Nessuno tocchi Caino - ARABIA SAUDITA, ALMENO PER UN GIORNO LA GIUSTIZIA DELLA SPADA È STATA TEMPERATA DALLA GRAZIA

 Nessuno tocchi Caino news

Anno 24 - n. 16 - 20-04-2024

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : ARABIA SAUDITA, ALMENO PER UN GIORNO LA GIUSTIZIA DELLA SPADA È STATA TEMPERATA DALLA GRAZIA
2.  NEWS FLASH: IL LAVORO DEI DETENUTI NON PUÒ ESSERE FORZATO O MAL REMUNERATO, AFFERMA UNA STORICA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI ROMA
3.  NEWS FLASH: MALESIA: 54 CONDANNE CAPITALI COMMUTATE IN CARCERE DA 30 A 38 ANNI
4.  NEWS FLASH: MAROCCO: CONDANNATO A MORTE IL PRINCIPALE IMPUTATO PER L’OMICIDIO DELLO STUDENTE UNIVERSITARIO BADR
5.  NEWS FLASH: GIAPPONE: NOTIFICA DELLE ESECUZIONI NELLO STESSO GIORNO, RESPINTO IL RICORSO
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :


ARABIA SAUDITA, ALMENO PER UN GIORNO LA GIUSTIZIA DELLA SPADA È STATA TEMPERATA DALLA GRAZIA
Articolo di Sergio D’Elia

In Arabia Saudita la giustizia è fuor di metafora esattamente quella raffigurata nel mito. La dea bendata ha la bilancia in una mano e la spada nell’altra. La bilancia è in perfetto equilibrio: il castigo è pari al delitto, occhio per occhio, una vita per una vita. È la dura legge del qisas, la retribuzione in natura. La sua formula è arcaica e perfetta, elementare e aritmetica, come quella di un baratto. La spada che Dike brandisce in una mano non è solo un monito, non incute solo timore, essa si abbatte realmente e inesorabilmente sulla testa dell’assassino, e la mozza.
Il 2023 è stato un anno di grande spargimento di sangue nel Regno saudita. La spada del boia si è abbattuta senza pietà su 172 teste poggiate sui ceppi all’ombra della moschea principale nel luogo del delitto.
Il ritmo della spada non si è placato con l’anno nuovo. Nei primi due mesi del 2024 l’Arabia Saudita ha già decapitato 36 persone, 10 delle quali sono state processate in base alla famigerata legge antiterrorismo istitutiva del tribunale penale specializzato.
La promessa rinascimentale di un nuovo Regno di Dio sulla terra dei Saud, è stata subito tradita dal principe ereditario Mohammad bin Salman. Aveva promesso che sarebbe finito l’uso politico della pena di morte e che le decapitazioni sarebbero state limitate ai casi in cui una persona ne uccide un’altra. Invece, da quando è entrato in carica nel 2017, le esecuzioni sono aumentate dell’82%, sono proseguite anche quelle dei minori di 18 anni al momento del fatto, quelle per reati non violenti e quelle nei confronti di pacifici oppositori politici e obiettori di coscienza.
Ma nella cupa realtà medievale del Regno, un raggio di luce ogni tanto filtra dalle tenebre della terribilità della pena capitale tramite decapitazione, e annuncia una nuova era orientata ai valori umani.
La speranza emerge non dalla grazia di Dio riposta nelle mani del potere dei Saud, che regnano col pugno di ferro e con la spada, ma dalla forza della coscienza dei sudditi sauditi, parenti di vittime di reato illuminati dalla grazia nei confronti dei loro carnefici. Nei casi di qisas, la restituzione in forma e natura eguale e contraria, i parenti della vittima hanno il potere di esigere l’esecuzione, chiedere un risarcimento o concedere il perdono senza nulla in cambio.
Il 7 aprile scorso, almeno per un giorno, la giustizia della spada è stata temperata dalla grazia, la legge del taglione sospesa dal diritto alla vita.
In una straordinaria dimostrazione di senso di umanità, il cittadino saudita Ati Al Maliki della Mecca ha concesso il perdono all’assassino condannato per aver ucciso il figlio Abdullah.
La grazia, donata pochi giorni prima dell’esecuzione prevista per il 17 aprile, è arrivata in modo del tutto gratuito, senza alcuna richiesta di compensazione, senza la diya, il prezzo del sangue. Il momento toccante è stato catturato in un video diventato subito virale, in cui Al Maliki ha annunciato pubblicamente la sua decisione di graziare Shaher Dhaifallah Al Harithi, il giovane colpevole della morte del suo adorato figlio.
L’atto di clemenza, mostrato durante il mese sacro del Ramadan, ha avuto una profonda risonanza tra gli spettatori. L’annuncio ha attirato attorno ad Al Maliki una folla enorme, che ha espresso ammirazione e gratitudine per il suo atto di compassione. Questa scena commovente si è svolta la notte del 27° giorno di Ramadan, un periodo significativo spesso associato alla benedetta Notte del Destino. Il fatto ha suscitato elogi diffusi sulle piattaforme dei social media, con molti che hanno elogiato la dimostrazione di compassione ed empatia di Al Maliki in un Paese dove le persone condannate per omicidio premeditato in genere rischiano la decapitazione.
L’atto di misericordia di Al Maliki ha significato un potente richiamo dei valori del perdono e della compassione, soprattutto durante un sacro momento di riflessione e rinnovamento spirituale in un luogo, La Mecca, il più sacro dell’Islam, in un Regno, quello saudita, uno dei più boia al mondo, dove si continua a dettare legge con la sharia e fare giustizia con la spada.

