Nessuno tocchi Caino - ALLA MECCA DEI DETENUTI, DOVE MUOIONO SOFFOCATI ANCHE I DETENENTI

Nessuno tocchi Caino

NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM

 

Associazione Radicale Nonviolenta
Transnazionale Transpartitica

Anno 24 - n. 44 - 23-11-2024

LA STORIA DELLA SETTIMANA

ALLA MECCA DEI DETENUTI, DOVE MUOIONO SOFFOCATI ANCHE I DETENENTI

NEWS FLASH

1. UNA MATTINA A NAPOLI DI CINQUANT’ANNI FA CON MARIATERESA DI LASCIA
2. PRIGIONI NELL’OCCHIO DEL CICLONE NEL MONDO
3. ARABIA SAUDITA: SONO PIÙ DI 100 GLI STRANIERI GIUSTIZIATI FINORA NEL 2024
4. INDIA: ‘RIABILITAZIONE POSSIBILE’, CONDANNA A MORTE COMMUTATA IN ERGASTOLO




ALLA MECCA DEI DETENUTI, DOVE MUOIONO SOFFOCATI ANCHE I DETENENTI
Sergio D’Elia su l’Unità del 19 novembre 2024

Siamo andati in pellegrinaggio alla Mecca dei detenuti, ma non abbiamo trovato la sacra moschea, non c’era un dio da pregare né una pietra nera da adorare. Il luogo che abbiamo visto è da tempo sconsacrato, lì dio è morto, le tavole della legge di ogni fede sono state frantumate. Non mette conto dire qual è il carcere che abbiamo visitato, perché è ormai un luogo comune a molti altri. In tutti il diritto si è volto al torto e, di torto in torto, la condizione è divenuta ormai, strutturalmente, di tortura. Ne abbiamo visitati 120 l’anno scorso e 90 quest’anno di luoghi di tortura, di torturati senza torturatori. Dove gli esseri viventi che li abitano e ci lavorano – i fuori legge e i tutori della legge, i nemici dello stato e i servitori dello stato – sono, tutti, condannati allo stesso degrado di umanità, a uno stato bestiale di abbandono e di infamia.
Per dire, il piano terra di quello che abbiamo visitato di recente era un budello senza luce, senza aria, senza vita. La sezione è destinata ai casi cosiddetti di “ordine e sicurezza”; invece, regna il disordine delle cose e l’insicurezza delle persone. A partire dal corridoio e poi nelle celle, il pavimento è coperto di immondizia: tozzi di pane, frutta marcia, sacchetti di plastica, panni sporchi, materassi, lenzuola e coperte, tutto è buttato per terra.
Nella prima cella, di quattro metri per due, c’è un letto a castello con due brande, il cesso è a vista come in tutte le altre celle, non ci sono né sgabelli né tavolo. Le lenzuola sono sporchissime. Non c’è televisore, non c’è uno straccio o una scopa, ovviamente nessun fornello. A mezzogiorno, le persone dormono. Nella seconda cella un detenuto dorme direttamente sul letto di gommapiuma senza lenzuola. Il pavimento è coperto da resti di cibo, bottiglie di plastica e immondizia varia.
Nella terza cella c’è un soggetto che gli psichiatri bollano come “antisociale”. È stato all’OPG di Reggio Emilia prima che lo chiudessero. Entra e esci dal carcere, tra minacce, incendi e procurati allarmi, si è fatto quasi trent’anni. Aveva fondato anche una banda armata ma è stato assolto. “Ero solo io, ero sia la mente che il braccio”. Vive da quattro anni in una cella piena di stracci, coperte, asciugamani, tutto sporco e steso per terra. È attaccato tutto il giorno, 24 ore su 24, a una bombola di ossigeno per via di una malattia ai polmoni. Gli hanno diagnosticato una broncopneumopatia cronica ostruttiva, ma gli hanno rifiutato il differimento della pena. Ogni tanto lo ricoverano in ospedale. È assistito da un “piantone” solo per dieci minuti al giorno quando va a mettergli la maschera dell’aerosol.
