Nessuno tocchi Caino - IN KUWAIT, NELLO STESSO GIORNO, LA LEGGE DELLA SHARIA PUÒ CONDURRE ALLA FORCA O AL PERDONO
Nessuno tocchi Caino news
Anno 24 - n. 35 - 21-09-2024
LA STORIA DELLA SETTIMANA
IN KUWAIT, NELLO STESSO GIORNO, LA LEGGE DELLA SHARIA PUÒ CONDURRE ALLA FORCA O AL PERDONO
NEWS FLASH
1. IL SENSO DEL TEMPO IN CARCERE
2. NESSUNO TOCCHI CAINO A REGGIO EMILIA, BELLUNO, TREVISO E ROVIGO
3. APPELLO AL MINISTRO DEGLI ESTERI TAJANI AFFINCHÈ INTERVENGA PER SCONGIURARE L’ESECUZIONE IN IRAN DI BEHROUZ EHSANI E MEHDI HASSANI
4. COREA DEL NORD: GIUSTIZIATE DUE FUGGITIVE CHE ERANO STATE RIMPATRIATE CON LA FORZA DALLA CINA
IN KUWAIT, NELLO STESSO GIORNO, LA LEGGE DELLA SHARIA PUÒ CONDURRE ALLA FORCA O AL PERDONO
NEWS FLASH
1. IL SENSO DEL TEMPO IN CARCERE
2. NESSUNO TOCCHI CAINO A REGGIO EMILIA, BELLUNO, TREVISO E ROVIGO
3. APPELLO AL MINISTRO DEGLI ESTERI TAJANI AFFINCHÈ INTERVENGA PER SCONGIURARE L’ESECUZIONE IN IRAN DI BEHROUZ EHSANI E MEHDI HASSANI
4. COREA DEL NORD: GIUSTIZIATE DUE FUGGITIVE CHE ERANO STATE RIMPATRIATE CON LA FORZA DALLA CINA
IN KUWAIT, NELLO STESSO GIORNO, LA LEGGE DELLA SHARIA PUÒ CONDURRE ALLA FORCA O AL PERDONO
Sergio D’Elia
Nell’emirato più ricco del Golfo Persico, tutto si lega: la storia antica e quella moderna, il patrimonio archeologico e l’architettura avveniristica, il Corano e il petrolio. Nella capitale, il disegno delle Torri del Kuwait, le tre cisterna d’acqua che svettano nel cuore della città, richiama le classiche volte piastrellate della Grande Moschea.
Secondo la Costituzione il sovrano deve essere un discendente della dinastia che ha governato l’emirato a partire dal 1752. In arabo Kuwait significa “piccola fortezza”, s’intende, lungo la costa del Golfo. Una forza basata prima sul commercio di perle e spezie tra India ed Europa, poi sul petrolio estratto e distribuito nel resto del mondo fino alla più periferica stazione di servizio col simbolo della vela. La forza del Corano, invece, è rimasta immutata, ha segnato il passato e segna il presente dell’Emirato. Quando, nel dicembre scorso, è morto il suo capo, lo sceicco Nawaf al-Ahmad Al-Sabah, prima dell’annuncio, la televisione di stato ha interrotto le trasmissioni per mandare in onda versetti dal Corano.
Nel mondo arabo, dove il Corano detta legge anche nel campo dei delitti e delle pene, il moderno non emerge, la giustizia resta ancorata all’antico. Nessuna pietà, chi ha ucciso dev’essere ucciso. Con la spada nella terra dei Saud, sulla forca nella terra degli Al Sabah. E la grazia, quando è concessa, non rientra nel ministero della giustizia. È nel potere assoluto dei parenti della vittima. E ha un costo: la diya, il prezzo del sangue.
Il 5 settembre scorso, la legge della sharia in Kuwait ha conosciuto sia la versione della forca sia quella del perdono. Sei uomini condannati per omicidio sono stati giustiziati dopo due anni di tregua della pena di morte. Tra gli impiccati c’erano due kuwaitiani, tre iraniani e un pakistano. Due degli iraniani erano stati condannati per aver ucciso tre persone a Salwa per rapina, tra cui un membro della famiglia regnante. Alcuni di loro erano nel braccio della morte da ben cinque anni.
