Nessuno tocchi Caino - LA CORTE AFRICANA DÀ UN ULTIMATUM ALLA TANZANIA: ABOLIRE LA PENA DI MORTE

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 NEWS FLASH

1. GIUSEPPE DI BENEDETTO, DETENUTO A OPERA, CI HA LASCIATI. UNA MORTE PER PENA, INUTILMENTE ANNUNCIATA
2. TUTTI CE LE INVIDIANO PERÒ NESSUNO LE VUOLE: BASTA MISURE DI PREVENZIONE!
3. RISCHIA LA PENA DI MORTE SE ESTRADATO IN PAKISTAN: LA CASSAZIONE ANNULLA L’ARRESTO PREVENTIVO
4. USA: ATTIVISTI SOLLECITANO BIDEN AD UN PROVVEDIMENTO DI CLEMENZA




LA CORTE AFRICANA DÀ UN ULTIMATUM ALLA TANZANIA: ABOLIRE LA PENA DI MORTE
Sergio D’Elia

Nzigiyimana Zabron e Dominick Damian hanno passato dodici anni nel cimitero dei vivi, il braccio della morte della prigione centrale di Butimba, una struttura di massima sicurezza vicino a Mwanza. Come in altri centri di detenzione della Tanzania, le celle sono sovraffollate, le guardie abusano fisicamente dei prigionieri e le condizioni sanitarie sono disastrose. L’accesso al cibo, all’acqua e alle cure mediche è un lusso che nessuno si può permettere. Nelle condizioni miserabili di vita a Butimba, pena di morte, pena fino alla morte o morte per pena sono vicende esistenziali distinte solo sulla carta.
Due reati comportano la pena di morte in Tanzania: omicidio e tradimento. La legge in caso di omicidio non ammette attenuanti, la pena è solo una, obbligatoria, inesorabile: la morte. L’articolo 197 del codice penale è lapidario: “Una persona condannata per omicidio sarà condannata a morte”. Anche il metodo di esecuzione non consente alternative. L’articolo del codice è più descrittivo ma il modo di uccidere è uno e uno solo: la forca. “Quando una persona è condannata a morte, la sentenza deve disporre che subisca la morte per impiccagione”.
Contro tanta certezza della pena e voglia di tirare il collo ai condannati da parte del potere giudiziario in Tanzania, i due prigionieri del braccio della morte hanno chiesto aiuto alla più alta corte dell’Africa. Il 4 giugno scorso, la Corte Africana dei Diritti Umani e dei Popoli ha risposto all’appello. È stato un vero e proprio ultimatum nei confronti dello Stato-boia. Il tribunale di Arusha ha sottolineato che la pena capitale obbligatoria costituisce una violazione della Carta africana e ha concesso al Paese sei mesi di tempo per rimuoverla dai suoi statuti legali. Quanto al mezzo di esecuzione, il tribunale supremo del continente africano ha bollato l’impiccagione come una forma di tortura.
Nei casi di Zabron e Damian, il tribunale africano ha respinto i ricorsi per l’annullamento totale delle loro condanne. La colpevolezza era stata stabilita oltre ogni ragionevole dubbio nei rispettivi procedimenti giudiziari senza alcuna prova di “errore giudiziario”. Ma ha stabilito che le loro condanne a morte per impiccagione devono essere revocate immediatamente, che i detenuti devono essere spostati dal braccio della morte e che le udienze per una nuova sentenza si dovranno tenere entro un anno “attraverso una procedura che non consente l’imposizione obbligatoria della condanna a morte e che rispetti il potere discrezionale del giudice”. Ha affermato inoltre che la condanna a morte obbligatoria ai sensi dell’articolo 197 del Codice penale della Tanzania “costituisce una privazione arbitraria del diritto alla vita” e viola l’articolo 4 della Carta africana poiché non consente al giudice la “discrezionalità di comminare qualsiasi altra pena una volta accert ato il reato di omicidio”. La Corte ha inoltre deplorato l’impiccagione come metodo di esecuzione della pena di morte, affermando che si tratta di “una forma di tortura e di trattamento crudele, inumano e degradante che viola l’articolo 5 della Carta”. Ha affermato che le violazioni contro il diritto alla vita accertate in entrambi i ricorrenti “si sono estese oltre i loro casi”. Anche perché, attualmente, oltre 490 persone rimangono nel braccio della morte tanzaniano in attesa dell’esecuzione delle loro condanne a morte emesse dai tribunali nazionali.