Fuori dalla quarta cella un detenuto ha segnato con strisce di lenzuola una sorta di terra di nessuno, un perimetro di due metri per due che è “vietato valicare”. Nella stanza è tutto per terra, ciotole, panni, sigarette, cibo e anche il materasso, sistemato sotto il lavandino vicino al blindato. Non ha il tubo di scarico, il detenuto lo ha staccato, ha sradicato pure il water e lo ha consegnato agli agenti. Fa tutti i suoi bisogni nel buco rimasto aperto sul pavimento e per lavarsi va alla doccia in comune dei detenuti della sezione. Sono tre i soffioni ma ne funziona solo uno. L’ambiente è piastrellato di rosso e arancione, il pavimento è nero per i grumi di sporco che lo ricoprono. La finestra è chiusa. Il termosifone è stato staccato. In fondo al corridoio, fuori dalle celle, hanno sistemato tre brande per i detenuti che non hanno trovato posto in una stanza.
Quando il sottosegretario Del Mastro delle Vedove si gloria del fatto che lui non s’inchina alla Mecca dei detenuti, si rende conto che nella calca che affolla la grande moschea muoiono soffocati anche i suoi custodi? Che nelle carceri-cimitero dei vivi finiscono sotto terra carcerati e carcerieri? Che nella merda in cui vivono i “cattivi” ci lavorano anche i “buoni”? Non gli importa nulla della qualità della vita dei “fuori legge”? Si preoccupi almeno della qualità della vita dei tutori della legge! I diritti umani universali concessi ai “nemici dello stato” sono un lusso inaccettabile? Si assicuri almeno che siano rispettati sul luogo di lavoro quelli particolari, sindacali e ambientali, dei servitori dello stato!
Quando il sottosegretario Delmastro delle Vedove gode del fatto – “è sicuramente un’intima gioia”, ha detto – che sulla nuova auto blindata della Polizia penitenziaria per il trasporto di detenuti al 41-bis non lasciano respirare chi sta dietro il vetro oscurato, non si rende conto che sul mezzo di traduzione muoiono asfissiati non solo i tradotti ma anche i traduttori? Io so cosa vuol dire subire un trasferimento di mille chilometri su quel furgone corazzato di colore blu. Chiuso in una cella blindata del cellulare blindato, incatenato con gli schiavettoni ai polsi. Nel fetore di fumo e di vomito lasciato da chi è salito prima di te. Senza luce e senza aria. Alla ricerca disperata attraverso la grata forata di un punto di luce e d’orizzonte fuori dal mezzo per far fronte alla nausea e non perdere i sensi. E, sull’orlo del collasso, implorare il gesto di pietà di un giro di catena in meno e una boccata d’aria in più.
Quando il carcere esprime, in tutto e per tutto, della parola il significato originario, fino a consistere esattamente nel “carcar”, nel sotterrare, nel tumulare un essere vivente, vuol dire che è giunta l’ora di superare questo istituto perché manifestamente inumano e degradante. Quando il fine della pena – la rieducazione, la risocializzazione del condannato – è pregiudicato dalla pena stessa, dai luoghi e dai mezzi della sua esecuzione, vuol dire che è giunta l’ora della fine della pena e della tortura insita nella pena.