Per molti la parola “perdono” evoca sentimenti, soggetti e atti diversi: la colpa e la pena, la vittima e il carnefice, il peccato e l’assoluzione. Poi c’è il suo senso originario, laico, universale: il per-dono, come lo intende ad esempio Daniel Lumera, l’attitudine cioè a riconoscere e onorare la vita in ogni sua manifestazione come un Dono. Il potere della guarigione e della rinascita dei processi di perdono, sarà questo il tema della Giornata Internazionale del Perdono che una delle creature di Daniel Lumera, My Life Design, organizza il 6 maggio prossimo a Fondi. Saranno presenti, insieme a vittime di reato, anche alcuni detenuti di Opera che con Nessuno tocchi Caino hanno scelto di cambiare vita, incarnare la speranza, nonostante la loro condanna a vita, alla pena senza speranza.


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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

IL LAVORO DEI DETENUTI NON PUÒ ESSERE FORZATO O MAL REMUNERATO, AFFERMA UNA STORICA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI ROMA
Giorgio Marchetti*

Nel carcere di Ancona-Montacuto a un detenuto disabile al 100% era stato assegnato un altro detenuto quale assistente alla persona per coricarsi e alzarsi dal letto, lavarsi, cucinare e consumare i pasti e, più in generale, per fornirgli aiuto fisico, attività svolta per 16 mesi tra il 2021 e il 2022 e retribuita pari mediamente a 3 ore di lavoro al giorno ancorché il servizio si protraesse oltre tale orario, sovente anche la notte. Nonostante le rimostranze per l’ingiusto trattamento retributivo, l’Amministrazione penitenziaria faceva orecchie da mercante. Spazientito, il detenuto-lavoratore in prossimità del fine pena si era rivolto al proprio legale, chi vi scrive, al fine di agire giudizialmente per ottenere la giusta retribuzione per le ore effettivamente lavorate.
Con una sentenza coraggiosa, come pure ne sono intervenute altre negli ultimi tempi da parte dei tribunali del lavoro nazionali, il Tribunale di Roma, Sezione lavoro (territorialmente competente per le cause contro il Ministero), dott.ssa De Renzis, con Sent. n. 3573/2024 del 22 marzo scorso, ha contribuito a porre una cesura a questo diffuso malcostume, a tacer di illiceità, e condannava il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di euro 12.636 a integrazione della retribuzione per le ore lavorate e non pagate oltre alle ferie maturate e agli interessi nonché al pagamento delle spese di lite pari a 3.223 euro, motivando la decisione: “va posto in rilievo che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, ma va remunerato secondo quanto previsto dalla legge n. 354 del 1975, contenente Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà (articoli 20 e 22). Va, pertanto, riconosciuto il diritto del ricorrente
  al pagamento delle differenze retributive per le ore effettivamente lavorate”.
La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2 ottobre 2018 (D.lgs. 124/2018) ha interessato anche il lavoro carcerario in tutti i suoi aspetti. All’art. 2 si enuncia che negli istituti penitenziari e nelle strutture ove siano eseguite misure privative della libertà devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale.
Viene fissato il principio per cui il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, non è obbligatorio ed è remunerato; l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale, ciò anche in ossequio all’articolo 1 della Costituzione; la remunerazione è quella prevista dagli ordinari contratti collettivi e accordi sindacali sebbene ridotta di un terzo.
Tra le altre modalità, è previsto il lavoro intramurario, che è quasi sempre domestico alle dipendenze dell’amministrazione e consiste nello svolgimento di attività necessarie alla gestione materiale degli istituti: barberia, cucina, lavanderia, distribuzione dei pasti, assistenza alla persona per i detenuti disabili e così via. Ci sono poi le mansioni classiche che appartengono alla MOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati): idraulici, imbianchini, muratori.
Il lavoro intramurario è molto appetibile dai detenuti, che riescono così a incamerare denaro per rendersi la vita più agevole durante la detenzione, destinare qualche somma ai familiari o mettere da parte piccoli risparmi da utilizzare dopo il fine pena; esso si colloca nell’ambito delle risorse trattamentali al fine di responsabilizzare il detenuto e contribuire alla sua risocializzazione, ciò che costituisce la finalità della pena.
Per questo motivo la legge correda il più possibile di diritti il lavoro penitenziario, in specie quello intramurario, al precipuo scopo di affermare la dignità della persona e del lavoro, diritto non scalfito dallo stato di detenzione. Allora, tra gli elementi rilevanti affinché il lavoro risulti dignitoso, emerge in primis la giusta retribuzione delle prestazioni effettuate. Dopo questo ulteriore inequivocabile arresto della giurisprudenza, confidiamo tutti in un maggior rispetto della legge da parte dell’Amministrazione penitenziaria in ossequio alle regole che lo Stato stesso si è dato.
* Avvocato del foro di Macerata