La Corte continentale ha richiesto allo Stato di pubblicare le due sentenze, entro tre mesi e poi ininterrottamente per un anno intero, sui siti web del ministero degli affari giudiziari e legali. La sentenza-ultimatum in questa forma di bando pubblico è giunta dopo diversi ordini simili emessi negli ultimi anni nei confronti della Tanzania. Lo Stato aveva fatto orecchie da mercante e la pena di morte tramite impiccagione era rimasta sancita nel codice penale del Paese. Nonostante la Tanzania sia circondata da vicini che hanno abolito la pena di morte obbligatoria, tra cui Kenya, Uganda, Malawi, Mozambico e Zambia. Nonostante l’ultima esecuzione in Tanzania sia avvenuta trent’anni fa, sotto il presidente Ali Hassan Mwinyi nel 1994. Dopo di lui, nessun mandato di esecuzione è stato firmato dal presidente Benjamin Mkapa, dal presidente Jakaya Kikwete e dal presidente John Magufuli che prima di morire aveva inaugurato una politica di clemenza volta anche ai prigionieri nel braccio della morte.
Il mese scorso, il presidente in carica, Samia Suluhu Hassan, ha concesso l’amnistia a 1.082 prigionieri. Tra loro c’erano 20 prigionieri nel braccio della morte le cui condanne sono state commutate in ergastolo. Questo corso positivo della storia della Tanzania dovrebbe continuare e, alla fine, portare a cancellare la pena di morte dalla legislazione del Paese. Come chiede la suprema corte dei diritti umani e dei popoli, la prima linea del fronte della crescente opposizione in Africa all’ultimo, terribile retaggio dell’era coloniale.



NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

GIUSEPPE DI BENEDETTO, DETENUTO A OPERA, CI HA LASCIATI. UNA MORTE PER PENA, INUTILMENTE ANNUNCIATA
Maria Brucale*

Era il gennaio 2022. Giuseppe, detenuto nel carcere di Milano Opera, cade nella propria cella e viene ricoverato di urgenza in stato di incoscienza. L’esito è un “trauma cranico con ecchimosi periorbitale destra e contusione periorbitale sinistra e una frattura delle ossa nasali”. Non è la prima volta che succede. Giuseppe è affetto dal morbo di Parkinson, oltre a tante altre patologie che rendono la sua vita detentiva una costante sofferenza e comportano la necessità dell’affidamento completo alla pietà e al buon cuore del suo compagno di cella, Giovanni, che ne ha cura, lo lava, lo veste, si occupa di lui in tutte le necessità del quotidiano, anche nei bisogni fisiologici, come un infante.
Giuseppe partecipa ai laboratori di Nessuno Tocchi Caino. Arriva in sedia a rotelle spinto dal suo compagno e sta in prima fila, alla destra del palco del teatro intitolato a Marco Pannella. Parla con molta fatica e risulta pressoché inintelligibile quel che dice. Ma è lì, ascolta, finché ne ha la forza. Poi il suo compagno lo riaccompagna in cella. È detenuto dal 1990, Giuseppe, ininterrottamente, con una condanna all’ergastolo per gravissimi fatti di reato e un carattere ruvido e ombroso. Le relazioni di sintesi, poche e prodotte a distanza di molti anni le une dalle altre, parlano di un comportamento a volte oppositivo e discontinuo. Certo non è facile la vita di relazione per chi soffre la prigione del proprio corpo malato oltre a quella della reclusione.
