Inès Cagnati, Sergio D'Elia, carcere, Delmastro

 

Mi chiedo perchè ho aspettato tutto questo tempo per leggere Inès Cagnati perchè i sette racconti de "I pipistrelli" (Adelphi) li ho trovati magnifici, crudi, disperati, poetici, feroci, strazianti. Sanno di merda e botte, solitudine e paglia, immigrazione e dignità.
 
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Copio e incollo il bellissimo editoriale di Sergio D'Elia pubblicato ieri su l'Unità a proposito di carcere e Delmastro:

Il sadismo di Delmastro: gode a veder soffocare i detenuti

Quando il sottosegretario si gloria del fatto che lui non s’inchina alla Mecca dei detenuti, si rende conto che nella calca che affolla la grande moschea muoiono soffocati anche i suoi custodi? 

Siamo andati in pellegrinaggio alla Mecca dei detenuti, ma non abbiamo trovato la sacra moschea, non c’era un dio da pregare né una pietra nera da adorare. Il luogo che abbiamo visto è da tempo sconsacrato, lì dio è morto, le tavole della legge di ogni fede sono state frantumate. Non mette conto dire qual è il carcere che abbiamo visitato, perché è ormai un luogo comune a molti altri.

In tutti il diritto si è volto al torto e, di torto in torto, la condizione è divenuta ormai, strutturalmente, di tortura. Ne abbiamo visitati 120 l’anno scorso e 90 quest’anno di luoghi di tortura, di torturati senza torturatori. Dove gli esseri viventi che li abitano e ci lavorano – i fuori legge e i tutori della legge, i nemici dello stato e i servitori dello stato – sono, tutti, condannati allo stesso degrado di umanità, a uno stato bestiale di abbandono e di infamia. Per dire, il piano terra di quello che abbiamo visitato di recente era un budello senza luce, senza aria, senza vita. La sezione è destinata ai casi cosiddetti di “ordine e sicurezza”; invece, regna il disordine delle cose e l’insicurezza delle persone. A partire dal corridoio e poi nelle celle, il pavimento è coperto di immondizia: tozzi di pane, frutta marcia, sacchetti di plastica, panni sporchi, materassi, lenzuola e coperte, tutto è buttato per terra.

Nella prima cella, di quattro metri per due, c’è un letto a castello con due brande, il cesso è a vista come in tutte le altre celle, non ci sono né sgabelli né tavolo. Le lenzuola sono sporchissime. Non c’è televisore, non c’è uno straccio o una scopa, ovviamente nessun fornello. A mezzogiorno, le persone dormono. Nella seconda cella un detenuto dorme direttamente sul letto di gommapiuma senza lenzuola. Il pavimento è coperto da resti di cibo, bottiglie di plastica e immondizia varia. Nella terza cella c’è un soggetto che gli psichiatri bollano come “antisociale”. È stato all’OPG di Reggio Emilia prima che lo chiudessero. Entra e esci dal carcere, tra minacce, incendi e procurati allarmi, si è fatto quasi trent’anni. Aveva fondato anche una banda armata ma è stato assolto. “Ero solo io, ero sia la mente che il braccio”. Vive da quattro anni in una cella piena di stracci, coperte, asciugamani, tutto sporco e steso per terra. È attaccato tutto il giorno, 24 ore su 24, a una bombola di ossigeno per via di una malattia ai polmoni. Gli hanno diagnosticato una broncopneumopatia cronica ostruttiva, ma gli hanno rifiutato il differimento della pena. Ogni tanto lo ricoverano in ospedale. È assistito da un “piantone” solo per dieci minuti al giorno quando va a mettergli la maschera dell’aerosol.

Fuori dalla quarta cella un detenuto ha segnato con strisce di lenzuola una sorta di terra di nessuno, un perimetro di due metri per due che è “vietato valicare”. Nella stanza è tutto per terra, ciotole, panni, sigarette, cibo e anche il materasso, sistemato sotto il lavandino vicino al blindato. Non ha il tubo di scarico, il detenuto lo ha staccato, ha sradicato pure il water e lo ha consegnato agli agenti. Fa tutti i suoi bisogni nel buco rimasto aperto sul pavimento e per lavarsi va alla doccia in comune dei detenuti della sezione. Sono tre i soffioni ma ne funziona solo uno. L’ambiente è piastrellato di rosso e arancione, il pavimento è nero per i grumi di sporco che lo ricoprono. La finestra è chiusa. Il termosifone è stato staccato. In fondo al corridoio, fuori dalle celle, hanno sistemato tre brande per i detenuti che non hanno trovato posto in una stanza.

Quando il sottosegretario Delmastro delle Vedove si gloria del fatto che lui non s’inchina alla Mecca dei detenuti, si rende conto che nella calca che affolla la grande moschea muoiono soffocati anche i suoi custodi? Che nelle carceri-cimitero dei vivi finiscono sotto terra carcerati e carcerieri? Che nella merda in cui vivono i “cattivi” ci lavorano anche i “buoni”? Non gli importa nulla della qualità della vita dei “fuori legge”? Si preoccupi almeno della qualità della vita dei tutori della legge! I diritti umani universali concessi ai “nemici dello stato” sono un lusso inaccettabile? Si assicuri almeno che siano rispettati sul luogo di lavoro quelli particolari, sindacali e ambientali, dei servitori dello stato! Quando il sottosegretario Delmastro delle Vedove gode del fatto – “è sicuramente un’intima gioia”, ha detto – che sulla nuova auto blindata della Polizia penitenziaria per il trasporto di detenuti al 41-bis non lasciano respirare chi sta dietro il vetro oscurato, non si rende conto che sul mezzo di traduzione muoiono asfissiati non solo i tradotti ma anche i traduttori?

