NESSUNO TOCCHI CAINO - MARYAM RACCONTA SUO PADRE, CONDANNATO A MORTE IN IRAN, A RISCHIO IMMINENTE DI ESECUZIONE
NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM |
Associazione Radicale Nonviolenta |
Anno 25 - n. 5 - 01-02-2025 |
LA STORIA DELLA SETTIMANA
MARYAM RACCONTA SUO PADRE, CONDANNATO A MORTE IN IRAN, A RISCHIO IMMINENTE DI ESECUZIONE
NEWS FLASH
1. ‘NON DOVREI ESSERE PIÙ UN ‘FINE PENA MAI’, SONO SOLO UN ERGASTOLANO CHE ASPETTA’
2. RDC: CONFERMATA LA CONDANNA A MORTE DI WONDO NONOSTANTE LE RICHIESTE DEL PARLAMENTO EUROPEO
3. ARABIA SAUDITA: GIUSTIZIATO PER TERRORISMO
4. PAKISTAN: QUATTRO CONDANNE A MORTE PER BLASFEMIA
MARYAM RACCONTA SUO PADRE, CONDANNATO A MORTE IN IRAN, A RISCHIO IMMINENTE DI ESECUZIONE
Elisabetta Zamparutti
È in corso una mobilitazione internazionale per scongiurare l’esecuzione di due prigionieri politici in Iran: Behrouz Ehsani e Medhi Hassani. Un appello rivolto all’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU Volker Türk, sostenuto da circa 300 firme di esperti e attivisti, chiede di fermare le loro esecuzioni e quelle di altri detenuti politici.
Behrouz e Medhi sono stati spostati il 26 gennaio dal carcere di Evin a quello di Qezel Hessar, il che fa presagire una loro imminente esecuzione. Mentre scrivo giunge la notizia che la Corte Suprema ha ordinato una sospensione temporanea dell’esecuzione di Behrouz Ehsani. Nessun annuncio del genere è stato fatto per il suo compagno Medhi Hassani, lasciando incerto il suo destino.
I due uomini sono stati arrestati nel settembre 2022, al culmine delle proteste scoppiate dopo la morte in carcere di Mahsa Amini. Le loro condanne a morte sono state emesse il 16 settembre 2024, nel secondo anniversario delle proteste, e confermate dalla Corte Suprema il 7 gennaio 2025. Trovo inutile ripetere gli assurdi capi di accusa, perché la sostanza è una: hanno osato opporsi al regime teocratico e misogino dei Mullah. Lo hanno fatto chiedendo quel bene prezioso quanto la vita: la libertà. Con l’aggravante di averlo fatto militando nella resistenza iraniana guidata da una donna che si chiama Maryam Rajavi che si batte per un Iran libero e democratico.
Sono un’amica da decenni della resistenza iraniana e sapere che amanti della libertà oggi ci sono ma domani potrebbero non esserci più, mi porta, oltre che a sostenere l’appello, a cercare di avvicinare il mio respiro al loro, perché la mia vita vibri con la loro. Non posso parlargli, né incontrarli. Cerco di farlo attraverso Maryam Hassani, la figlia di Medhi. Lei ha 24 anni, venti dei quali vissuti in Iran dove è nata, a Teheran.
Mi parla dalla Turchia dove vive con la mamma. È lì che ha saputo dell’arresto di suo papà nel 2022. Un arresto brutale, avvenuto a Zanjan e seguito da un trasferimento verso il carcere di Evin a Teheran dove Medhi, come Behrouz, ha trascorso sei mesi in isolamento nella sezione 209, senza alcun contatto con la famiglia. Quando è uscito dall’isolamento, uno zio ha avvisato Maryam che poi va a trovarlo in carcere. Il padre racconta la violenza dell’arresto, il viaggio in autobus, poi in auto, l’arrivo in carcere, la solitudine, l’inquietudine, l’assenza di spiegazioni, la violenza, l’isolamento.