Eppure un giorno, ormai di molti anni fa, Giuseppe è stato protagonista insieme ad Antonio Aparo, anche lui ristretto a Opera, che lo ha raccontato [https://www.nessunotocchicaino.it/notizia/ago-e-filo-piegato-su-uno-sgabello-cosi-provo-a-ricucire-la-mia-vita-60348097]
, di un luminoso miracolo di riconciliazione. Antonio e Giuseppe erano contrapposti in una faida di morte ormai trentacinque anni fa. Antonio aveva vissuto lunghi anni al 41 bis e aveva saputo superare l’orrore della sua storia passata ma nel suo cuore batteva ancora un sentimento di vendetta per quell’ uomo, Giuseppe, che aveva tolto la vita a suo fratello. Fuori dal baratro del 41 bis, però, se lo era visto davanti nel carcere di Voghera, malato e tremante, sconfitto, come lui, dai propri terribili sbagli e si erano ritrovati fratelli, figli della stessa caduta e ormai non più nemici, ad abbracciarsi. Un gesto meraviglioso di riparazione, di riconoscimento nell’ altro di sé stessi. “Antonio, Antonio, sei t u?». Aveva detto Giuseppe nel vederlo. Una invocazione di amore e di reciproco perdono di due uomini compagni nella atroce condizione del delitto e ora del dolore della pena e nel superamento del male del lontano passato.
Ormai però la detenzione per Giuseppe era solo afflizione, sconforto, mutilazione di dignità. Non poteva aspirare a recuperare una dimensione di vita libera e produttiva, a riabilitare, a reinserire. Serviva solo a resistere alla malattia, confidando nell’ aiuto degli altri ristretti per l’igiene, il controllo, l’alimentazione, la vita stessa, senza il conforto dei propri cari, temendo l’esito della successiva rovinosa perdita di equilibrio che per un uomo malato, non deambulante, sovrappeso e assai spesso non padrone del proprio corpo poteva risultare letale.
Inutile l’istanza del difensore rivolta al tribunale di sorveglianza per permettergli di tornare a casa, in detenzione domiciliare. È ancora pericoloso, si legge nel provvedimento di rigetto, e le sue condizioni di salute sono adeguatamente curate in carcere anche col ricorso ai presidi esterni. Giuseppe resta così recluso, a espiare una pena inutile e ormai solo punitiva e afflittiva finché arriva la notizia di quell’ultima quanto prevedibile caduta che ha spento i suoi giorni e consumato le sue ultime ore di solitudine, nella assenza del calore e delle carezze dei propri affetti, nel silenzio di una cella. Una pena nella pena.
* Avvocato, Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino



TUTTI CE LE INVIDIANO PERÒ NESSUNO LE VUOLE: BASTA MISURE DI PREVENZIONE!
Tullio Padovani* su L'Unità del 15 giugno 2024

In Italia abbiamo una presenza sempre più invadente, sempre più pericolosa, e sempre più silenziosa, nel senso che se ne parla poco, troppo poco o non se ne parla affatto.
Magari se ne occupano i giornali che curano di più gli aspetti della giustizia ma che sono letti da pochi. I grandi giornali non dedicano nessuno spazio a un problema che viceversa costituisce un vero e proprio cancro del sistema giuridico italiano. Parlo delle misure di prevenzione, soprattutto delle misure di prevenzione patrimoniali e delle cosiddette interdittive antimafia.
Si tratta di un meccanismo diabolico che ha un carattere eversivo, del quale non percepiamo la portata perché agisce un po’ dietro le quinte. Ogni tanto emerge nelle cronache – hanno portato via il patrimonio di Tizio, di Caio, di Sempronio – però la cosa non fa scandalo. C’è stato un recente processo a Palermo a carico di un magistrato che operava nel settore delle misure di prevenzione e allora della cosa si è parlato. Ma la sostanza del fenomeno non è ancora percepita, sembra che non sia un problema. Eppure, in Sicilia, credo che la stessa economia dell’isola sia condizionata dall’esistenza delle misure di prevenzione.