Fino al 1985, le impiccagioni venivano eseguite in pubblico nella Piazza di Palazzo Naif. La forca era stata probabilmente costruita lì dagli inglesi e aveva una capienza di un solo prigioniero alla volta. Dal 2002, le esecuzioni sono sempre eseguite a Palazzo Naif, ma in forma semi-privata. Dopo l’impiccagione, al pubblico e alla stampa è permesso di vedere i corpi penzolanti nella speranza che si riveli un deterrente. Sono state costruite nuove forche in acciaio per esecuzioni multiple. Su questa piattaforma raggiungibile tramite una rampa di scale sono stati impiccati i condannati a morte del 5 settembre che non hanno avuto la fortuna di incontrare il perdono delle vittime. Vestiti con una maglietta bianca, una tunica e pantaloni marroni, la testa coperta da un cappuccio nero e le braccia e le gambe legate con cinghie di cuoio, hanno incontrato la morte che indossava una tuta nera e il passamontagna per nascondere la sua identità.
Lo stesso giorno, invece, una donna kuwaitiana è scampata per un pelo alla forca. Pochi istanti prima dell’esecuzione, i parenti della vittima l’hanno graziata, accettando il “prezzo del sangue”. Il pubblico ministero ha quindi interrotto la procedura mortale.
La donna era stata condannata per l’omicidio premeditato di una sua amica, accoltellata più volte dopo aver fatto insieme colazione a casa sua. Come sono andate le cose l’ha raccontato Bader Al-Mutairi, un difensore delle cause disperate. La donna doveva morire giovedì. Al suo arrivo all’aeroporto del Cairo, mercoledì sera, Al-Mutairi aveva ricevuto diverse chiamate da persone nella prigione femminile che lo informavano che la donna sarebbe stata giustiziata il giorno dopo. Mentre veniva tenuta in isolamento prima dell’esecuzione, a chiunque le capitava di vedere diceva: “Vi prego, dite a Bader Al-Mutairi di non abbandonarmi”. “Cosa posso fare?”, si è chiesto Bader. “Tutto il mio corpo tremava”. Allora, ha chiamato diversi numeri fino a raggiungere l’avvocato che rappresentava la famiglia della vittima, per chiedere un rinvio dell’esecuzione e per concedere più tempo per trattare sul “prezzo del sangue”.
Durante le precedenti trattative, la famiglia della vittima aveva chiesto 7 milioni di dinari, ma era una somma che la famiglia della donna non poteva permettersi. Dopo diversi tentativi, è stato raggiunto un accordo per un risarcimento di 1 milione di dinari in cambio della rinuncia all’esecuzione della pena. La sera stessa, poche ore prima dell’esecuzione programmata, la madre della vittima si è recata alla prigione centrale e ha formalmente dichiarato il suo perdono. Il destino della donna è stato più felice di quello dei sei uomini impiccati il giorno stesso della sua liberazione. La sua fortuna è stata quella di aver incontrato e conservato il numero di telefono di Bader, il suo angelo custode.
NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH
IL SENSO DEL TEMPO IN CARCERE
Massimo Zanchin*
Per un recluso cosa è il tempo? qual è il suo senso? Come tutti noi sappiamo, esiste un tempo naturale e un tempo meccanico. Per un recluso il tempo naturale non esiste. Certo, attraverso le sbarre, può vedere quando fa buio o fa giorno, ma per il recluso i giorni rimangono tutti uguali. L’unica percezione che ha del tempo trascorso e che trascorre è solo guardandosi in un piccolo specchio, scorgendo i capelli che si perdono o ingrigiscono e i segni dell’età sul volto. Per un recluso non esiste nemmeno il tempo meccanico, la misura del tempo inventata dagli esseri umani per organizzarsi nel lavoro e nei commerci, perché nei pochi metri quadri di una cella è isolato dalla realtà, dalla società e da tutto. Quindi, non necessita neanche dell’orologio non avendo e non potendo prendere appuntamento con il nulla.
Al recluso forse può rimanere il tempo sensibile, ma occorrono degli strumenti per avere la percezione del suo trascorrere.
Il tempo acquista realtà attraverso la progettualità che crea l’attesa delle cose future, facendo tesoro del passato, avendone memoria utile al proprio agire nel presente. Insomma, avere la percezione del tempo significa vivere. Perché il tempo è la vita dell’anima.
Il tempo passato e che passa non è solo un ricordo, può essere anche ammonimento per un futuro riscatto. Ma se al recluso, alla sua anima si toglie il tempo, quindi, la vita negandogli occasioni lavorative o attività socialmente utili e, invece, ricevendo da parte dell’istituzioni la sola costrizione afflittiva, allora, che senso ha il tempo della pena? Come si fa a determinare il giusto tempo di pena come prezzo da pagare? Se al recluso hai tolto la percezione di questo tempo, con ciò mortificando la sua anima, allora, che senso ha determinare la pena e quantificarla con la misura del tempo? È come punire una persona con una multa in denaro dopo aver tolto a questa persona la percezione del senso e del valore del denaro.
