati condannati anche alla fustigazione pubblica.
L’accusa iniziale del tribunale, datata 17 ottobre 2023, includeva gravi violazioni del giusto processo e gravi violazioni dello stesso codice di procedura penale dello Yemen, ha riscontrato Human Rights Watch.
“In un abominevole disprezzo per lo stato di diritto, gli Houthi emettono condanne a morte e sottopongono gli uomini a maltrattamenti pubblici senza nemmeno una parvenza di giusto processo”, ha affermato Niku Jafarnia, ricercatore su Yemen e Bahrein presso Human Rights Watch.
“Gli Houthi stanno usando queste misure crudeli per distrarre dal loro fallimento nel governare e nel soddisfare i bisogni primari delle persone nei loro territori”.
Human Rights Watch ha esaminato le accuse formali contro i 32 uomini da parte dei tribunali Houthi e i video dei procedimenti giudiziari pubblicati sui social media e ha intervistato un avvocato che conosce il caso.
Tra le palesi violazioni del giusto processo risulta che gli agenti di polizia non abbiano esibito mandati di arresto e abbiano perquisito e confiscato illegalmente i telefoni degli uomini. L'avvocato ha messo in dubbio che gli accusati abbiano avuto accesso adeguato alla consulenza legale.
Human Rights Watch ha documentato gravi violazioni da parte dei governi del Medio Oriente e del Nord Africa, che prendono di mira persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) online e usano “foto digitali, chat e informazioni simili ottenute illegalmente” per perseguirle.
La legge yemenita di procedura penale, ai sensi degli articoli 132 e 172, vieta gli arresti senza mandato così come il sequestro degli effetti personali delle persone in custodia di polizia. L'articolo 181 vieta inoltre gli interrogatori della polizia senza la presenza di un avvocato.
Il gruppo armato degli Houthi ha preso il controllo della capitale dello Yemen, Sanaa, nel settembre 2014, provocando la fuga del governo yemenita riconosciuto a livello internazionale.
Gli Houthi, in quanto attore non-statale che esercita “il controllo de facto su un territorio e una popolazione”, sono obbligati a “rispettare e proteggere i diritti umani degli individui e dei gruppi” che vivono sotto il loro controllo.
Human Rights Watch ha anche documentato abusi sistematici nelle carceri Houthi. In un rapporto del 2023, il gruppo di esperti sullo Yemen del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha rilevato che “i prigionieri detenuti dagli Houthi sono sottoposti a torture psicologiche e fisiche sistematiche, compreso il rifiuto dell’intervento medico per curare le ferite causate dalle torture inflitte, che per alcuni prigionieri ha provocato invalidità permanenti e morte”.
Il 10 ottobre 2023, un altro tribunale gestito dagli Houthi nella città di Dhamar, un governatorato a sud di Sanaa, ha riconosciuto colpevoli 16 uomini di “atti immorali”, secondo l’accusa ufficiale esaminata da Human Rights Watch.
Secondo un post su X di al-Mashhad al-Yemeni, un sito di notizie locale, il 14 febbraio 2024, gli Houthi hanno radunato 30 uomini, inclusi i 16 uomini che erano stati condannati il 10 ottobre, in un cimitero di Dhamar, annunciando che avrebbero giustiziato gli uomini mediante lapidazione. Gli uomini sono stati invece riportati in carcere, secondo lo stesso sito di notizie locale.
Due attivisti e un avvocato hanno riferito a Human Rights Watch che le famiglie di diversi imputati sono fuggite dal governatorato di Dhamar per sfuggire allo stigma sociale associato alle accuse. Un altro attivista yemenita a conoscenza del caso ha affermato: “Incriminare e mettere sotto processo persone a causa di “atti immorali” ha conseguenze catastrofiche a lungo termine sulla vita delle persone nello Yemen, anche se sono inventate. Le persone accusate e le loro famiglie saranno colpite e stigmatizzate per sempre”.
Gli Houthi hanno ripetutamente arrestato persone che hanno criticato le loro politiche con il pretesto di aver “commesso atti immorali”, ha affermato Human Rights Watch.
Nel gennaio 2024, gli Houthi hanno arrestato il giudice Abdulwahab Qatran con accuse di aver consumato alcolici, dopo che il giudice aveva criticato sui social media gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso.
Nel 2021, un tribunale Houthi ha condannato al carcere una modella e attrice yemenita, Intisar al-Hammadi, e altre tre donne, dopo averle condannate con l'accusa di aver commesso "un atto indecente".
Euro-Mediterranean Human Rights Monitor afferma che gli Huthi hanno condannato a morte 350 persone da quando hanno preso la capitale nel 2014 e ne hanno giustiziate 11.