Non so se tutti hanno la nozione di che cosa siano e cercherò di riassumerlo brevissimamente. Sono uno strumento antico. In Italia non ci facciamo mancare mai niente, siamo buoni inventori di questi strumenti che dietro il paravento della legalità la violano e la tradiscono completamente. Figuratevi che le misure di prevenzione cominciano a esistere con il Piemonte Sabaudo, col Regno di Sardegna, prima che arrivasse l’Italia, per far fronte a una emergenza delle prime guerre d’indipendenza. C’erano gli esuli lombardi, masse di persone, necessità di controllarle. Erano misure legate alla possibile pericolosità di certi soggetti, quindi, alla necessità di particolari forme di sorveglianza di polizia, domicili vincolati in certe località. Di patrimoniale non c’era ancora niente d’importante, ma c’era anche questo e riguardava i cosiddetti furti campestri, che all’epoca erano una piaga nelle campagne. Allora, cosa succedeva? Succedeva che se a un contadino trovavano n ella stalla degli attrezzi, dei materiali, delle merci di cui non riusciva a giustificare la provenienza in modo esauriente, glieli sequestravano perché sospetti di essere il frutto di un furto. Sospetto di essere provenienti da un furto, ma c’era il furto o no? Perché se c’era è certo che bisognava portarglieli via, ma se non c’era? C’era, non c’era: quanti problemi… Si sospetta che ci fosse e nel dubbio è meglio portarli via, così siamo sicuri.
Siamo andati avanti così nel corso degli anni sempre con nuove emergenze. Perché dopo l’unità d’Italia abbiamo avuto il banditismo, il cosiddetto banditismo nell’Italia meridionale che era semplicemente una forma di grave disagio per una unità piuttosto problematica. Poi abbiamo avuto lo sviluppo industriale, quindi l’emergere di una classe pericolosa nuova, gli operai che si coalizzavano, i primi scioperi e, quindi, anche in questo caso, misure di prevenzione. Siamo andati avanti così fino alla Costituzione Repubblicana.
La Costituzione non parla di misure di prevenzione, non ne parla. All’Assemblea Costituente il problema non fu affrontato. Però le misure continuavano a essere previste nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza emanato durante il fascismo. Entrata in vigore la Costituzione Repubblicana, la questione passò alla Corte Costituzionale: ma queste misure sono compatibili con la Costituzione Repubblicana? Siccome si trattava di misure solo personali, l’ammonizione, il soggiorno obbligato, nei confronti per lo più di soggetti recidivi che erano già stati condannati e che si poteva sospettare fossero pericolosi, insomma, misure ristrette in una nicchia di soggetti particolarmente qualificati, la Corte Costituzionale con due celebri sentenze le sdoganò chiedendo solo che ci fosse la garanzia del giudice, di un giudice che controlla. Ma controlla cosa il giudice? Se la base per applicarle è il sospetto poi il giudice come fa a verificare il sospetto? Se verificasse il sospetto , cioè scoprisse che hai commesso dei reati ti dovrebbe condannare, se no il sospetto si limita a ratificarlo sulla base di quello che gli dice il rapporto di polizia.
