"Topeka School" di Ben Lerner (Sellerio, traduzione di Martina Testa)




"Topeka School" di Ben Lerner (Sellerio, traduzione di Martina Testa) è un romanzo molto bello con alcune pagine/sezioni davvero splendide ma che non mi ha convinto del tutto. Talvolta la bellezza di questa scrittura/struttura finisce per appesantire il romanzo e renderlo freddo, distaccato, quasi come se si specchiasse nella propria bellezza. Il finale, con le manifestazioni anti-Trump, mi ha convinto invece quasi zero.

Ecco un estratto:

"Per lui, alle superiori, il problema era che le gare di dibattito ti rendevano un nerd e la poesia ti rendeva un frocetto - anche se entrambe le cose potevano aiutarti a raggiungere la città vagamente immaginata sulla East Coast da cui rievocare le tue esperienze a Topeka con grande ironia. La chiave era raccontare la partecipazione alle gare di dibattito come una forma di combattimento linguistico; la chiave era porsi come un bullo, rapido, veloce e spietato e pronto ad asfaltare l'interlocutore di insulti alla minima provocazione. La poesia diventava giustificabile se migliorava il suo stile, se diventava cerchio del freestyle e flow, se era uno dei motivi per cui Amber scopava con te e non con Reynolds e simili. Se la maestria linguistica poteva causare danni e farti scopare, allora si poteva integrare nella sfera sociale degli adolescenti senza distaccarsi completamente dai valori familiari dell'intelletto e dell'espressione. Non era una riconciliazione, ma una tensione sostenibile. Il suo disastroso compromesso tonsoriale.  Le emicranie.
Per fortuna di Adam, questo spostamento dell'aggressività all'ambito del linguaggio era pienamente legittimato da una delle pratiche di cui i tipi come i suoi amici si erano appropriati: dopo parecchie ore passate a bere, se la festa non veniva interrotta da una rissa o da una denuncia per schiamazzi, era facile che si assistesse all'improvvisazione di rime rap, al freestyle. Per molti aspetti quella era la più evidente manifestazione di crisi della mascolinità bianca e dei suoi sistemi di rappresentazione, un gruppetto di provinciali bianchi privilegiati che riciclavano spesso senza nessun senso del rimo i cliché dominanti, e a loro totalmente inapplicabili, di quel genere musicale. Ma per la sua vita sociale aveva un'importanza enorme: la battaglia a suon di rap tramutava la sua abilità di oratore pubblico e di aspirante poeta in qualcosa di fico. Un colpo di fortuna sbalorditivo: che esistesse uno scambio rapido e ritualizzato di insulti in rima che colmava il distacco fra i suoi sabati pomeriggio nelle scuole superiori abbandonate e i suoi sabati sera nelle case senza genitori, permettendogli la transizione da un contesto all'altro.
Mentalmente praticava di continuo qualcosa di simile al freestyle, anche se, mentre guidava, si faceva la doccia o era a letto di notte, gli capitava anche di esercitarsi a voce alta. Tipicamente era una sintesi muta e a volte solo semiconscia di asfaltatura e poesia. Una melodia che nessuno sentiva. Nella sua testa c'erano varie traccia e, per dire, su una di queste poteva condurre una conversazione con sua nonna mentre su un'altra si trovava in un immaginario cerchio di freestyle, e il lessico della sua conversazione reale a volte saltava dentro quella virtuale: Sarò la poesia che non vorresti aver mai scritto / con una citazione io ti ammazzo / mucchi di soldi da levare il sonno / per pagare la casa di riposo a nonno o qualcosa del genere, mentre aspettavano il verde al semaforo sulla Ventunesima, dopo che Adam era passato a prendere la nonna, insieme a Jane, per portarla a fare la spesa. Mi servono solo un paio di cosette. Eppure dire che si stava "esercitando" implica che avrebbe potuto decidere di smettere; in realtà, anche se spesso era quasi inconsapevole di quel susseguirsi di rime, così come si può essere inconsapevoli di un tic nervoso, non gli sembrava possibile farlo cessare." (pp. 172-174)


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