«I primi mesi si era sentito paralizzato, e invisibili fili tenaci lo tenevano inchiodato alla brandina nella sua cella. Quel rottame che, al pari di un sudario, conservava l’impronta e le forme del passaggio di altri corpi, era stato il suo unico principio di realtà. All’inizio aveva dormito confondendo i giorni con le notti e aveva creduto che lo spazio che lo separava dalla libertà sarebbe trascorso così; poi era venuta l’insonnia e tuttavia non riusciva a separarsi da quel luogo di conforto che era il suo letto. Mano a mano si era identificato con esso e aveva sentito il cigolio del proprio corpo simile a quello del letto. Aveva pensato di essere divenuto di ferro.» Così Mariateresa Di Lascia descrive il carcere, trent’anni fa, in “Passaggio in ombra”, il suo capolavoro letterario. Per questo fonda, trent’anni fa, “Nessuno tocchi Caino”, il suo capolavoro civile.
Quando la persona della pena arriva a identificarsi col luogo della pena, fino a diventare la persona una cosa, l’uomo un mezzo, non il fine della pena, vuol dire che l’umanità e la civiltà di quella cosa sono morte, che la storia dell’istituto detto carcere è finita e che, a voler essere umani e civili, occorre pensare a un altro sistema, cominciare un’altra storia, un’altra vita. Per il bene di tutti. Sia delle vittime sia dei carnefici. Sia di Abele sia di Caino, i quali sono pur sempre fratelli, diversi ma gemellati dallo stesso dolore, quello che arreca la perdita e quello che genera la vendetta.
Caro Delmastro, non limitarti al suono delle fanfare e ai picchetti d’onore. Almeno una volta, vai a visitare i carcerati. Scopriresti come vivono anche i carcerieri, impegnati tutti i santi giorni a tentare di ridurre il danno connaturato a una struttura mortifera qual è il carcere. Ascolta il rumore delle sbarre battute dai detenuti per protesta o per disperazione e passa in rassegna i ragazzi di vent’anni che montano in quella sezione per sorvegliare, ma anche “despondere spem”. Dalla mattina alla sera. Incatenati anche loro in un luogo violento e malsano, costretti a un tempo di lavoro straordinario forzato che non ammette obiezione di coscienza e diritto sindacale di resistenza.
Caro Delmastro, vai a vedere i luoghi di pena, scopriresti la pena che fanno, il danno che arrecano, la sofferenza che infliggono. Sono detti luoghi di privazione della libertà, ma la perdita non è solo della libertà, è anche della salute, del senno, della vita, degli stessi sensi fondamentali e dei più significativi rapporti umani. La pena è corporale, il danno è esistenziale, la sofferenza è grave per tutti, non solo per i detenuti, anche per i detenenti.
La schiavitù è stata abolita quando è risultata intollerabile non solo per gli schiavi ma anche per gli schiavisti. La tortura è stata interdetta quando è divenuta insopportabile sia per il torturato sia per il torturatore. I manicomi sono stati chiusi quando sono stati gli stessi psichiatri ad aprire i pazzi, a liberarli dall’elettroshock e dai letti di contenzione. La pena di morte è stata abolita perché punizione inumana e degradante, crudele e inusuale non solo per i giustiziati ma anche per i giustizieri. Il carcere farà la stessa fine, è destinato a scomparire in quanto luogo di pena contraria al senso di umanità, istituto inutile e dannoso sia per i carcerati sia per i carcerieri. Con buona pace dei tutori del disordine costituito e dell’illusione autoritaria della sicurezza, degli analfabeti costituzionali della certezza della pena e dei sadici esteti dei mezzi più avanzati e letali di esecuzione.



NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

UNA MATTINA A NAPOLI DI CINQUANT’ANNI FA CON MARIATERESA DI LASCIA
Questo bel ricordo di Mariateresa Di Lascia è anche un annuncio. A Napoli, negli anni 70, la fondatrice di Nessuno tocchi Caino e vincitrice del Premio Strega ha studiato e vissuto la sua prima vita da militante radicale. A Napoli, il 28 novembre, alle ore 18, la ricorderemo presso la libreria Mondadori della Galleria Umberto I, in occasione della presentazione del libro di Nessuno tocchi Caino “La fine della pena” in un evento dal titolo “Trent’anni ‘senza’ Mariateresa Di Lascia. Un vuoto dove passa ogni cosa”.

Vincenzo Rocco

Ho avuto il privilegio di conoscere Mariateresa fin dall’inizio della sua storia politica. Ci incontrammo nella primavera del 1977 durante la campagna di raccolta firme per gli otto referendum, i primi proposti dal Partito Radicale. Furono tre mesi intensi: di giorno raccoglievamo le firme per strada, la sera davanti ai teatri, ai cinema. Mariateresa la riconoscevi immediatamente: un caschetto biondo e due occhi azzurrissimi, la gonna a lunghe falde e gli zoccoli olandesi, come si portavano allora. Spesso sorridente, qualche volta arrabbiata. Si distingueva da tutti, ne percepivi immediatamente lo spessore; in quell’atmosfera concitata e sovente caotica capiva al volo cosa accadesse, seguiva l’evolversi della campagna con l’intelligenza di chi sa cos’è logico, giusto fare.
In quei tre mesi convulsi a stento ci salutavamo. Dopo la raccolta tornavo subito a casa a studiare per la maturità. Lei invece, da universitaria fuori sede, era iscritta a medicina, restava a ordinare i moduli, contare le firme e a comunicarne il numero via telefono alla segreteria nazionale a Roma assieme a Maurizio Griffo, all’epoca segretario della sede cittadina.
Raggiungemmo il quorum necessario per indire i referendum: fu la grande vittoria di un piccolo partito di qualche migliaio di persone.
Nell’ottobre fummo eletti lei tesoriere e io segretario dell’associazione. Tesoriere per motivi di cassa. Mariateresa era un genio nella raccolta fondi. Chiunque abbia mai fatto politica sa come sia difficile finanziare un partito in modo onesto: devi essere in gamba, trovare la gente giusta e convincerla. Lei lo sapeva fare davvero bene. Era in grado di affabulare, bastava ascoltarla e ne rimanevi conquistato.
E poi, capiva, intuiva le persone. Ne comprendeva i sogni, le speranze e sapeva allinearli con la nostra politica. Il periodo a cavallo tra il ’77 e il ’78 è stato uno dei peggiori della Repubblica: Giorgiana Masi, Aldo Moro, solo per ricordare due nomi. Nel gennaio del ‘78 la Corte Costituzionale cassò quattro delle otto proposte referendarie, ritenendole improponibili. In seguito, il Parlamento ne avrebbe stralciate altre due, lasciandone soltanto due al voto popolare: la legge Reale sull’ordine pubblico e quella sul finanziamento ai partiti.
Appena saputa la notizia dell’intervento della Corte, al partito decidemmo di rispondere. Come sempre, con la nonviolenza.
Era una bella mattina ed eravamo in sede solo lei e io. Indossammo due cartelloni in cui accusavamo lo Stato di impedire il voto popolare e ci avviammo a protestare davanti al Tribunale di Napoli. L’obiettivo era farsi notare, fermare o allontanare. Insomma, fare in modo da segnalare la nostra presenza alle autorità, ai giornalisti, a qualcuno in grado di riportare la notizia che i radicali manifestavano contro la sentenza dei giudici costituzionali.
Credo quella sia stata la più giolittiana delle nostre giornate politiche. Nel senso che chiunque avesse il potere di fermarci ci ha ignorati per ore. Appena arrivati ci siamo messi a passeggiare davanti all’ingresso del Tribunale. Gli avvocati, i giudici, i poliziotti entravano e uscivano, ma nessuno sembrava fare caso alla nostra presenza. Alla mezz’ora di inutile, ignorato passeggio, abbiamo preso la decisione coraggiosa, o totalmente incosciente, di entrare nel tribunale.
Il vecchio tribunale di Napoli ha una struttura a base rettangolare con un grande patio interno a cielo aperto, circondato da un colonnato da cui si accede alle aule e agli uffici.
Mariateresa e io ci siamo presi per mano e abbiamo attraversato, inquieti, l’ingresso. Niente. Nessuno ci guardava. Eppure, i cartelloni erano grandi, le scritte chiare, e noi andavamo avanti e indietro nel patio, girando attorno a una Jeep delle forze dell’ordine in sosta, davanti all’ufficio dei Carabinieri. A zonzo, tranquilli, ignorati, trasparenti come fantasmi.
Ancora un’ora di marcia a vuoto e, per una forma di disperazione politica, abbiamo deciso di autodenunciarci presentandoci davanti allo stanzone in cui erano assiepati i rappresentanti della legge. Erano stupiti, avrebbero preferito mandarci via e non avere problemi. Credo ci abbiano domandato più volte se desideravamo, davvero, essere fermati. Naturalmente non potevamo andar via senza ottenere nulla e ci siamo fatti denunciare per vilipendio alle istituzioni. Il giorno dopo sul Mattino è apparsa la nostra foto in un breve trafiletto. Altri compagni si sono poi aggiunti a quella azione solitaria, e tutti abbiamo rischiato dai due a cinque anni di carcere per reato d’opinione. Ma eravamo contenti, era il tipo di cose che si facevano con Mariateresa.