MALESIA: 54 CONDANNE CAPITALI COMMUTATE IN CARCERE DA 30 A 38 ANNI
Un totale di 54 prigionieri si sono salvati dall’impiccagione in Malesia dopo che la Corte Federale, riunitasi il 18 aprile 2024 presso l'Alta Corte di Kota Baru, ha commutato le loro condanne capitali in reclusione per periodi compresi tra 30 e 38 anni.
Il collegio di tre giudici guidato da Tun Tengku Maimun Tuan Mat con decisione unanime ha revocato la pena di morte per tutti e 54 i detenuti, che erano stati precedentemente condannati in casi di omicidio e droga.
Per i casi di droga ciascuno di loro è stato condannato a 30 anni di carcere, mentre per i casi di omicidio le condanne vanno da 35 a 38 anni.
La decisione è stata presa dopo che la Corte ha accolto le richieste presentate da tutti i prigionieri in conformità con la sezione 3(1) della Legge 2023 sulla Revisione delle Condanne a morte e al Carcere a Vita (Giurisdizione Temporanea della Corte Fjmederale).
Oltre a Tun Tengku Maimun, gli altri giudici erano Tan Sri Abang Iskandar Abang Hashim e Datuk Nordin Hassan.
L'udienza presso l'Alta Corte del 17 e 18 aprile ha riguardato sei casi di omicidio, ai sensi della sezione 302 del codice penale, e 48 casi di droga ai sensi della sezione 39B del Dangerous Drugs Act del 1952.
Il 17 aprile sono stati trattati cinque casi di omicidio e 23 casi di droga, mentre il 18 aprile sono stati trattati un caso di omicidio e altri 25 casi di droga.
La pubblica accusa è stata svolta dai vice pubblici ministeri Mohd Fuad Abdul Aziz e Norzilati Izhani Zainal@Zainol, mentre i detenuti erano rappresentati da avvocati nominati dalla corte.
(Fonte: Nst, 18/04/2024)

