"Brevemente risplendiamo sulla terra" di Ocean Vuong (La nave di Teseo, traduzione di Claudia Durastanti)




"La cocaina mischiata all'ossicodone rende tutto veloce e fermo allo stesso tempo, come quando si è su un treno e si spiano i campi annebbiati del New England, la fabbrica di armi della Colt dove lavora il cugino Victor, la ciminiera annerita che corre parallela ai binari come se ti stesse seguendo, come se il posto da cui viene non volesse lasciarti andare. Ma', ti giuro che sprechiamo troppa gioia nel nostro disperativo tentativo di trattenerla." (pag. 223)


Questo è uno dei romanzi più belli e intensi che io abbia letto negli ultimi tempi.
Rinchiuderlo dentro una recensione sarebbe quasi come fargli del male.
Posso solo dirvi di leggerlo, un po' come quando ero un ragazzino e amici e amiche mi dicevano "Leggi questo libro, ti piacerà. Ascolta questo disco, vedrai che bomba. Poi ne parliamo" e ne parlavamo sui sedili del treno, su una spiaggia, in una stanza, davanti a un sacco di birre, fumando pacchetti su pacchetti di sigarette, parlandone al telefono, scrivendoci lettere.
Mi è entrato sottopelle in questi giorni di profonda amarezza, sconforto, zero sonno e una depressione che mi leva la voglia di mangiare
Mi ha commosso.
Ho ammirato la grazia stilistica.
Ho sottolineato e risottolineato.
Ho fatto le orecchie.
Ho respirato tanto di quell'amore da sciogliermi il cuore.
Ho pensato a Hang, la mia ex collega vietnamita e mia assoluta maestra di vita.
Ho pensato a mia madre e a quanto ci siamo amati e odiati, a come ancora oggi mi ritrovo a parlarle in silenzio immaginando che possa ancora ascoltarmi.

"Ho toccato il viso, le guance giallastre. Mi sono tastato il collo, l'intreccio sottile di muscoli proteso verso l'osso del collo che sporgeva in creste affilate. Le costole raschiate e affossate nella pelle cercando di riempirne gli interstizi irregolari, il piccolo cuore triste che ci mormorava sotto come un pesciolino in trappola. Gli occhi che non si corrispondevano, uno troppo aperto, l'altro incantato, leggermente ricoperto dalla palpebra pesante, cauto rispetto a qualsiasi luce potesse ricevere. Era tutto ciò da cui mi nascondevo, tutto ciò che mi faceva venir voglia di essere un sole, l'unica cosa che conoscevo a non avere un'ombra. Eppure son rimasto fermo. Ho lasciato che lo specchio trattenesse quei difetti perché per una volta, ormai asciutti, non mi sono sembrati sbagliati ma qualcosa che era stato voluto, cercato e trovato in un paesaggio sterminato come quello in cui mi ero smarrito per tutto quel tempo. Perché l'unica cosa da dire sulla bellezza è che è bella solo fuori da se stessa. Attraverso lo specchio, ho osservato il mio corpo come se fosse quello di un altro, un ragazzo a pochi metri di distanza, con l'espressione imperturbabile, che sfidava la pelle a restare così com'era, come se il sole, calando, non fosse già altrove, non fosse in Ohio.
Ho ottenuto quel che volevo: un ragazzo che nuotava verso di me. Solo che io non ero una riva. Ma'. Io ero un pezzo di legno alla deriva che cerca di ricordare da cosa si era spezzato per arrivare fino a qui." (pp. 133-134)




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