L’ultima volta che Maryam ha visto suo papà è stato sette mesi fa. La condanna a morte non c’era ancora. È stata in fila, come le altre volte, per cinque ore, dalle 7 di mattina a mezzogiorno, prima di poter entrare. Ha atteso che il detenuto venisse chiamato. Quando Medhi arriva la fanno entrare nella grande sala colloqui per oltre 100 detenuti. Le mura sono ingrigite dal tempo, le finestre oscurate dalle sbarre di ferro, si respira un odore cattivo attorno al tavolo di plastica dove avviene il colloquio che dura un’ora e mezza con le guardie che passano ogni 20 minuti per dire di uscire. In quell’incontro parlano del caso giudiziario benché non si possa liberamente scegliere l’avvocato che è il carcere a imporre. Medhi non era preoccupato per sé, quanto per la famiglia. Sapeva dai compagni di detenzione che poteva arrivare una condanna a morte ma non pensava all’esecuzione. Stava con altri detenuti politici in celle con 5 o 8 persone a volte senza il letto, costre tte a dormire per terra. Maryam racconta che suo papà è energico e spesso si trovava a confortare, sostenere e incoraggiare gli altri detenuti.
Medhi viene a sapere dai detenuti che è stato condannato a morte. Non dall’avvocato, non dal carcere, non dal magistrato. Cade nello sconforto ma trova la forza di avvisare la famiglia. L’incontro che era stato fissato con la moglie però lo cancella. L’ultima volta che Maryam ha sentito suo papà è stata due settimane fa, al telefono per 5 minuti. Stava un po’ meglio. Parlava della libertà. Chiedeva di non preoccuparsi per lui ma di occuparsi della famiglia. Poi il trasferimento da Evin a Qezel Hessar. Messo di nuovo in isolamento, come Behrouz.
Lì sarebbero rimasti se non fosse stato per la mobilitazione dei prigionieri politici affinché le famiglie fossero informate. Così la moglie di Medhi, due giorni fa, va a trovarlo. I capelli lunghi di Medhi sono stati tagliati. Il colloquio dura venti minuti e avviene attraverso un vetro divisorio.
Maryam non fa parte della resistenza ma ricorda con fierezza che il papà non ha mai permesso che la famiglia entrasse nella sua scelta di impegno politico e in quello che riteneva giusto fare. Quando gli è stata avanzata la proposta degli avvocati di “collaborare” per evitare l’esecuzione il suo rifiuto è stato netto: “non mi pento di aver lottato per la libertà”.
Elisabetta Zamparutti
È in corso una mobilitazione internazionale per scongiurare l’esecuzione di due prigionieri politici in Iran: Behrouz Ehsani e Medhi Hassani. Un appello rivolto all’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU Volker Türk, sostenuto da circa 300 firme di esperti e attivisti, chiede di fermare le loro esecuzioni e quelle di altri detenuti politici.
Behrouz e Medhi sono stati spostati il 26 gennaio dal carcere di Evin a quello di Qezel Hessar, il che fa presagire una loro imminente esecuzione. Mentre scrivo giunge la notizia che la Corte Suprema ha ordinato una sospensione temporanea dell’esecuzione di Behrouz Ehsani. Nessun annuncio del genere è stato fatto per il suo compagno Medhi Hassani, lasciando incerto il suo destino.
I due uomini sono stati arrestati nel settembre 2022, al culmine delle proteste scoppiate dopo la morte in carcere di Mahsa Amini. Le loro condanne a morte sono state emesse il 16 settembre 2024, nel secondo anniversario delle proteste, e confermate dalla Corte Suprema il 7 gennaio 2025. Trovo inutile ripetere gli assurdi capi di accusa, perché la sostanza è una: hanno osato opporsi al regime teocratico e misogino dei Mullah. Lo hanno fatto chiedendo quel bene prezioso quanto la vita: la libertà. Con l’aggravante di averlo fatto militando nella resistenza iraniana guidata da una donna che si chiama Maryam Rajavi che si batte per un Iran libero e democratico.
