Intervista a Laura Harth, consigliere generale e rappresentante alle Nazioni Unite del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito




Vi propongo un'intervista che ho realizzato a Laura Harth consigliere generale e rappresentante alle Nazioni Unite del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, coordinatrice del Global Committee for the Rule of Law Marco Pannella:

Buongiorno Laura, comincio col chiederti un parere sulla vicenda della valigetta piena di soldi venezuelani per finanziare il Movimento Cinque Stelle che ha fatto tanto discutere. Ovviamente una vicenda ancora tutta da chiarire ma tu che idea ti sei fatta al riguardo? Il Movimento Cinque Stelle non ha mai fatto mistero di appoggiare il regime venezuelano e sono risaputi i rapporti in Spagna fra Podemos e il regime narcosocialista di Maduro. Com'è la situazione ad oggi in Venezuela? E ti chiedo anche, in maniera provocatoria: che credibilità ha l'opposizione venezuelana? Da tutto un certo mondo Juan Guaidó e il resto degli oppositori sono considerati come dei maggiordomi degli Stati Uniti.

Inizierei proprio da questa finale provocazione che mi sembra segnare un punto fondamentale nelle posizioni geopolitiche ma non solo. Un punto non nuovo ma certamente rafforzato in questi ultimi anni, forse proprio a partire dai vili attacchi dell’11 settembre e quel che ne fu il seguito: l’eterna critica all’America “imperialista”. È innanzitutto una tesi prontamente spinta da tutti quei regimi che a nome di ideali societari e di una presunta alterità del Sud storicamente aborrono la libertà, i diritti, la democrazia, reprimendo brutalmente le loro popolazioni. Penso innanzitutto alla Repubblica Popolare Cinese, a Cuba, allo stesso Venezuela, ma anche alle autorità palestinesi, all’Iran. Regimi non solo sanguinari e oppressori al loro interno, ma che hanno imparato benissimo come usufruire proprio le libertà di cui godiamo all’interno delle nostre società democratiche imperfette per spingere una narrativa che ci vede “deboli” da un lato - nel senso che non abbiamo la capacità di velocità decisionale che hanno i regimi autoritari - e “imperialisti” dall’altro - con la nostra volontà di vedere effettivamente riconosciuti a tutti gli individui su questa terra i diritti universalmente sanciti e sottoscritti ipocritamente dagli stessi regimi.

È una guerra ideologica a tutto tondo, nel senso in cui i regimi usano da sempre le ideologie (o le religioni): con lo solo scopo di garantire la perpetuità del loro potere. Obiettivo che nutre la paura micidiale di tutto quanto possa minacciarlo, a partire dall’attrazione che proprio quei principi negati di libertà, diritti e democrazia continuano ad esercitare su individui e popolazioni intere ovunque. Demonizzare quindi l’avversario statunitense, riconosciuto come faro ideale di quei principi, è uno degli strumenti di propaganda preferiti, e attraverso i quali i “grandi dittatori” (RPC, Cuba, Iran) cerchino di legare a sé - con sempre maggiore successo ad esempio all’interno delle istituzioni ONU - il mondo cosiddetto de-colonizzato.


Targare quindi gli unici organi costituzionali rimasti in Venezuela - il Parlamento legittimo del Venezuela e il suo Presidente ad interim Guaidó - come usurpatori della “volontà del popolo” sostenuti dalla forza imperialista statunitense non è niente di nuovo. E direi che oggi - nonostante le evidenti atrocità del regime narco-chavista di Maduro (sostenuto da Cuba, Iran, Russia e Cina ) che ha portato la sua popolazione letteralmente alla fame e alla sete, costringendo ormai 5 milioni di venezuelani a dover sfuggire dalle loro case, dalla loro patria; che ha instaurato un regime dalla paura, perseguendo, minacciando e arrestando arbitrariamente i membri dell’opposizione legittimo, i dissidenti, i difensori dei diritti; e che sta sovvertendo la sua stessa Costituzione pur di rimanere al potere dopo le elezioni farlocche condannate da mezzo mondo - forse il punto che dobbiamo risolvere in Europa è proprio questo.