MAROCCO: CONDANNATO A MORTE IL PRINCIPALE IMPUTATO PER L’OMICIDIO DELLO STUDENTE UNIVERSITARIO BADR
La sezione penale della Corte d'Appello di Casablanca il 16 aprile 2024 ha condannato a morte il principale imputato nel caso dell’omicidio dello studente universitario Badr.
Il principale imputato, Ashraf S., era stato accusato di omicidio intenzionale, tentato omicidio premeditato, partecipazione a rapina in circostanze aggravate e uso di violenza.
Il secondo imputato, Ahmed R., che ha confessato di essere il conducente del veicolo che ha investito Badr, è stato condannato all’ergastolo.
Un terzo complice, che è un ex soldato, è stato condannato a 20 anni di reclusione, con altri 25 anni di carcere dati a un quarto imputato coinvolto.
Infine, una condanna a cinque anni è stata comminata al genero del principale imputato, per averlo aiutato a fuggire, trasportandolo da Casablanca a Laayoune, dopo l'uccisione di Badr.
È stato inoltre concesso un risarcimento alla famiglia della vittima e alle altre persone colpite dal crimine. Si tratta di 500.000 Dirham (49.100 dollari) per i genitori della vittima, 100.000 Dirham (9.800 dollari) per le sue sorelle e 30.000 Dirham (2.900 dollari) per altre parti che hanno chiesto risarcimenti.
La famiglia di Badr ha espresso sollievo dopo la sentenza.
La madre, in particolare, era visibilmente emozionata e ha faticato a trattenere le lacrime mentre parlava ai media fuori dall'aula.
Ha affermato che il verdetto ha portato un senso di chiusura e rassicurazione sul fatto che giustizia sia stata fatta per Badr.
Nel frattempo, la sorella della vittima ha ringraziato la corte per la sua “equità”, dicendo: “Ero fiduciosa che il verdetto sarebbe stato giusto, e questo ci dà un po’ di sollievo dal dolore legato alla perdita [di Badr]”.
L’omicidio avvenne la notte del 30 luglio 2023, quando Badr e i suoi amici furono coinvolti in uno scontro con cinque uomini nel parcheggio di un fast-food a Casablanca.
Uno degli uomini ha aggredito Badr durante l'alterco, facendogli perdere i sensi. Mentre gli amici di Badr cercavano di aiutarlo, gli aggressori li hanno investiti deliberatamente con la loro auto, provocando la morte della vittima e il ferimento dei suoi amici.
L’uccisione di Badr è stata ripresa in un video e diffusa online, suscitando indignazione in tutto il Marocco.
(Fonte: Morocco World News, 17/04/2024)
Per saperne di piu' :

GIAPPONE: NOTIFICA DELLE ESECUZIONI NELLO STESSO GIORNO, RESPINTO IL RICORSO
Il tribunale distrettuale di Osaka Il 15 aprile 2024 ha rigettato una causa intentata da detenuti nel braccio della morte secondo i quali le notifiche di esecuzioni effettuate nello stesso giorno violano la Costituzione. Si tratta della prima pronuncia di questo tipo.
I detenuti hanno intentato una causa contro il governo nella speranza di innescare una discussione più ampia sui diritti dei prigionieri nel braccio della morte.
Hanno anche chiesto un risarcimento di 22 milioni di yen e intendono ricorrere a un tribunale di grado superiore.
Il presidente del tribunale Noriko Yokota ha affermato che la posizione sociale dei due querelanti – essendo condannati a morte – non consente loro di evitare l'esecuzione quando verranno avvisati.
Yokota ha inoltre affermato che i querelanti “sono nella posizione di accettare l’esecuzione secondo l’attuale legislazione sulla pena di morte”. Ha respinto la loro richiesta di risarcimento, affermando che ciò avrebbe praticamente annullato le loro condanne a morte.
La sentenza non precisa se le notifiche effettuate nello stesso giorno siano costituzionali o meno.
I ricorrenti hanno sostenuto che avvisare i condannati a morte una o due ore prima della loro esecuzione non lascia loro il tempo di inoltrare un ricorso e viola il diritto a un giusto processo garantito dall'articolo 13 della Costituzione.
Hanno detto che “vivono all’inferno” poiché passano ogni giorno senza sapere quando verranno giustiziati.
Yuko Shiota, del Centro per i diritti dei prigionieri, ha affermato che in passato i condannati a morte venivano informati dell’esecuzione qualche giorno prima. Tuttavia, si è giunti alla notifica nello stesso giorno perché alcuni detenuti si sono tolti la vita dopo essere stati informati del programma, ha detto.
Un problema chiave con l’attuale politica, ha detto Shiota, sono i casi in cui individui ingiustamente condannati a morte chiedono un nuovo processo, il che può costituire una procedura lunga.
"Se la persona viene informata con diversi giorni di anticipo, l'avvocato può andare a trovare il detenuto... e può presentare ricorso per motivi legati ai diritti umani", ha detto. “Avrebbero anche il tempo di salutare la famiglia e gli amici”.
In un esempio di alto profilo, Iwao Hakamata è stato nel braccio della morte per più di 30 anni per un caso di omicidio del 1966 fino a quando l'Alta Corte di Tokyo ha rinviato il caso al tribunale distrettuale per un nuovo processo l'anno scorso, sollevando la possibilità di un esonero.
Hakamata è stato liberato e il processo è attualmente in corso presso il tribunale distrettuale di Shizuoka.
In Giappone, alla fine di marzo, i prigionieri del braccio della morte erano 109. L’ultima esecuzione nel Paese risale a luglio 2022, quando Tomohiro Kato è stato giustiziato per un omicidio di massa avvenuto a Tokyo nel 2008, nel distretto di Akihabara.
(Fonte: Japantimes, 15/04/2024)

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