Sono un’amica da decenni della resistenza iraniana e sapere che amanti della libertà oggi ci sono ma domani potrebbero non esserci più, mi porta, oltre che a sostenere l’appello, a cercare di avvicinare il mio respiro al loro, perché la mia vita vibri con la loro. Non posso parlargli, né incontrarli. Cerco di farlo attraverso Maryam Hassani, la figlia di Medhi. Lei ha 24 anni, venti dei quali vissuti in Iran dove è nata, a Teheran.
Mi parla dalla Turchia dove vive con la mamma. È lì che ha saputo dell’arresto di suo papà nel 2022. Un arresto brutale, avvenuto a Zanjan e seguito da un trasferimento verso il carcere di Evin a Teheran dove Medhi, come Behrouz, ha trascorso sei mesi in isolamento nella sezione 209, senza alcun contatto con la famiglia. Quando è uscito dall’isolamento, uno zio ha avvisato Maryam che poi va a trovarlo in carcere. Il padre racconta la violenza dell’arresto, il viaggio in autobus, poi in auto, l’arrivo in carcere, la solitudine, l’inquietudine, l’assenza di spiegazioni, la violenza, l’isolamento.
L’ultima volta che Maryam ha visto suo papà è stato sette mesi fa. La condanna a morte non c’era ancora. È stata in fila, come le altre volte, per cinque ore, dalle 7 di mattina a mezzogiorno, prima di poter entrare. Ha atteso che il detenuto venisse chiamato. Quando Medhi arriva la fanno entrare nella grande sala colloqui per oltre 100 detenuti. Le mura sono ingrigite dal tempo, le finestre oscurate dalle sbarre di ferro, si respira un odore cattivo attorno al tavolo di plastica dove avviene il colloquio che dura un’ora e mezza con le guardie che passano ogni 20 minuti per dire di uscire. In quell’incontro parlano del caso giudiziario benché non si possa liberamente scegliere l’avvocato che è il carcere a imporre. Medhi non era preoccupato per sé, quanto per la famiglia. Sapeva dai compagni di detenzione che poteva arrivare una condanna a morte ma non pensava all’esecuzione. Stava con altri detenuti politici in celle con 5 o 8 persone a volte senza il letto, costre tte a dormire per terra. Maryam racconta che suo papà è energico e spesso si trovava a confortare, sostenere e incoraggiare gli altri detenuti.
Medhi viene a sapere dai detenuti che è stato condannato a morte. Non dall’avvocato, non dal carcere, non dal magistrato. Cade nello sconforto ma trova la forza di avvisare la famiglia. L’incontro che era stato fissato con la moglie però lo cancella. L’ultima volta che Maryam ha sentito suo papà è stata due settimane fa, al telefono per 5 minuti. Stava un po’ meglio. Parlava della libertà. Chiedeva di non preoccuparsi per lui ma di occuparsi della famiglia. Poi il trasferimento da Evin a Qezel Hessar. Messo di nuovo in isolamento, come Behrouz.
Lì sarebbero rimasti se non fosse stato per la mobilitazione dei prigionieri politici affinché le famiglie fossero informate. Così la moglie di Medhi, due giorni fa, va a trovarlo. I capelli lunghi di Medhi sono stati tagliati. Il colloquio dura venti minuti e avviene attraverso un vetro divisorio.
Maryam non fa parte della resistenza ma ricorda con fierezza che il papà non ha mai permesso che la famiglia entrasse nella sua scelta di impegno politico e in quello che riteneva giusto fare. Quando gli è stata avanzata la proposta degli avvocati di “collaborare” per evitare l’esecuzione il suo rifiuto è stato netto: “non mi pento di aver lottato per la libertà”.
NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH
‘NON DOVREI ESSERE PIÙ UN ‘FINE PENA MAI’, SONO SOLO UN ERGASTOLANO CHE ASPETTA’
Filippo Rigano*
Sono un ergastolano “ostativo” che alberga ininterrottamente nelle patrie galere dal 1993 del secolo scorso. Eh sì, perché bisogna fare i conti anche con il tempo che macina gli anni della vita fino alla vecchiaia, e alla morte. Quando ho varcato le porte del carcere, di anni ne avevo 36, oggi ne ho 68. Sapevo a malapena leggere e scrivere, come titolo di studio avevo soltanto la seconda elementare. Il 23 ottobre 2019, nel teatro del carcere di Rebibbia, sono riuscito a laurearmi in giurisprudenza con lode dell’Università di Tor Vergata. Ho dimostrato progressi nello studio, nel lavoro, nel senso critico del passato per cui sto scontando la mia pena. Nonostante ciò non riesco a respirare neanche un’ora di libertà. Per la legge non dovrei essere più un “ergastolano ostativo”, un “fine pena mai”. Come tanti altri, sono un ergastolano che aspetta.