Ci vogliamo prestare ad una tale narrativa, veicolata certamente come insegna la storia da valigette, incentivi e minacce varie all’interno delle nostre istituzioni - senza esprimermi sul caso specifico che sta alle procure indagare -, ma soprattutto anche da una forte crisi di consapevolezza di sé? È colpa degli americani se dissidenti e opposizioni oppressi in tutto il mondo continuino a rivolgersi innanzitutto agli Stati Uniti come faro di speranza, mentre si mostrano piuttosto rassegnati nei confronti dell’Unione europea nonostante i suoi altisonanti principi contenuti nei Trattati fondativi? È un caso se le eventuali valigette trovino una sponda non solo facile ma soprattutto efficace all’interno dei Paesi membri dell’UE? O c’è un terreno fertile, non solo in termini ideologici - sempre nella logica descritta sopra - ma anche nella mancanza di quel che chiamerei orgoglio per quel che siamo e soprattutto quel che vogliamo essere secondo quei principi?

È indubbio che anche il mondo occidentale oggi è alle prese con mille difficoltà, e sulla spinta di una propaganda autoritaria spesso veicolato dai media e politici “indigeni” - sia per ragione di contratti di cooperazione con tali regimi che per una dichiarata avversità verso il sistema democratico rappresentativo come nel caso del Movimento 5 Stelle - nonché da presunti interessi economici - che troppo spesso non sono tali come dimostrano una miriade di rapporti di istituti economici -, ha difficoltà a prendere una posizione inequivocabile. Certamente anche la delusione nel non avverarsi della teoria vigente negli anni ’90 circa l'inevitabile democratizzazione del mondo intero grazie all’apertura del sistema economico occidentale ha provocato una forte crisi di fiducia in sé, e una delle sfide maggiori oggi consiste proprio nell’individuare quegli strumenti utili ed efficaci ad affermare quel che siamo e quel che vogliamo vedere nel mondo.

Occorre perciò abbandonare questa attuale tendenza di auto-flagellazione dell’occidente secondo il nuovo mantra del politically correct per cui i nostri valori in realtà sarebbero nulla visto le colpe storiche che ci hanno portato ad affermarli. Occorre riaffermare anche al nostro interno i principi costituzionali e internazionali, anche attraverso un profondo dibattito pubblico. Le scorciatoie tipo “fermiamo il fascismo” attraverso una coalizione con un partito che dichiaratamente vuole abolire la democrazia rappresentativa costituzionale ed è guidato da una società privata non dovrebbero passare così liscio, e segnano per me un punto molto più essenziale che non quella delle valigette o non. Ci vuole una chiarezza di posizione in politica interna e estera. Posizioni di cui si possa dibattere alla luce del sole, e sui quali si possa votare senza rincorrere a slogan “contro il fascismo”. Dibattito da cui, nel caso ci fossero, gli eventuali rapporti “comprati” emergerebbero facilmente alla luce del sole.

In occasione dell’Independence Day americano questo 4 luglio, e in risposta alle polemiche che ha suscitato quest’anno, il Senatore statunitense Marco Rubio ha scritto: “Don’t just be mad at attacks on #IndependenceDay, also be grateful for the freedom to do so” (“Non essere solo arrabbiati per gli attacchi a #IndependenceDay, siate anche grati per la libertà di poterli fare”). Questa l’essenza dell’orgoglio degli Stati Uniti: nonostante le mille difficoltà, le spaccature, i grandi dibattiti, persiste la consapevolezza di sé che è proprio la libertà il valore portante che le rende visibili sì, ma che ne sarà anche la soluzione.

Questo il valore e l’orgoglio a cui aspirano in Venezuela e nei tanti Paesi oppressi da chi ha una paura micidiale che le loro popolazioni si potrebbero esprimere così apertamente, criticare apertamente, e scegliere liberamente.

Questo il vero dibattito e la consapevolezza che dobbiamo riconquistare anche qui, nella politica, nei media e nella società civile, se vogliamo essere in grado di rispondere con efficacia alle più che legittime aspirazioni del popolo venezuelano. Vogliamo estinguere le eventuali colpe storiche? Cominciamo con convinzione ad occuparci seriamente - e non soltanto “gravemente preoccuparsi” - dell’affermazione dei diritti e delle libertà delle persone viventi oggi, ovunque si trovino (e non solo quando per ragioni politicamente convenienti si trovino davanti alle nostre coste). Così magari, se un giorno si vorrebbe veramente, l’Europa si potrebbe davvero emancipare dagli Stati Uniti piuttosto che incolparli di tutti i mali del mondo salvo poi rivendicarne l’ennesimo salvataggio. Ma sono convinta che in realtà un’Europa forte e fiduciosa di sé non farebbe che rafforzare il rapporto con il nostro alleato storico.