E siamo andati avanti così. Poi, ci siamo accorti che in Sicilia c’era la mafia ed è intervenuta la legislazione antimafia. Con la legge del 65, abbiamo scoperto che in Sicilia c’era la mafia. Per la verità c’era già da almeno 150 anni come minimo, però noi arriviamo sempre in ritardo e introduciamo una legislazione che rafforza un po’ la legislazione precedente. Ma di misure patrimoniali ancora non si parla. Successivamente, passo dopo passo, passettin passettino, si arriva anche alle misure patrimoniali. Percorrere questa serie di passaggi sarebbe anche interessante ma diciamo che si dividono in due fasi. Una prima fase vede coinvolti soltanto i sospetti di appartenere ad associazioni mafiose. Già questo: visto che si era introdotto il reato di associazione mafiosa, se uno lo sospetti, allora, lo dovresti condannare, perché o hai le prove o non le hai. No, non ho le prove per condannarlo, però per sospettarlo sì. E quindi si comincia a entrare in una logica per la quale si dice: una volta che lo sospetto di appartenere ad associazioni mafiose, anche i soldi che ha vengono investiti dallo stesso sospetto. Fin lì rimaniamo in tema di lotta alla mafia sicura sia pure con strumenti che vengono definiti eccezionali, ma sapete com’è: la mafia, la mafia, la mafia, con la mafia si giustifica tutto.
Poi, abbiamo fatto il salto della quaglia e le misure di prevenzione patrimoniale si applicano senza distinzione di appartenenza o non appartenenza alla mafia. Il problema è: questi soldi tu sei in grado di dimostrare da dove li hai presi? Perché se non sei in grado di dimostrarlo te li porto via. Te li porto via se ho qualche sospetto che non siano puliti. Si tratta del patrimonio, spesso può essere frutto dell’eredità… la misura di prevenzione si applica lo stesso, anche dopo la morte del sospettato, nei confronti degli eredi. Tu dimostrami che sono puliti, dimostramelo. Allora tu dici: noi viviamo in Italia, abbiamo evaso, abbiamo fatto i condoni fiscali, effettivamente non ci siamo comportati bene ma è un’evasione fiscale. E il legislatore dice: no, questo non vale, te lo scrivo nella legge. Non mi devi venire a raccontare che hai evaso perché questo non mi serve, l’evasione non esiste, non esiste come fonte di produzione del reddito. Se hai evaso non puoi dire che hai evaso perché io non ti ascolto e non mi interessa e a questo punto considero convalidati i sospetti per cui ti porto via tutto.
In questo modo si sono rovinati interi compendi industriali.
Qui l’alternativa è secca: se i soldi provengono da reato è chiaro che devono essere confiscati, ma bisogna provarlo. Se non si prova, non ci si può basare sul sospetto perché nel sospetto ci sta chi per avventura è effettivamente nella condizione di vedersi portare via tutto e chi invece non lo è affatto. Io personalmente ho conosciuto persone della cui integrità non dubito che sono state letteralmente rovinate da un meccanismo divoratore spietato. E se ti portano via tutto non ti lasciano neanche i soldi per difenderti. Io li difendevo gratis perché non avevano di che pagarmi in quanto gli avevano preso tutto e messi anche nella condizione di non difendersi. Non parliamo poi delle interdittive antimafia: se nell’azienda c’è qualcuno che è sospettato di avere collegamenti di qualunque tipo – un parente, un amico – con un sodalizio mafioso, scatta l’interdittiva antimafia. Allora, non lavori più, sei escluso da tutto, è la fine.
Si è creato un comparto di economia che è gestito come una, io l’ho definita: “manomorta giudiziale”. Un tempo c’era la “manomorta ecclesiastica”, cioè il patrimonio dato agli ecclesiastici che serviva per mantenere ordini religiosi, congregazioni o quel che sia, ma che non era attività produttiva, era un’attività di mero sfruttamento parassitario dell’economia, cioè beni che non producevano ricchezza. E l’abbiamo ricostituita, la manomorta, perché su questi sequestri poi si sviluppa un’economia tossica, parassitaria, con burocrati che gestiscono patrimoni senza averne le competenze, senza averne la capacità, persone magari professionalmente anche serie – non sempre serie, il processo di Palermo ha dimostrato ampiamente che c’erano tante pecorelle nere, ma mettiamo che sono tutte pecorelle bianche, anche così, non basta essere onesti per fare l’imprenditore, bisogna essere imprenditori. Siccome questi non lo sono, quando alla fine si scopre – qual che volta si riesce persino a scoprirlo – che tutto sommato i sospetti erano infondati, ecco che allora si restituiscono le aziende cariche di debiti e pronte per il fallimento. Operazione di distruzione della ricchezza.