Nel carcere di Rebibbia, nella sezione di alta sicurezza, il magistrato e il tribunale di sorveglianza non concedono benefici penitenziari da anni. Nessun detenuto riesce a ottenere un permesso premio o la semilibertà. Io ho presentato istanza di permesso nel lontano giugno 2020, dopo 31 anni di detenzione.
Il magistrato ha deciso e notificato il rigetto il 7 luglio 2024, dopo quattro anni e due mesi dalla richiesta e tanti solleciti.
La direzione distrettuale antimafia (DDA) aveva espresso parere contrario con le solite frasi. La cosca è ancora attiva. Si può dedurre che sia ancora legato. Essendo libero potrebbe riorganizzare. Non si esclude il pericolo di ripristino dei collegamenti… Un parere negativo privo di ogni profilo di attualità e senza tener conto del percorso rieducativo intrapreso nei lunghissimi anni di carcerazione. I giudici si accodano e rigettano. La stessa decisione ha preso il tribunale di sorveglianza di Roma. Addirittura criticando pure l’area educativa che aveva stilato una “relazione di sintesi” positiva.
Oltretutto, con questo orientamento: se la persona detenuta non viene declassificata dal circuito di alta sicurezza a quello di media sicurezza, non gli spetta niente, deve solo aspettare. E siccome non declassificano mai nessuno, tu non esci mai.
Capisco la portata del fenomeno mediatico nel caso in cui un ergastolano, dopo aver scontato quarant’anni di carcere, esce grazie a un beneficio premiale. I mezzi di informazione amplificano alcune voci presenti nella società e scatenano un putiferio per la decisione del giudice di turno, e danno vita a una campagna di disinformazione con la quale alimentano paura e in sicurezza tra la gente. Allora, i giudici di sorveglianza non concedono nulla e, probabilmente, lo fanno per non creare precedenti, ma facendo così creano un danno all’individuo e al diritto. Così, l’articolo 27, comma tre, della Costituzione va a farsi benedire.
Io ho rivisitato completamente il mio vissuto. Ho fatto tutto per dimostrarlo, ho trovato il coraggio di prendere le distanze da quel passato buio, dalle vecchie logiche e da qualsiasi forma di criminalità. La logica imporrebbe la necessità di valutare la persona per quello che è oggi e non per quello che è stato ai tempi delle sue azioni. La persona nuova che è divenuta, è conosciuta dall’equipe trattamentale dell’Istituto, non dalla DDA che conosce semmai quella di trent’anni addietro, e pensa sia sempre la stessa. Se i magistrati e i tribunali di sorveglianza non concedono benefici a detenuti con sintesi trattamentali positive fatte da tutti gli operatori carcerari, si registra un vero fallimento del reinserimento nella vita sociale del detenuto, ma soprattutto un fallimento costituzionale, quello della funzione rieducativa della pena. Questo succede perché non si crede fino in fondo alla rieducazione del condannato. Bisogna credere invece alla rieducazione e avere mo lto più coraggio nel dare fiducia e credito all’individuo che abbia dimostrato nella pena un radicale cambiamento nel senso del rispetto delle regole della Comunità, mettendolo alla prova.
La nostra Costituzione è improntata al principio di umanità e reinserimento sociale del detenuto. Che senso di umanità dimostra uno Stato che ha in mente forme punitive eterne. L’eterno non è umano, e una pena eterna non può essere che disumana. L’assoluto insito nel concetto di perpetuità ci allontana da ciò che intendiamo con la parola democrazia. La rieducazione non è un termine vuoto, privo di senso, ma il contenuto di una vita intera della persona detenuta che nella pena recupera sé stessa, specialmente quando ha capito gli errori del passato e dal male si è catapultata nel bene.