Nel 2020 se si fa fatica a far capire che Venezuela e Cuba sono due dittature si fa ancora più fatica a parlare della dittatura della Cina comunista (oltre che, estendo il discorso, a complicità e silenzi verso il regime iraniano, russo, egiziano, delle monarchie del Golfo e la lista è lunghissima...) che viene vista come un partner commerciale indispensabile, l'antagonista degli odiati Stati Uniti e nulla si fa per la democrazia, per i diritti umani. Praticamente il Tibet è scomparso, degli uighuri non se parla mai e potremmo andare avanti per ore a elencare gli orrori del regime comunista. Si parla di cinesissazione del mondo. Che significa? E quali sono i rischi che corre l'Occidente con la Via della Seta? E come opporsi?

Parto da una nota personale. Quando all’inizio degli anni 2000 iniziai a frequentare amici italiani, mi colpì molto la presenza di “comunisti convinti” e il loro orgoglio nell’esprimere quella posizione. Non ne faccio un punto di opinione morale, ma una semplice constatazione che per una persona come me, venendo dal Belgio (ma potrebbe essere quasi qualsiasi Paese del Nord-Europa), fu inizialmente abbastanza incomprensibile. Possiamo dire che da noi - qualche associazione studentesca di ispirazione comunista e tradizionalmente spaccata in mille piccole entità di singoli individui tra leninisti, marxisti, stalinisti, chavisti, ecc. a parte - la posizione che riconosce il comunismo (reale) come emanatore di regimi sanguinari equivalenti a quello nazista è una ovvietà che solo pochi metterebbero in dubbio, e così di conseguenza la lettura circa Cuba ecc. Nel frattempo ho avuto il piacere di potermi confrontare con non pochi “comunisti” italiani - così come per i cosiddetti “fascisti” italiani -, e mi è diventato innanzitutto chiaro - per quanto la conoscenza sia molto incompiuta - che la storia politica di questo Paese è molto diversa da quella che abbiamo vissuto in altre parti d’Europa, e che non si può semplicemente paragonare quei termini nel loro contesto tedesco, sovietico, ecc. a quello italiano. È certamente un esercizio intellettualmente e politicamente interessante, ma ovviamente non l’oggetto di questa domanda. Rimane però il punto che in politica estera, dove per altri Paesi appunto queste questioni sembrano di una evidenza accecante, in Italia alcuni di quei legami e di quelle convinzioni storiche sembrano continuare a giocare un ruolo, ad esempio nei confronti della nominata Cuba, che altrimenti difficilmente mi spiegherei.

Ho fatto questa premessa però perché mentre verso Paesi come Cuba e Venezuela esistono quelle spaccature all’interno dell’UE, verso la Repubblica popolare cinese vige purtroppo una posizione fin troppo unanime e ingenua. O meglio, vigeva, perché un brusco risveglio in alcuni Paesi nel frattempo è avvenuto (va citata in particolare la Svezia che è stata minacciata duramente dalla RPC per le sue posizioni di principio). È giusto e doveroso chiamare in causa la Repubblica italiana per la sottoscrizione a marzo 2019 del Memorandum sulla Via della Seta - unico Paese del G7 a farlo, ma attenzione, non unico Paese dell’UE -, ma va sottolineato la posizione molto ambigua che molti Paesi dell’UE intrattengono da tempo con la RPC, a partire dalla Germania che è il primo partner commerciale della RPC in Europa. E se è vero che la Germania è stata più capace di altri Paesi nel proteggere alcuni individui esuli dalla persecuzione cinese, in termini politici generali si mostra spesso un freno ad una politica europea più assertiva verso il dragone come denunciato da parlamentari e attivisti all’interno della stessa Bundesrepublik. Un semplice esempio riguarda la sua riluttanza ad usare il termini “rivale sistemico” adottato dalla stessa Unione europea per ridefinire i rapporti con la Cina. Ma anche quell’appello sia dalla Cancelliera Merkel che dal Ministro degli Esteri Heiko Maas ad una “terza via europea” tra USA e Cina, avvenuto proprio nelle ore più calde prima dell’adozione finale della illegale Legge di sicurezza nazionale per Hong Kong da parte delle autorità di Pechino e a pochi giorni dall’inizio della Presidenza tedesca dell’Unione europea il 1 luglio.