In Sicilia ci sono degli esempi illustri, come quello dei fratelli Cavallotti, che ora per fortuna sono finiti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo che si accinge a decidere. E io mi auguro che la Corte Europea ci dia una bella scrollata perché noi abbiamo bisogno di una bastonata in testa, se no, non ci svegliamo dal torpore e spesso non basta neanche quella. Però ora il cittadino italiano ha un’arma visto che l’Europa è una sponda di legalità per noi. I sostenitori delle misure di prevenzione dicono che sono la cosa più bella del mondo, che tutti ce le invidiano, che è il modo migliore per affrontare i problemi della criminalità. Insomma, abbiamo la panacea di tutti i mali. Ma sta di fatto che nessuno si azzarda a introdurre simili istituti nel proprio ordinamento e, anzi, la Corte Europea ha cominciato a guardarle per quello che sono: dei mostri giuridici. Le misure di prevenzione sono una materia europea in quanto incidono sull’economia del nostro paese, sono f attori di alterazione della concorrenza, introducono elementi distorsivi, poderosi, ci intossicano.
Le misure di prevenzione sono la violazione più manifesta, più conclamata, più intollerabile, più assurda, più vergognosa del diritto europeo.
Mi auguro che il passaggio che dovrebbe essere alle porte sia quello di cominciare a eliminare questi mostri e ristabilire le condizioni di legalità nel nostro paese.
* Presidente d’Onore di Nessuno tocchi Caino



RISCHIA LA PENA DI MORTE SE ESTRADATO IN PAKISTAN: LA CASSAZIONE ANNULLA L’ARRESTO PREVENTIVO
Damiano Aliprandi su Il Dubbio del 20 giugno 2024

Un cittadino pakistano residente regolarmente in Italia dal 2018 è stato scarcerato dopo l'annullamento, senza rinvio, della custodia cautelare grazie alla sentenza numero 22945 della Cassazione. L'uomo, accusato di omicidio nel suo Paese, era stato arrestato in Italia in vista di una futura richiesta di estradizione. La difesa, sostenuta dall'avvocato Michele Biamonte, coadiuvato dalla fondamentale collaborazione della legale Monica Biamonte del foro di Bologna che ha seguito il caso fin dall'inizio, ha ottenuto un'importante vittoria.
La Cassazione ha infatti stabilito che non è legittimo arrestare ai fini estradizionali una persona per un reato punito con la pena di morte nel suo Paese di origine.
Oltre alle gravi carenze procedurali evidenziate dalla sentenza, la vicenda ha avuto un impatto significativo sulla vita del migrante. A causa dell’ingiusta carcerazione, l'uomo ha perso il suo lavoro a tempo indeterminato, subendo un danno irreparabile: con la perdita del lavoro, viene meno uno dei parametri per il mantenimento del permesso di soggiorno.
Ricostruiamo i fatti. A. A., residente in Italia dal 2018, viene arrestato in relazione a un mandato di arresto emesso il 6 luglio 2012 dalla Corte Distrettuale di Gujrat, Pakistan, per il reato di omicidio. La Corte d'Appello di Bologna aveva convalidato l'arresto e disposto la custodia cautelare in carcere il 29 marzo 2024, nonostante il reato fosse punibile in Pakistan con la pena di morte. Andando ancora nello specifico, c'è un dettaglio curioso. Il mandato di arresto era per “tentato omicidio”, il che, apparentemente verrebbe meno il rischio della pena capitale.