Ho trascorso 31 anni di vita in carcere per il peso gravoso dei miei reati e delle condanne riportate, ma nessuno, in nessun tempo, può arrogarsi il diritto di negare per sempre la libertà al suo prossimo.
* Detenuto nel carcere di Rebibbia
‘NON DOVREI ESSERE PIÙ UN ‘FINE PENA MAI’, SONO SOLO UN ERGASTOLANO CHE ASPETTA’
Filippo Rigano*
Sono un ergastolano “ostativo” che alberga ininterrottamente nelle patrie galere dal 1993 del secolo scorso. Eh sì, perché bisogna fare i conti anche con il tempo che macina gli anni della vita fino alla vecchiaia, e alla morte. Quando ho varcato le porte del carcere, di anni ne avevo 36, oggi ne ho 68. Sapevo a malapena leggere e scrivere, come titolo di studio avevo soltanto la seconda elementare. Il 23 ottobre 2019, nel teatro del carcere di Rebibbia, sono riuscito a laurearmi in giurisprudenza con lode dell’Università di Tor Vergata. Ho dimostrato progressi nello studio, nel lavoro, nel senso critico del passato per cui sto scontando la mia pena. Nonostante ciò non riesco a respirare neanche un’ora di libertà. Per la legge non dovrei essere più un “ergastolano ostativo”, un “fine pena mai”. Come tanti altri, sono un ergastolano che aspetta.
Nel carcere di Rebibbia, nella sezione di alta sicurezza, il magistrato e il tribunale di sorveglianza non concedono benefici penitenziari da anni. Nessun detenuto riesce a ottenere un permesso premio o la semilibertà. Io ho presentato istanza di permesso nel lontano giugno 2020, dopo 31 anni di detenzione.
Il magistrato ha deciso e notificato il rigetto il 7 luglio 2024, dopo quattro anni e due mesi dalla richiesta e tanti solleciti.
La direzione distrettuale antimafia (DDA) aveva espresso parere contrario con le solite frasi. La cosca è ancora attiva. Si può dedurre che sia ancora legato. Essendo libero potrebbe riorganizzare. Non si esclude il pericolo di ripristino dei collegamenti… Un parere negativo privo di ogni profilo di attualità e senza tener conto del percorso rieducativo intrapreso nei lunghissimi anni di carcerazione. I giudici si accodano e rigettano. La stessa decisione ha preso il tribunale di sorveglianza di Roma. Addirittura criticando pure l’area educativa che aveva stilato una “relazione di sintesi” positiva.
Oltretutto, con questo orientamento: se la persona detenuta non viene declassificata dal circuito di alta sicurezza a quello di media sicurezza, non gli spetta niente, deve solo aspettare. E siccome non declassificano mai nessuno, tu non esci mai.
Capisco la portata del fenomeno mediatico nel caso in cui un ergastolano, dopo aver scontato quarant’anni di carcere, esce grazie a un beneficio premiale. I mezzi di informazione amplificano alcune voci presenti nella società e scatenano un putiferio per la decisione del giudice di turno, e danno vita a una campagna di disinformazione con la quale alimentano paura e in sicurezza tra la gente. Allora, i giudici di sorveglianza non concedono nulla e, probabilmente, lo fanno per non creare precedenti, ma facendo così creano un danno all’individuo e al diritto. Così, l’articolo 27, comma tre, della Costituzione va a farsi benedire.