Sono difficoltà che riscontriamo in tutti i grandi dossier: dalla difesa dei diritti - anche attraverso l’impostazione di sanzioni sui quali finora l’UE è rimasta silente - a questioni di sicurezza nazionale come il 5G dai giganti cinesi e la protezione dei nostri settori e delle aziende strategici. E riscontriamo anche qui la spaccatura tra Stati Uniti e UE, con quest’ultima che cerca attivamente di costruire un rapporto con la RPC nei fori multilaterali che la porta ad assumere un ruolo di leadership nei dossier sui quali gli USA si sono chiamati fuori come gli impegni degli Accordi di Parigi sul cambiamento climatico. A poco serve ricordare quanto la RPC si sia e stia dimostrando un partner inaffidabile, nella propaganda politica che fa bon ton anche in Europa. È èa volte più importante bastonare il “nemico del multilateralismo” Donald Trump che chiamare in causa chi effettivamente da anni mina quello stesso sistema volendone - dichiaratamente - riscrivere le regole nella sua immagine. Questa la “sinesizzazione" del mondo a cui andiamo molto velocemente incontro.

Nel frattempo però, va evidenziato come sul fronte “Five Eyes” (USA, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Regno Unito) e con ritardo del G7, sembra finalmente instaurarsi un minimo di compattezza nei confronti della RPC almeno per quanto riguarda la questione Hong Kong. Mi attendo che tale compattezza si trasporterà anche sul fronte 5G e infrastrutture strategiche. Tuttavia, in Europa e soprattutto in Italia la strada è ancora molto lunga e dovrebbe iniziare proprio, come hai sottolineato, dall’informazione su quel che è il regime cinese, quali sono i suoi obiettivi dichiarati e i mezzi impiegati per perseguirli.

È un regime che detiene attualmente tra 1 milione e 3 milioni di persone in veri e propri campi di concentramento (i quali - dopo aver negato la loro esistenza per un anno e mezzo - il regime chiama “campi di formazione professionale”); che sterilizza forzatamente le donne uigure per prevenire le nascite all’interno di quella minoranza etnica-religiosa; che persegue i tibetani, i cristiani, e tutte le minoranze religiose; che elimina le croci dalle Chiese; che ha imposto uno stato di sorveglianza draconiano che non solo monitora i comportamenti ma controlla e censura il pensiero. È un regime che non ha mai avvertito di motu proprio la comunità internazionale sullo scoppio dell’epidemia del coronavirus a Wuhan e che ha nascosto per buona parte di gennaio le forti evidenze circa la trasmissione dello stesso virus da uomo a uomo perché la priorità era “l’unità e la centralità della manutenzione del potere del Partito comunista cinese”. È un regime che quando incontra resistenza o critiche al suo esterno, attacca con i suoi diplomatici “guerrieri lupi” e minaccia politici e governi con gravi ripercussioni economiche. È un regime che invoca continuamente il principio di non-ingerenza (inesistente nel caso dei diritti umani universalmente sanciti e soprattutto sottoscritti dalla stessa RPC) quando un Paese terzo si esprime sulle grave violazioni dei diritti umani in Cina, ma che impone una Legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong con valenza universale che vede potenzialmente punibile chiunque esprima sostegno ai manifestanti che reclamano nient’altro che l’applicazione della loro costituzione e i loro diritti.

È un regime che ha apertamente dichiarato guerra ai principi e ai valori della democrazia rappresentativa - per le ragioni descritte sopra in quanto tali aspirazioni minano evidentemente al potere del partito unico - e che non risparmia negli investimenti miliardari per raggiungere tale obiettivo, attraverso la cooptazione di politici, accademici, aziende e società civile, ma anche e soprattutto attraverso la propaganda e l’informazione che lo stesso Xi Jinping ha definito come una delle tre “armi magiche” del Partito comunista cinese per affermare il suo modello a livello globale.

Questi i rischi che l’Occidente corre. Rischi che credo non siano mai stati così evidenti proprio durante questa pandemia e l’ondata di propaganda circa gli aiuti cinesi che gli italiani hanno dovuto assorbire. Come sempre, occorre innanzitutto fare conoscenza. Occorre capire le ragioni e gli strumenti impiegati per poter proteggere non solo il nostro sistema ma anche chi, spesso inconsapevolmente, viene strumentalizzato per portare avanti questo programma distruttivo non solo delle nostre istituzione, ma del nostro modo di vivere.