I reclusi sono persone e hanno un’anima, non devono essere puniti togliendo loro il tempo, quel possibile tempo buono che è ossigeno per dare nuova vita a quell’anima, che ancora può essere espressione di un vero bene, un bene tangibile, meritevole della fiducia necessaria per un percorso verso un autentico, profondo cambiamento. Il senso di giustizia, che le istituzioni vogliono spacciare alla comunità come moneta risarcitoria per il torto subito, è soltanto l’afflizione del reo. Con ciò, si vuol far passare il messaggio che chi ha commesso un crimine è il male. Punito lui, tutto è bilanciato e sistemato. Perché lo Stato è giustizia.
A questo punto la domanda che si pone è: si può amare l’amore? si può voler bene al bene? si può essere giusti con la giustizia? L’amore non si può amare, perché l’amore non è sostanza, non è materia, non è un individuo, l’amore è un sentimento che si prova e si trasmette per il tramite delle nostre azioni o per quelle che riceviamo. Più esse sono frequenti e più alimentiamo l’amore che può essere verso il prossimo o qualsiasi essere vivente. Solo un’entità sovraumana, solo l’onnipotente può essere amore, bene, giustizia... Ma noi siamo solo dei poveri esseri umani, vestiti delle proprie ragioni o convinzioni e di piaceri terreni, noi possiamo in questa vita fare solo del bene o del male o entrambe le cose. Non siamo l’amore, possiamo solo amare. Non siamo il bene, possiamo solo fare del bene. Non siamo nemmeno giustizia, potendo solo cercare di fare le cose giuste.
Allora, come non può esistere la luce senza le tenebre, come non può esistere il giorno senza la notte, se noi non possiamo essere amore a meno che non vogliamo paragonarci a Dio, se non possiamo essere giustizia e non possiamo essere il bene, ecco che tutti noi non siamo il male. Perché la forma e la sostanza del bene e del male sono le nostre azioni compiute e non le persone. Affliggere il reo con la pena, non significa punire il male. È molto più utile mettere a disposizione del reo un tempo buono che gli consenta di ammonire e disprezzare le sue azioni inique, che sono la causa del male verso la comunità e verso sé stesso e i suoi cari. I reclusi non sono il male, sono persone e la loro mera l’afflizione non può risarcire chi ha subito un torto o ancor più grave una perdita.
Invece di condannare i rei al solo tempo punitivo, togliendo loro anche la percezione di questo tempo, rendendo la punizione stessa inefficace, le istituzioni dovrebbero concedere ai reclusi un tempo utile a mantenere in vita le loro anime, anime che ancora possono fare del bene, e il bene che possono fare è il vero risarcimento di cui la comunità ha bisogno.
Se si darà importanza al tempo dei detenuti, si darà importanza anche al tempo di chi soffre per ciò che ha subito, perché anche per loro per quella sofferenza il tempo si è fermato.
* Ergastolano detenuto a Opera
NESSUNO TOCCHI CAINO A REGGIO EMILIA, BELLUNO, TREVISO E ROVIGO
REGGIO EMILIA
21 settembre 2024
Ore 9:30
Visita al carcere di Reggio Emilia
Articolazione Tutela Salute Mentale
Ore 16:30
CONFERENZA
“Servire l’uomo. Spes contra spem”
CEIS – Via Antonio Urceo Codro, 1/1
Intervengono
Federico Amico | Rita Bernardini | Eliseo Bertani | Pierluigi Castagnetti | Tonino D’Angelo | Sergio D’Elia | Linda Motti | Luigi Scarcella | Marco Scarpati | Elisabetta Zamparutti
BELLUNO
26 settembre 2024
Ore 10:00
Visita al Carcere
Ore 16:00
Presentazione de “La fine della pena”
URBAN HUB Dolomiti
Via Ippolito Caffi, 11/B
Intervengono
Rita BERNARDINI | Marco CASON | Luca DE CARLO | Sergio D’ELIA | Mario MAZZOCCOLI | Erminio MAZZUCCO | Gianluca NICOLAI | Davide NORO | Francesco SANTIN | Tullio TANDURA | Daniele TORMEN
Modera
Sonia SOMMACAL
TREVISO
27 settembre 2024
Ore 10
Visita al Carcere
Ore 15
Conferenza “Costruire la comunità riparativa a partire dal carcere”