Io ho rivisitato completamente il mio vissuto. Ho fatto tutto per dimostrarlo, ho trovato il coraggio di prendere le distanze da quel passato buio, dalle vecchie logiche e da qualsiasi forma di criminalità. La logica imporrebbe la necessità di valutare la persona per quello che è oggi e non per quello che è stato ai tempi delle sue azioni. La persona nuova che è divenuta, è conosciuta dall’equipe trattamentale dell’Istituto, non dalla DDA che conosce semmai quella di trent’anni addietro, e pensa sia sempre la stessa. Se i magistrati e i tribunali di sorveglianza non concedono benefici a detenuti con sintesi trattamentali positive fatte da tutti gli operatori carcerari, si registra un vero fallimento del reinserimento nella vita sociale del detenuto, ma soprattutto un fallimento costituzionale, quello della funzione rieducativa della pena. Questo succede perché non si crede fino in fondo alla rieducazione del condannato. Bisogna credere invece alla rieducazione e avere mo lto più coraggio nel dare fiducia e credito all’individuo che abbia dimostrato nella pena un radicale cambiamento nel senso del rispetto delle regole della Comunità, mettendolo alla prova.
La nostra Costituzione è improntata al principio di umanità e reinserimento sociale del detenuto. Che senso di umanità dimostra uno Stato che ha in mente forme punitive eterne. L’eterno non è umano, e una pena eterna non può essere che disumana. L’assoluto insito nel concetto di perpetuità ci allontana da ciò che intendiamo con la parola democrazia. La rieducazione non è un termine vuoto, privo di senso, ma il contenuto di una vita intera della persona detenuta che nella pena recupera sé stessa, specialmente quando ha capito gli errori del passato e dal male si è catapultata nel bene.
Ho trascorso 31 anni di vita in carcere per il peso gravoso dei miei reati e delle condanne riportate, ma nessuno, in nessun tempo, può arrogarsi il diritto di negare per sempre la libertà al suo prossimo.
* Detenuto nel carcere di Rebibbia
RDC: CONFERMATA LA CONDANNA A MORTE DI WONDO NONOSTANTE LE RICHIESTE DEL PARLAMENTO EUROPEO
La corte d'appello militare della Repubblica Democratica del Congo ha confermato il 27 gennaio 2025 la condanna a morte di Jean-Jacques Wondo, ha riportato La Libre.
"È stato dichiarato colpevole di partecipazione a un'organizzazione criminale", ha detto al giornale il suo avvocato Carlos Ngwapitshi.
Wondo, cittadino belga, in precedenza ha lavorato come esperto militare per il Ministero della Giustizia belga. Stava lavorando come consulente a Kinshasa a maggio quando il presidente Félix Tshisekedi e il ministro dell'Economia Vital Kamerhe sono stati presi di mira in un tentativo di colpo di stato, che è stato sventato dalle forze di sicurezza congolesi. Sono state arrestate più di 50 persone, tra cui Wondo, accusato di aver architettato il tentativo di colpo di stato. Insieme ad altre 36 persone, è stato condannato a morte a settembre. Wondo ha sempre sostenuto la propria innocenza.
Dopo la notizia della sua condanna, l'FPS Foreign Affairs (Servizio Affari Esteri) a Bruxelles ha affermato di essere "sorpreso", dati gli "elementi limitati presentati durante il processo".
"La corte non ha fornito argomenti", ha detto Ngwapitshi a La Libre il 27 gennaio. "Non c'è dubbio oggi che Jean-Jacques Wondo sia diventato un prigioniero personale di Félix Tshisekedi. Una merce di scambio con il Belgio in un periodo turbolento che il Paese sta attraversando".
Dopo il verdetto, il Belgio ha richiamato temporaneamente il suo ambasciatore a Kinshasa per consultazioni, ha annunciato l'FPS Foreign Affairs. "Questa sentenza avrà conseguenze per le nostre relazioni bilaterali, che valuteremo", ha affermato il 27 gennaio.
Pochi giorni prima, il 23 gennaio, il Parlamento Europeo aveva adottato per alzata di mano una risoluzione relativa al rispetto dei diritti umani nella Repubblica Democratica del Congo.
I membri del Parlamento Europeo hanno condannato fermamente l'imposizione di condanne a morte nella RDC, inclusa quella di Wondo, oltre alle gravi violazioni del diritto a un giusto processo.
Hanno chiesto riforme del sistema giudiziario della RDC.