Nei fatti, così non è. Gli stessi giudici della Cassazione fanno notare che dal testo dell'ordinanza impugnata, risulta che a seguito della nota del 27 marzo 2024 del Ministero dell'Interno, il pakistano è stato tratto in arresto dalla polizia giudiziaria in quanto destinatario di un mandato di arresto emesso in relazione al reato di omicidio (quindi non “tentato”) commesso nel villaggio di Chak Hussain, per il quale la legge pakistana prevede, appunto, quale pena massima possibile la pena di morte.
Altro punto interessante è che la Corte d'Appello ha convalidato l'arresto ritenendo che il Pakistan ha assicurato l'ergastolo come alternativa alla pena di morte. In sostanza, si basa sulla parola. Per la procura generale che si è opposta al ricorso del migrante, “la pena del reato in relazione al quale deve essere disposta la cautela è conforme - con riguardo a quella dell'ergastolo - a quella prevista dall'ordinamento italiano”. Ma per i giudici supremi, questo assunto va respinto.
Censurano l'omessa considerazione da parte della Corte di appello - che si è limitata a ritenere compatibile la alternativa pena dell'ergastolo - della rilevante previsione, nell'ordinamento della Repubblica Islamica del Pakistan, per il reato in ordine al quale si è proceduto, della pena capitale, come peraltro espressamente indicato nella nota ministeriale. In sostanza il Collegio ritiene che la previsione in parola non può legittimare la convalida dell'arresto eseguito dalla polizia giudiziaria e la conseguente misura cautelare coercitiva applicata dalla Corte di appello.
Non solo. La Cassazione – recependo le motivazioni degli avvocati difensori del migrante -, non concorda con un precedente orientamento secondo cui, nel procedimento di estradizione, la Corte d'Appello deve solo verificare formalmente l'esistenza dei presupposti per l'arresto dell'individuo richiesto ( il reato contestato, le prove e il mandato di arresto dello Stato richiedente), senza valutare le condizioni sostanziali per una decisione favorevole all'estradizione, che spettano invece alla Corte d'Appello in una fase successiva. La Cassazione, citando una recente decisione su una vicenda simile, ritiene invece che già in questa fase iniziale il giudice debba considerare se sussistono gli ostacoli all'estradizione previsti dalla legge, in particolare il divieto di estradare se il reato è punibile con la pena di morte nello Stato richiedente, a meno che non sia stata irrevocabilmente comminata una pena diversa. Altrimenti, non avrebbe senso limitare provvisoriamente la libertà p ersonale dell'individuo richiesto per un procedimento di estradizione che non potrebbe poi essere perfezionato. In sostanza, secondo la Cassazione, per disporre l'arresto e le misure cautelari in vista dell'estradizione, il giudice deve valutare preventivamente se, allo stato degli atti, l'estradizione potrebbe essere negata per i reati punibili con la pena capitale nello Stato richiedente.
La sentenza della Cassazione, depositata il 6 giugno 2024, rappresenta una vittoria per la giustizia e il rispetto dei diritti umani. Tuttavia, evidenzia anche le gravi conseguenze che possono derivare da decisioni giudiziarie errate, specialmente per le persone più vulnerabili, come i migranti. Lavorava come muratore a tempo indeterminato, era riuscito a integrarsi e mantenere la famiglia. Ma soprattutto, grazie al lavoro, si è visto accogliere l'istanza di sospensiva del diniego al rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale. E ora che l'ha perso?



USA: ATTIVISTI SOLLECITANO BIDEN AD UN PROVVEDIMENTO DI CLEMENZA
Gli attivisti contro la pena di morte temono che Donald Trump, se rieletto, possa giustiziare decine di prigionieri nella "più grande ondata di esecuzioni civili federali" della storia degli Stati Uniti.
Attualmente ci sono 40 prigionieri nel braccio della morte federale, che si trova nel penitenziario degli Stati Uniti a Terre Haute, Indiana. Nessuno è stato messo a morte durante la presidenza di Joe Biden.
