"Il miscredente e il professore - David Hume e Adam Smith: storia di un'amicizia" di Dennis C. Rasmussen (Einaudi, traduzione di Marco Nani)
“Il miscredente e il professore. David Hume e Adam Smith: storia di un'amicizia” di Dennis C. Rasmussen” (Einaudi, traduzione di Marco Nani) è il racconto dell'amicizia fra due fra le menti più brillanti del pensiero filosofico. Un saggio dal respiro quasi romanzesco e di gradevolissima lettura che restituisce le atmosfere e gli ambienti intellettuali di quel tempo, di Edimburgo e Glasgow e che permette da un lato di approfondire l'amicizia fra Hume e Smith e dall'altro, per chi sa poco o nulla di filosofia/economia, di conoscere agilmente il pensiero di questi due straordinari uomini che hanno cambiato coi loro libri, prese di posizione, teorie il corso della storia.
Piccola nota laterale: in questi giorni si fa un gran discutere di questo o di quell'altro personaggio ma basta leggere questo libro per accorgersi di quanto il mondo di un tempo fosse davvero diverso dal nostro e si stenta persino a credere che nel 1727 fu arsa viva in Scozia una donna accusata di aver trasformato la propria figlia in un pony. Tutto qui.
Un estratto che mostra come il pensiero di David Hume e Adam Smith siano intrecciati:
“L'anno seguente Hume pubblicò ancora un'altra raccolta di saggi, questa intitolata Discorsi politici. La maggioranza dei saggi contenuti nel volume – otto su dodici – è incentrata precisamente su argomenti connessi a quella che allora veniva chiamata economia politica. All'opera manca il largo respiro e la minuzia nei dettagli di un trattato come La ricchezza delle nazioni, ma essa nondimeno restituisce un insieme di riflessioni estremamente convincenti sul commercio e sulla politica commerciale, esposte in forma chiara e di facile comprensione. Il punto di vista dei saggi è straordinariamente cosmopolita. Laddove la maggior parte dei trattatelli di economia dell'epoca cercavano di mostrare come si potessero favorire gli interessi mercantili della Gran Bretagna oppure - ciò che era equivalente agli occhi dei più – danneggiare quelli della Francia, Hume guardava al mondo del commercio con l'occhio del filosofo e dello storico, disdegnando con forza i gretti pregiudizi e le ostilità nutrite verso i paesi d'oltreconfine. Egli ammette all'inizio che i lettori potrebbero trovare le sue idee “inconsuete” o “fuori dalla via consueta”, e in effetti l'opera suona come un risoluto attacco contro il pensiero economico a quel tempo imperante. Molte delle argomentazioni di Hume anticipano quelle della grandiosa opera di Smith: la vera fonte della ricchezza di una nazione non sta nell'oro, nell'argento o in una bilancia commerciale positiva, ma piuttosto in una cittadinanza che produce; la maggior parte degli sforzi attuati dai politici con l'intento di dirigere o di regolare le scelte economiche delle persone si rivelano vani o assolutamente controproducenti; il libero scambio opera a vantaggio di tutte le parti in causa – la città e la campagna, i ricchi e i poveri, i governanti e la popolazione; i liberi mercati sono anche vicendevolmente vantaggiosi nella sfera internazionale ed è impossibile conseguire la prosperità impoverendo i paesi limitrofi. Hume perciò deplora “quegli innumerevoli ostacoli, barriere e imposte, che tutte le nazioni d'EUROPA, e nessuna più dell'INGHILTERRA, hanno frapposto al commercio”, che “non servono ad altro scopo che ad arrestare l'attività e a spogliare noi e i nostri vicini dei comuni benefici dell'arte e della natura”.
Ciò che ancor più di farsi promotore del libero scambio stava a cuore a Hume, tuttavia, era farsi promotore dell'idea di scambio in se stessa. Due tra le più venerabili tradizioni del pensiero occidentale, il repubblicanesimo civico e il cristianesimo, erano inclini a reputare il commercio, la ricchezza e il lusso quali cose per loro natura atte a corrompere. Per i seguaci di tali tradizioni, argomentare che il libero scambio avrebbe come risultato una maggiore prosperità suona più come una minaccia che come una promessa – una minaccia all'ordine pubblico, alla libertà politica, alla virtù, alla salvezza. Contro tali concezioni, che erano piuttosto diffuse nel XVIII secolo, Hume ribadiva che non vi è nulla di particolarmente nobile o redentore nella povertà né di intrinsecamente riprorevole nel lusso. Su questo più generale fronte filosofico il saggio cruciale è “Sul lusso” (che verrà ribattezzato in seguito “Sull'affinamento delle arti”), una delle più vigorose, complessive e pur tuttavia compatte perorazioni del sistema del commercio mai scritte. In netto contrasto con loro i quali si preoccupavano che il commercio e il lusso distogliessero le persone dai loro doveri più importanti – nei confronti di Dio e del paese – Hume assume che “le età raffinate sono a un tempo le più felici e le più virtuose”. Nella sua concezione, il commercio fornisce uno stimolo a essere operosi, contribuisce ad accrescere ogni genere di conoscenza e rende le persone più socievoli e più umane. In effetti, egli asserisce che operosità, conoscenza e umanità sono congiunte in una concatenazione indissolubile, e si scopre, tanto con l'esperienza quanto con la ragione, come siano appannaggio delle epoche più sofisticate, alle quali comunemente riserviamo l'appellativo di epoche dei grandi fasti”. Hume sostiene per di più che il commercio sia propizio a un governo libero nella misura in cui contribuisce a creare un “ceto medio composto di persone che sono la migliore e più salda base della pubblica libertà”. In netto contrasto dunque con chi è ad esso avverso, Hume ritiene che il commercio favorisca la virtù rendendo le persone più operose, intelligenti e umane, e poi rafforzi la collettività rendendola non soltanto più benestante ma anche più libera e più salda e disciplinata. “Né peraltro a tali vantaggi corrispondo degli svantaggi che siano in qualche proporzione rispetto ad essi”, egli ribadisce. Gli unici reali pericoli segnalati da Hume nei saggi, riguardano gli effetti dell'imperialismo e la rapida crescita del debito pubblico, e anche in questo caso egli anticipa i più circostanziati atti d'accusa del suo intimo amico.” (pp. 77-79)
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