PRIGIONI NELL’OCCHIO DEL CICLONE NEL MONDO
Prison Insider*

Il clima sta cambiando, l’ambiente si sta deteriorando e le amministrazioni penitenziarie si trovano ad affrontare ostacoli senza precedenti. Se da un lato gli istituti penali incidono fortemente sull’impronta di carbonio, per via delle loro dimensioni e del loro funzionamento continuo, dall’altro sono duramente colpiti dagli effetti devastanti del cambiamento climatico. Benché qualcosa si stia muovendo, lo slancio rimane limitato, ostacolato dagli imperativi securitari.
La direzione dell’amministrazione penitenziaria francese ha chiesto a Prison Insider di realizzare uno studio su queste tematiche, dal mese di luglio 2023 al febbraio 2024. Nella sintesi di questo studio, emergono alcuni punti principali.
Innanzitutto, il sistema carcerario, su scala globale, è molto vulnerabile agli effetti dei cambiamenti climatici. L’ubicazione delle carceri gioca un ruolo importante. La loro costruzione non ha tenuto conto dei rischi inerenti al cambiamento climatico e altri criteri erano e restano prevalenti, come il contenimento dei costi dei cantieri o la possibilità di creare posti di lavoro in aree economicamente svantaggiate. In caso di emergenza, pensiamo a un’alluvione o a un terremoto, è difficile accedere a questi luoghi di privazione della libertà, spesso costruiti in zone isolate per via delle misure di sicurezza che li circondano. La sovrappopolazione endemica, la mancanza di personale e di risorse assegnate alle amministrazioni per far fronte ai disastri ambientali complicano ulteriormente la situazione nel caso in cui sia necessario evacuare o debba intervenire la protezione civile.
Il caldo sta diventando un grave problema in molti paesi. Ciò porta a un aumento degli atti di violenza e del numero di morti in carcere. Le misure volte a mitigare la calura sono insoddisfacenti, il che spinge le persone detenute a mobilitarsi: aumentano le azioni legali, così come le rivolte e, in rari casi, le evasioni. Le forme di liberazione osservate durante il Covid-19 non si ripropongono di fronte ai disastri climatici.
Le amministrazioni adottano piani d’azione ambientale, spesso in risposta a un obbligo in capo al Governo stesso. Si stanno formando nuovi gruppi di lavoro, a livello nazionale e locale. Si sviluppano strategie volte a guidare le decisioni e trovare risorse in contesti in cui gli imperativi di sicurezza rimangono comunque una priorità.
La ricerca accademica gioca una parte importante nel convincere: spesso vengono utilizzati studi che stabiliscono una correlazione tra la quantità di spazi verdi e il livello di violenza e di atti di autolesionismo in carcere. Altre ricerche sono in corso, in alcuni Paesi, sull’impatto della temperatura eccessiva rispetto a esplosioni di violenza. Nonostante queste ricerche volte al cambiamento, il personale carcerario rimane scarsamente formato e poco consapevole delle questioni ambientali.
Alcune amministrazioni stanno adottando nuovi criteri di costruzione e ristrutturazione degli edifici per rispettare gli obblighi di riduzione della propria impronta di carbonio: utilizzo di materiali sostenibili; riduzione dell’uso del calcestruzzo; installazione di pannelli solari, pozzi trivellati, tetti verdi e finestre più isolanti; luci LED; ricambio del parco automezzi in un’ottica di decarbonizzazione nonché messa in atto di sistemi di monitoraggio e controllo dei consumi energetici e idrici.
Altre amministrazioni perseguono però piani volti a realizzare nuove carceri che vanno in controtendenza con tutto questo.
Rendere più ecologiche le carceri crea opportunità di formazione e lavoro “verdi” per i detenuti. Pensiamo alla gestione dei rifiuti, al giardinaggio, all’orticoltura. Stanno emergendo positivi esempi di autosufficienza nel settore alimentare, del bestiame e delle colture. Ma sono ancora poche le iniziative che coinvolgono una reale consapevolezza ecologica.
Pensiamo a come la considerazione delle emergenze climatiche e l’attuazione della transizione ecologica si scontrano con il paradosso di sistemi penali che tendono a creare nuovi reati legati all’ambiente, in fenomeni di carcerazione di massa poco compatibili con il declino ambientale. Anche per questo è significativo che lo stesso Comitato europeo per la prevenzione della tortura e i trattamenti o le punizioni inumane o degradanti (CPT) abbia deciso di designare, tra i suoi membri, due special rapporteur proprio sulle questioni ambientali.
* piattaforma informativa sulle carceri nel mondo