Io so cosa vuol dire subire un trasferimento di mille chilometri su quel furgone corazzato di colore blu. Chiuso in una cella blindata del cellulare blindato, incatenato con gli schiavettoni ai polsi. Nel fetore di fumo e di vomito lasciato da chi è salito prima di te. Senza luce e senza aria. Alla ricerca disperata attraverso la grata forata di un punto di luce e d’orizzonte fuori dal mezzo per far fronte alla nausea e non perdere i sensi. E, sull’orlo del collasso, implorare il gesto di pietà di un giro di catena in meno e una boccata d’aria in più. Quando il carcere esprime, in tutto e per tutto, della parola il significato originario, fino a consistere esattamente nel “carcar”, nel sotterrare, nel tumulare un essere vivente, vuol dire che è giunta l’ora di superare questo istituto perché manifestamente inumano e degradante. Quando il fine della pena – la rieducazione, la risocializzazione del condannato – è pregiudicato dalla pena stessa, dai luoghi e dai mezzi della sua esecuzione, vuol dire che è giunta l’ora della fine della pena e della tortura insita nella pena.

«I primi mesi si era sentito paralizzato, e invisibili fili tenaci lo tenevano inchiodato alla brandina nella sua cella. Quel rottame che, al pari di un sudario, conservava l’impronta e le forme del passaggio di altri corpi, era stato il suo unico principio di realtà. All’inizio aveva dormito confondendo i giorni con le notti e aveva creduto che lo spazio che lo separava dalla libertà sarebbe trascorso così; poi era venuta l’insonnia e tuttavia non riusciva a separarsi da quel luogo di conforto che era il suo letto. Mano a mano si era identificato con esso e aveva sentito il cigolio del proprio corpo simile a quello del letto. Aveva pensato di essere divenuto di ferro.» Così Mariateresa Di Lascia descrive il carcere, trent’anni fa, in Passaggio in ombra, il suo capolavoro letterario. Per questo fonda, trent’anni fa, “Nessuno tocchi Caino”, il suo capolavoro civile. Quando la persona della pena arriva a identificarsi col luogo della pena, fino a diventare la persona una cosa, l’uomo un mezzo, non il fine della pena, vuol dire che l’umanità e la civiltà di quella cosa sono morte, che la storia dell’istituto detto carcere è finita e che, a voler essere umani e civili, occorre pensare a un altro sistema, cominciare un’altra storia, un’altra vita. Per il bene di tutti. Sia delle vittime sia dei carnefici. Sia di Abele sia di Caino, i quali sono pur sempre fratelli, diversi ma gemellati dallo stesso dolore, quello che arreca la perdita e quello che genera la vendetta.

Caro Delmastro, non limitarti al suono delle fanfare e ai picchetti d’onore. Almeno una volta, vai a visitare i carcerati. Scopriresti come vivono anche i carcerieri, impegnati tutti i santi giorni a tentare di ridurre il danno connaturato a una struttura mortifera qual è il carcere. Ascolta il rumore delle sbarre battute dai detenuti per protesta o per disperazione e passa in rassegna i ragazzi di vent’anni che montano in quella sezione per sorvegliare, ma anche “despondere spem”. Dalla mattina alla sera. Incatenati anche loro in un luogo violento e malsano, costretti a un tempo di lavoro straordinario forzato che non ammette obiezione di coscienza e diritto sindacale di resistenza.

Caro Delmastro, vai a vedere i luoghi di pena, scopriresti la pena che fanno, il danno che arrecano, la sofferenza che infliggono. Sono detti luoghi di privazione della libertà, ma la perdita non è solo della libertà, è anche della salute, del senno, della vita, degli stessi sensi fondamentali e dei più significativi rapporti umani. La pena è corporale, il danno è esistenziale, la sofferenza è grave per tutti, non solo per i detenuti, anche per i detenenti. La schiavitù è stata abolita quando è risultata intollerabile non solo per gli schiavi ma anche per gli schiavisti. La tortura è stata interdetta quando è divenuta insopportabile sia per il torturato sia per il torturatore. I manicomi sono stati chiusi quando sono stati gli stessi psichiatri ad aprire i pazzi, a liberarli dall’elettroshock e dai letti di contenzione.

La pena di morte è stata abolita perché punizione inumana e degradante, crudele e inusuale non solo per i giustiziati ma anche per i giustizieri. Il carcere farà la stessa fine, è destinato a scomparire in quanto luogo di pena contraria al senso di umanità, istituto inutile e dannoso sia per i carcerati sia per i carcerieri. Con buona pace dei tutori del disordine costituito e dell’illusione autoritaria della sicurezza, degli analfabeti costituzionali della certezza della pena e dei sadici esteti dei mezzi più avanzati e letali di esecuzione.

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