I parlamentari europei hanno espresso profonda preoccupazione per il deterioramento della salute di Wondo e hanno chiesto il suo rilascio immediato e l'accesso urgente alle cure mediche. Ribadendo la propria ferma opposizione alla pena di morte, il Parlamento ha esortato il governo della RDC a ripristinare una moratoria sulle esecuzioni e ad adottare misure per la completa abolizione della pena di morte.
Inoltre, i parlamentari hanno chiesto riforme sistemiche per ricostruire il sistema giudiziario come un'istituzione indipendente, equa ed efficiente che garantisca il giusto processo e protegga i diritti fondamentali.
(Fonti: Europeaninterest, 23/01/2025; Belganewsagency, 27/01/2025)
ARABIA SAUDITA: GIUSTIZIATO PER TERRORISMO
L'Arabia Saudita ha giustiziato il 28 gennaio 2025 un proprio cittadino riconosciuto colpevole di terrorismo, hanno comunicato le autorità di Riad.
Il Ministero degli Interni del Regno ha affermato che il giustiziato, identificato come Ali bin Abdul Jalil bin Mansour, aveva perpetrato diversi crimini terroristici. Aveva aggredito uomini della sicurezza, sparato loro più volte con l'intenzione di ucciderli, finanziato operazioni terroristiche tramite riciclaggio di denaro e venduto armi.
Era stato condannato a morte da un tribunale speciale, con sentenza successivamente confermata e approvata da un decreto reale.
L'esecuzione ha avuto luogo nella Provincia Orientale, ha aggiunto il Ministero degli Interni.
(Fonte: Gulf News, 28/01/2025)
PAKISTAN: QUATTRO CONDANNE A MORTE PER BLASFEMIA
Un tribunale pakistano il 25 gennaio 2025 ha condannato a morte quattro persone per blasfemia, presumibilmente perché hanno pubblicato sui social media materiale sacrilego su personaggi islamici e sul Corano. Il loro avvocato ha dichiarato che sono in corso i preparativi per l'appello.
In base alle leggi sulla blasfemia del Paese, chiunque venga ritenuto colpevole di aver insultato l'Islam o le sue figure religiose può essere condannato a morte. Le autorità pakistane non hanno finora mai applicato la pena di morte per blasfemia.
Nel caso in questione, il giudice Tariq Ayub nella città di Rawalpindi
ha dichiarato che la blasfemia, la mancanza di rispetto per le figure
sacre e la profanazione del Corano sono reati imperdonabili e non
lasciano spazio alla clemenza.Un tribunale pakistano il 25 gennaio 2025 ha condannato a morte quattro persone per blasfemia, presumibilmente perché hanno pubblicato sui social media materiale sacrilego su personaggi islamici e sul Corano. Il loro avvocato ha dichiarato che sono in corso i preparativi per l'appello.
In base alle leggi sulla blasfemia del Paese, chiunque venga ritenuto colpevole di aver insultato l'Islam o le sue figure religiose può essere condannato a morte. Le autorità pakistane non hanno finora mai applicato la pena di morte per blasfemia.
Insieme alle condanne a morte, il giudice ha imposto multe collettive di 4,6 milioni di rupie (circa $ 16.500) e ha emesso pene detentive per ciascuno dei quattro nell’eventualità in cui un tribunale superiore dovesse annullare le loro condanne a morte.
L'avvocato difensore, Manzoor Rahmani, ha criticato la decisione del tribunale e la mancanza di prove da parte delle autorità inquirenti.
"I dubbi e le incertezze che sorgono in tali casi vengono ignorati dai tribunali, probabilmente a causa della paura di una reazione religiosa e di una potenziale violenza di massa contro il giudice se l'imputato viene assolto", ha affermato Rahmani. "Stiamo preparando i nostri appelli contro la decisione e ci rivolgeremo all'Alta Corte".
Le misure anti-blasfemia introdotte in Pakistan negli anni '80 hanno reso illegale insultare l'Islam. Da allora, persone sono state accusate di insultare la religione, profanarne i testi o scrivere commenti offensivi sui muri delle moschee. I critici della legge affermano che questa venga utilizzata per risolvere controversie personali o vendicarsi.
(Fonte: AP, 25/01/2025)
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