(Fonte: Human Rights Watch, 27/03/2024)

IRAN: I ‘MARTEDÌ NERI’ DI SCIOPERO DELLA FAME IN CARCERE CONTRO LA PENA DI MORTE
I prigionieri politici di cinque carceri iraniane, che da sette settimane partecipano a scioperi della fame di massa contro la pena di morte, hanno chiesto il sostegno di "tutte le coscienze vigili e delle persone libere".
Secondo le informazioni ottenute da Iran Human Rights, i prigionieri politici del carcere di Ghezel-Hesar, del carcere di Evin, del penitenziario di Karaj, del carcere centrale di Mashhad e del carcere centrale di Khorramabad hanno iniziato ogni martedì uno sciopero della fame contro l'applicazione della pena di morte.
Lo sciopero della fame è stato avviato dai prigionieri politici della prigione di Ghezel-Hesar, ad Alborz, dove vengono eseguite esecuzioni collettive su base settimanale dopo la chiusura della prigione di Rajai Shahr (Gohardasht), avvenuta la scorsa estate.
Il primo sciopero della fame ha avuto luogo il 29 gennaio 2024, in quello che è diventato noto come "Martedì nero", dopo che i funzionari del carcere hanno represso le proteste contro la pena di morte nella prigione.
Nel corso delle ultime sette settimane, i prigionieri politici di altre quattro grandi carceri si sono uniti agli scioperi su base settimanale.
Nel 2023, almeno 834 persone sono state giustiziate in Iran, con 7 impiccagioni effettuate in spazi pubblici.
La seguente dichiarazione è stata rilasciata l'ultimo martedì dell'anno solare iraniano (19 marzo del calendario gregoriano), che segna l'ottavo “martedì nero”.
Al nobile e libero popolo dell'Iran,
Noi, un gruppo di prigionieri, siamo in sciopero della fame ogni martedì da sette settimane per protestare contro l'emissione di sentenze capitali ed esecuzioni e per fermare la macchina delle uccisioni e delle esecuzioni.
Oggi, l'ultimo martedì dell'anno, mentre scioperiamo per l'ottava settimana, ricordiamo tutte le vittime del sistema di repressione della tirannia religiosa, in particolare quelle giustiziate.
L'obiettivo della nostra campagna "Martedì nero" e degli scioperi della fame settimanali è quello di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica sul fatto che "la pena di morte è un omicidio di Stato, è una punizione irreversibile e uno strumento di repressione e intimidazione del dispotico governo di minoranza che governa il Paese".
Siamo profondamente grati per il sostegno di tutti coloro che hanno aderito alla campagna dei "Martedì neri" per "No alla pena di morte" e sono diventati le nostre voci.
Ora, alla vigilia del nuovo anno e dell'arrivo della primavera della natura, porgiamo i nostri saluti a tutti i nostri compatrioti e ci auguriamo che il nuovo anno sia l'anno della vittoria del popolo iraniano e della realizzazione della libertà e della giustizia. E presto, in una società libera da discriminazioni, violenza, tirannia e sfruttamento, emergerà un sistema che garantisca i diritti umani a tutti i cittadini e saranno aboliti ordini medievali come la pena di morte.
Siamo fiduciosi che non sia lontano il giorno in cui il popolo iraniano otterrà il potere democratico di determinare il proprio destino e nessun cittadino sarà soggetto a oppressione e ingiustizia a causa della propria opinione. Ma fino a quel giorno, consideriamo nostro dovere morale continuare a protestare contro la pena di morte da dietro le sbarre anche l'anno prossimo, e chiediamo a tutte le coscienze vigili e alle persone libere di sostenere la nostra campagna.
Infine, alla luce dei recenti rapporti presentati al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite e della necessità di condannare a livello internazionale le violazioni dei diritti umani e le esecuzioni in Iran, crediamo che la vittoria del popolo e il raggiungimento della giustizia non siano possibili se non attraverso l'unità e la solidarietà del popolo iraniano. Nel caso della pena di morte, sottolineiamo la necessità di unità e azione collettiva per fermare le esecuzioni a prescindere dalle opinioni, dalla nazionalità, dall'etnia, dalla religione e dal tipo di accuse, e chiediamo il sostegno di tutte le coscienze libere in Iran e nel mondo per percorrere questo difficile cammino.
Un gruppo di prigionieri in sciopero della fame del "martedì nero" nelle carceri di Ghezel-Hesar, Evin, Karaj, Mashhad e Khorramabad.
(Fonte: IHR, 20/03/2024)

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