Palazzo di Giustizia di Treviso Aula C (primo piano)
Via Verdi 18
Modera
Enrico MARIGNANI, Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino
Intervengono
Patrizia PATRIZI, Ordinaria di Psicologia giuridica Università di Sassari, già presidente dell’European Forum for Restorative Justice | Rita BERNARDINI, Presidente di Nessuno tocchi Caino | Sergio D’ELIA, Segretario di Nessuno tocchi Caino | Cecilia DE MARCHI, Docente con esperienza presso CPIA Treviso | Giulia FIORIN, Responsabile sportello vittime di Treviso | Lorenzo GAZZOLA, Garante dei detenuti di Treviso | Matteo REOLON, Direttivo Associazione La Voce per la mediazione dei conflitti | Samuele VIANELLO, Segretario Radicali Venezia | Giancarlo VOLONTÈ, Docente scuola primaria
ROVIGO
28 settembre 2024
Ore 10
Visita al Carcere
Ore 16
Conferenza “Consigli di aiuto sociale: il diritto alla speranza”
La Casa di Abraham Via Stopazzine, 5 – Rovigo
Modera
Alessandro CABERLON, Insegnante e giornalista
Intervengono
Rita BERNARDINI, Presidente di Nessuno tocchi Caino | Susanna CARLESSO, Presidente Associazione La Casa di Abraham | Laura CESTARI, Consigliere Regionale del Veneto | Sergio D’ELIA, Segretario Nessuno tocchi Caino | Umberto BACCOLO, Consiglio Direttivo Nessuno tocchi Caino | Samuele VIANELLO, Segretario Radicali Venezia
APPELLO AL MINISTRO DEGLI ESTERI TAJANI AFFINCHÈ INTERVENGA PER SCONGIURARE L’ESECUZIONE IN IRAN DI BEHROUZ EHSANI E MEHDI HASSANI
Nessuno tocchi Caino rivolge al Ministro degli Esteri della Repubblica italiana Antonio Tajani un appello urgente affinché intervenga nei casi di Behrouz Ehsani e Mehdi Hassani, che sono stati condannati a morte per ragioni politiche in Iran, per scongiurare la loro esecuzione.
“Caro Ministro,
abbiamo appena saputo della condanna a morte in Iran di Behrouz Ehsani e Mehdi Hassani, due prigionieri politici sostenitori dei Mojahedin del Popolo. I due uomini sono stati accusati di "ribellione, guerra contro Dio, corruzione in Terra, appartenenza ai Mojahedin del popolo, raccolta di informazioni secretate, associazione e cospirazione contro la sicurezza nazionale" e per questo condannati a morte.
Behrouz Ehsani ha 69 anni ed è stato arrestato a Teheran il 22 novembre 2022, poi trasferito nel carcere di Evin (sezione 209), dove è stato torturato. Attualmente è detenuto nella sezione 4 del carcere di Evin.
Mehdi Hassani ha 48 anni ed è stato arrestato a Zanjan il 23 agosto 2022, poi trasferito alla sezione 209 di Evin, dove è stato sottoposto a torture fisiche e psicologiche. Attualmente è detenuto nella sezione 8 del carcere di Evin.
Conosciamo il sanguinario accanimento del regime iraniano nei confronti dei Mojahedin del Popolo iraniano di recente riconosciuto e denunciato anche da Javaid Rehman, lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti umani in Iran. Nella sua accurata analisi di quanto accaduto nella prima decade dall’assunzione del potere teocratico, con il massacro nel 1988 di decine di migliaia di prigionieri politici, molti dei quali Mojahedin del Popolo iraniano, la definizione a cui ricorre è quella di crimini atroci. Quanto accaduto sostanzia le “peggiori e più eclatanti violazioni dei diritti umani a nostra memoria, in cui funzionari statali di alto rango hanno cospirato e si sono attivamente impegnati a pianificare, ordinare e commettere crimini contro l'umanità e genocidio contro i cittadini del loro stesso Stato”.
Ma la sua analisi è anche una lente di ingrandimento per vedere quale sia la persistente natura del regime iraniano che in questo 2024 ha già giustiziato oltre 464 esseri umani, una cifra spaventosa che aumenta senza tregua giorno dopo giorno.
Conosciamo il suo amore per la vita e per la vita del diritto e per questo le chiediamo di intervenire nei casi di Behrouz Ehsani e di Mehdi Hassani per scongiurare la loro esecuzione.