Biden, 81 anni, è il primo presidente ad essere apertamente contrario alla pena capitale e nella sua campagna elettorale per il 2020 aveva promesso di "approvare una legge per eliminare la pena di morte a livello federale".
Tuttavia, ha solo introdotto una moratoria, che però Trump potrebbe immediatamente revocare se tornasse alla Casa Bianca.
È molto probabile che ci sarà un bagno di sangue per le esecuzioni se tornerà in carica". Ha dichiarato al DailyMail.com Robert Dunham, direttore del Death Penalty Policy Project.
Negli ultimi 6 mesi di mandato di Trump sono state effettuate 13 esecuzioni federali. Sono state le prime dal 2003.
Tra queste, 3 dopo le elezioni del 2020 - la prima volta che dei prigionieri federali sono stati messi a morte da un presidente uscente dopo Grover Cleveland nel 1889.
Un segnale di ciò che potrebbe accadere in un secondo mandato di Trump è contenuto in "Mandate for Leadership: The Conservative Promise", un lungo documento prodotto dal Progetto 25, che si occupa della pianificazione di una futura amministrazione Trump.
In un capitolo dedicato al Dipartimento di Giustizia si legge a proposito della pena di morte: "Fornire questa punizione senza mai farla rispettare non rende giustizia né alle famiglie delle vittime né agli imputati.
La prossima amministrazione conservatrice dovrebbe quindi fare tutto il possibile per ottenere la definitività per i prigionieri attualmente nel braccio della morte federale".
Lo stesso Trump ha sostenuto con forza le esecuzioni capitali e ha chiesto che coloro che "vengono sorpresi a vendere droga ricevano la pena di morte per i loro atti efferati".
L'amministrazione del suo primo mandato ha giustiziato più detenuti federali di qualsiasi altro presidente da quando Franklin Roosevelt praticò 16 esecuzioni alla fine degli anni Trenta e all'inizio degli anni Quaranta.
Nove giorni prima che Trump lasciasse il suo incarico, il governo federale ha eseguito la prima esecuzione di una donna, Lisa Montgomery, in quasi sette decenni.
Complessivamente, nel 2020, il governo statunitense ha effettuato più esecuzioni in un solo anno di tutti gli Stati che ancora effettuano esecuzioni messe insieme.
Dunham ha invitato Biden, se dovesse perdere le elezioni, a commutare tutte le condanne a morte in ergastolo senza condizionale prima di lasciare il suo incarico. Il Presidente uscente potrebbe farlo "con un tratto di penna".
Ha detto: "La proposta di uccidere tutti i condannati a morte federali è così estrema, così priva di principi e di dignità umana, che crea un imperativo morale per il Presidente Biden di impedire che ciò accada se dovesse perdere le elezioni".
Gli eventi che i presidenti non prevedono spesso definiscono la loro eredità presidenziale. Questo è uno di quegli eventi.
Se il Presidente Biden perde e non fa nulla, la sua eredità sarà in gran parte definita dal suo ruolo nel facilitare la più grande esecuzione federale di civili nella storia di questo Paese. Non credo che voglia che questa sia la sua eredità".
La pena di morte non è stata una questione importante in una corsa presidenziale statunitense dal 1988.
Tuttavia, potrebbe rapidamente diventare una questione importante se Trump dovesse riconquistare la Casa Bianca.
Secondo i sondaggi Gallup, il sostegno alla pena di morte contro i condannati per omicidio è sceso dall'80% del 1994 al 53% dello scorso anno.
A novembre Gallup ha rilevato, per la prima volta, che più americani ritengono che la pena di morte sia applicata in modo ingiusto che equo - 50 % contro 47 %.
La stragrande maggioranza dei detenuti condannati è condannata a livello statale. Oltre al governo federale, la pena di morte è legale in 27 Stati, anche se nella maggior parte di essi le esecuzioni non vengono effettuate da anni.
(Fonte: dailymail.co.uk, 16/06/2024)

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