ARABIA SAUDITA: SONO PIÙ DI 100 GLI STRANIERI GIUSTIZIATI FINORA NEL 2024
L'Arabia Saudita ha giustiziato più di 100 stranieri finora quest'anno, segnando un forte aumento che un gruppo per i diritti umani ha definito senza precedenti, ha riportato l’agenzia AFP il 17 novembre 2024.
L'ultima esecuzione, avvenuta il 16 novembre nella regione sud-occidentale di Najran, ha riguardato un cittadino yemenita condannato per traffico di droga nel Regno, ha riferito l'agenzia di stampa ufficiale saudita.
Il numero di stranieri giustiziati finora nel 2024 giunge così a 101, secondo i resoconti dei media statali.
Si tratta di quasi il triplo delle cifre relative a 2023 e 2022, quando le autorità saudite hanno giustiziato 34 stranieri ogni anno.
L'Organizzazione Europeo-Saudita per i Diritti Umani (ESOHR), con sede a Berlino, ha affermato che le esecuzioni di quest'anno hanno già battuto un record.
"Questo è il numero più alto di esecuzioni di stranieri in un anno. L'Arabia Saudita non aveva mai giustiziato 100 stranieri in un anno", ha affermato Taha al-Hajji, dirigente del gruppo.
L'Arabia Saudita affronta continue critiche per il suo uso della pena di morte, che i gruppi per i diritti umani condannano come eccessivo e non in linea con gli sforzi per migliorare la propria immagine e accogliere turisti e investitori internazionali.
Il Regno ha giustiziato il terzo numero più alto di prigionieri al mondo dopo Cina e Iran nel 2023, secondo Amnesty International.
A settembre, l'Arabia Saudita ha raggiunto il suo numero più alto di esecuzioni in più di tre decenni, superando i suoi record precedenti di 196 nel 2022 e 192 nel 1995.
Da settembre in poi le esecuzioni sono continuate a ritmo sostenuto, raggiungendo il numero di 274 il 17 novembre.
Gli stranieri giustiziati quest'anno includono 21 dal Pakistan, 20 dallo Yemen, 14 dalla Siria, 10 dalla Nigeria, nove dall'Egitto, otto dalla Giordania e sette dall'Etiopia.
Ce ne sono stati anche tre ciascuno da Sudan, India e Afghanistan e uno ciascuno da Sri Lanka, Eritrea e Filippine.
Nel 2022 il Regno ha messo fine a una moratoria di tre anni sulle esecuzioni per reati di droga e proprio le esecuzioni legate a questo tipo di reato hanno fatto aumentare i numeri quest’anno.
Sono 92 le esecuzioni per reati di droga praticate finora nel 2024, 69 delle quali di stranieri.
Diplomatici e attivisti affermano che agli imputati stranieri di solito vengono maggiormente negati processi equi, incluso il diritto di accesso ai documenti del processo.
Gli stranieri "sono il gruppo più vulnerabile", ha affermato Hajji dell'ESOHR.
Non solo sono spesso "vittime di grandi trafficanti di droga", ma anche "sottoposti a una serie di violazioni dal momento del loro arresto fino alla loro esecuzione", ha detto.
L'Arabia Saudita è nota per la decapitazione dei condannati a morte, sebbene le dichiarazioni ufficiali tendano a non precisare il metodo di esecuzione.
Il numero costantemente elevato di esecuzioni smentisce le dichiarazioni del sovrano de facto dell’Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed bin Salman, che nel 2022 ha dichiarato a “The Atlantic” che il Regno aveva eliminato la pena di morte ad eccezione dei casi di omicidio o nel caso in cui un individuo abbia rappresentato una minaccia per molte vite.
(Fonte: AFP, 17/11/2024)