Lo chiediamo ora che l’Assemblea generale dell’ONU si accinge a votare una nuova Risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali convinti come siamo che la via pragmatica della moratoria che abbiamo proposto sia la sola che permette di salvare vite umane nel tempo necessario e diverso per ogni singolo Stato per mettere la parola fine a questa pratica che rappresenta ormai solo un ferro vecchio della storia.”
L’appello è stato inviato per conoscenza ad Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, e Volker Türk, Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
COREA DEL NORD: GIUSTIZIATE DUE FUGGITIVE CHE ERANO STATE RIMPATRIATE CON LA FORZA DALLA CINA
Due donne sono state giustiziate in Corea del Nord il 31 agosto 2024 per aver aiutato altri nordcoreani a fuggire dalla Cina in Corea del Sud, ha detto un'organizzazione per i diritti umani a Radio Free Asia.
Rimpatriate forzatamente lo scorso anno dalla Cina e accusate di tratta di esseri umani, una donna di 39 anni di cognome Ri e una di 43 anni di cognome Kang, sono state giustiziate al termine di un processo pubblico tenutosi nella città portuale nord-orientale di Chongjin, secondo Jang Se-yul, capo di Gyeore'eol Unification Solidarity, con sede a Seoul.
Altre nove donne sono state condannate all'ergastolo con le stesse accuse.
Tutte e 11 le donne facevano parte di un gruppo di circa 500 nordcoreani che la Cina ha rimpatriato forzatamente nell'ottobre 2023.
"Queste due donne sono state giustiziate perché avevano inviato dei fuggitivi nordcoreani dalla Cina al paese nemico, la Corea del Sud", ha detto Jang a RFA Coreana.
"Quando sono fuggite per la prima volta, sono state vendute a una società cinese di intrattenimento per adulti", ha detto. "Quando altre donne nordcoreane che lavoravano lì hanno detto che volevano andare in Corea del Sud, hanno preso accordi per mandarle lì".
Si tratta della prima notizia di esecuzioni dalla ripresa a ottobre del rimpatrio forzato dalla Cina di fuggitivi nordcoreani.
I fuggitivi in Corea del Sud e altrove hanno esortato la Cina a non rimandare indietro i nordcoreani, dal momento che affrontano punizioni severe. La Cina afferma tuttavia di avere l'obbligo di rimpatriarli in base agli accordi bilaterali che ha con Pyongyang.
Le donne costituiscono la maggioranza dei fuggitivi nordcoreani in Cina. Mentre sono lì, sono spesso alla mercé di malviventi cinesi che possono venderle come schiave, sia per lavorare nella prostituzione, sia per essere le "mogli" di uomini cinesi.
Dalla fine della guerra di Corea nel 1953, più di 34.000 nordcoreani sono fuggiti in Corea del Sud. Di questi, il 72% è costituito da donne.
Jang ha detto di aver appreso del processo e delle esecuzioni tramite Freedom Chosun, un'agenzia di stampa online gestita da fuggitivi nordcoreani.
I residenti della Corea del Nord hanno confermato che il processo e le esecuzioni hanno avuto luogo.
Un residente della città di confine cinese di Hoeryong ha detto a RFA di aver assistito al processo mentre era in visita a Chongjin, a circa 44 miglia (70 chilometri) di distanza. Ha detto che il procedimento è iniziato alle 11 del mattino del 31 agosto ed è durato un'ora, e centinaia di residenti e commercianti del mercato erano presenti.
Il processo si è concluso quando l'ufficio della sicurezza sociale della provincia di Hamgyong settentrionale ha deciso di giustiziare le donne lo stesso giorno e ha messo le 11 donne in un convoglio per mandarle via, ha detto.
Anche la famiglia di un fuggitivo nordcoreano residente in Corea del Sud ha confermato al proprio familiare che due persone sono state giustiziate a Chongjin.
Suzanne Scholte, presidente della North Korea Freedom Coalition con sede in Virginia, ha confermato a RFA l'11 settembre che il processo e le esecuzioni sono stati discussi in una recente riunione dell'organizzazione. Jang ha detto di aver parlato con la sorella minore di una delle donne giustiziate, che gli ha detto di essere riuscita a scappare in Corea del Sud con l'aiuto della sorella. Ha detto che sua sorella è stata catturata da un mediatore cinese mentre stava cercando di scappare verso il Sud, ha spiegato Jang. Aveva aiutato le donne nordcoreane a scappare gestendo un'attività con il marito cinese a Longjing, provincia di Jilin, Cina. "Ha pianto molto", ha detto Jang. "Sembra che sua sorella abbia salvato molti fuggitivi nordcoreani riuscendo a mandarli in Corea del Sud".
(Fonte: RFA, 17/09/2024)
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