INDIA: ‘RIABILITAZIONE POSSIBILE’, CONDANNA A MORTE COMMUTATA IN ERGASTOLO
L'Alta Corte del Madhya Pradesh il 15 novembre 2024 ha commutato in ergastolo la condanna a morte di un uomo accusato dello stupro e omicidio di una bambina di 12 anni, osservando che in una condanna all’ergastolo c’è la possibilità di una punizione, mentre la pena di morte è "unica nel suo assoluto rifiuto del potenziale di riabilitazione e riforma del condannato".
Vishal Bhamore è stato riconosciuto colpevole il 10 luglio 2019, più di un mese dopo che la vittima era scomparsa mentre si recava al negozio per comprare la gutka (un tipo di tabacco) per suo padre. Il 9 giugno era stata presentata una denuncia di scomparsa.
Il corpo della vittima è stato trovato il 10 giugno in una fogna e un referto medico ha confermato che era stata violentata.
Secondo gli inquirenti, Bhamore inizialmente faceva parte del gruppo che era andato alla ricerca della bambina, ma in seguito era fuggito.
Nell’opporsi alla condanna a morte, l'avvocato di Bhamore, Uma Kant Sharma, ha affermato che il caso non rientra nella categoria dei "più rari tra i rari" e, pertanto, imporre la pena estrema risulta ingiustificato.
Commutando la sentenza, i giudici Vivek Agrawal e Devnarayan Mishra hanno affermato che la Corte Suprema ha stabilito che, in primo luogo, per imporre la pena di morte, un caso deve chiaramente rientrare nell'ambito dei "più rari tra i rari" e, in secondo luogo, l'opzione alternativa dell'ergastolo deve essere indiscutibilmente preclusa.
"Nelle condanne all'ergastolo, c'è la possibilità di ottenere deterrenza, riabilitazione e punizione in gradi diversi. Ma lo stesso non vale per la pena di morte. È unica nel suo assoluto rifiuto del potenziale dei condannati di riabilitarsi e riformarsi. Estingue la vita e quindi pone fine all'essere, mettendo fine a tutto ciò che ha a che fare con la vita. Questa è la grande differenza tra le due punizioni", ha affermato l'Alta Corte.
L’Alta Corte ha ribadito che per soddisfare il secondo aspetto della dottrina, devono essere fornite prove chiare sul perché il condannato non sia idoneo a nessun tipo di programma di riforma e riabilitazione.
"L’appellante non ha precedenti penali. Il tribunale non ha preso in considerazione questo aspetto. Ha solo affermato che poiché sono in aumento questi crimini contro le figlie minorenni, il che è indicativo di una mente perversa, allora, al fine di salvare i sogni dei bambini, secondo il tribunale è necessario dare una punizione definitiva a questi condannati", ha detto l’Alta Corte.
(Fonte: Indian Express, 16/11/2024)



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