E non a caso vediamo questa accelerazione in un momento in cui i cittadini di Hong Kong ci mostrano chiaramente quanto aspirano a quel modello occidentale di libertà, dimostrando quanto sia falso quel che il Partito comunista vuole farci credere anche qua: non solo che le democrazie occidentali siano “fallite e deboli” ma anche “culturalmente relative”. Ma ogni cittadino di Hong Kong che continua ad uscire per le strade nonostante il regime di paura instaurato dimostra quanto tutto ciò non sia vero. È proprio per questo che il regime li vuole in tutti i modi reprimere. Ed è proprio per questo che noi abbiamo l’obbligo di stare fermamente con loro. A tutela loro, ma anche a tutela nostra. Perché la lotta è unica.

Negli anni ’90 Segal lanciò l’idea di “constrainment” verso la Cina: elogi e incentivi per il buon comportamento; deterrenza per i mali propositi; e - attuale più che mai - punizione quando la deterrenza fallisce. La strategia non fu mai seguita, nell’illusione che incentivando la RPC ad esempio attraverso l’ammissione nel WTO si sarebbe riformata anche politicamente. Il caso Hong Kong è un esempio eclatante di come questo non sia avvenuto, e di come l’Europa - a differenza degli USA - ancora abbia paura di implementare tale strategia. Ma la fase due è superata da un bel po’. O si decide che le violazioni devono avere un prezzo e si impongono sanzioni, o si dichiara la sconfitta (eventualmente concedendo l’asilo politico ai milioni pronti a sfuggire). Ma dobbiamo essere consapevoli che oggi è Hong Kong, domani sarà Taiwan. Per non parlare delle centinaia di milioni di persone che dappertutto nel mondo vivono sotto regimi. È ora che il “mai più” si trasformi in una chiara e implementata linea rossa. Per loro e per noi.

Quanto accade a Hong-Kong sta passando ormai praticamente sotto silenzio e le proteste non godono della stessa popolarità e attenzione di Black Lives Matter. Quali sono le prospettive delle lotte a Hong Kong e perché è importante appoggiarle.

Certamente abbiamo un mondo dell’informazione che troppo spesso tace su quanto descritto prima. A volte per ovvie e oggettive ragioni di difficoltà - come ad esempio le severi restrizioni di accesso alle regioni autonome del Tibet e dello Xinjiang per giornalisti e osservatori internazionali -, ma anche per compiacenza. Una compiacenza che certamente non abbiamo visto nei confronti delle proteste negli Stati Uniti, ma sui quali sarebbe di fondamentale importanza sottolineare quanto giustamente scritto dal Senatore Rubio: ricordiamoci che tale proteste, coperture mediatiche e critiche sono possibili solo perché in fondo - nonostante le esistenti problematiche - abbiamo un sistema che garantisce tali libertà. La copertura delle manifestazioni a Hong Kong certamente non è passata sotto il silenzio delle altre regioni all’interno della Cina continentale, e dimostra in effetti quanto quella libertà che era garantita sotto la Basic Law e grazie alla Dichiarazione congiunta sino-britannica era fondamentale per poter combattere contro un regime oppressivo che vuole mettere a tacere tutte le voci dissidenti. Ha dimostrato quanto questa libertà è essenziale per poter far conoscere al mondo quanto accade, e mobilizzare quel mondo. Le peggiori atrocità infatti si compiono sotto il silenzio assordante della censura. E, visto che citi Black Lives Matter, in una parentesi sempre sul versante mediatico: per quanto riguarda le manifestazioni negli Stati Uniti, è abbastanza sconcertante la disinformazione anche dei singoli manifestanti che certamente escono con buoni propositi, circa le radici fondamentaliste di alcune delle organizzazioni più riconosciute, e che ci riporta sulla questione del moderno politicamente corretto e la propaganda straniera. Mi riferisco in particolare alla Fondazione Black Lives Matter, sulla quale occorrerebbe perlomeno un’indagine dato i dichiarati legami tra le tre fondatrice e il regime venezuelano di Maduro, nonché le loro fondamenta - sempre dichiarate - marxiste. Emblematico il tweet della co-fondatrice Opal Tometi il 3 dicembre 2015: Currently in Venezuela. Such a relief to be in a place where there is intelligent political discourse”. (“Al momento in Venezuela. - per monitorare per conto del campo Maduro le elezioni condannate come assolutamente falsate da mezzo mondo, red. - Che sollievo essere in un posto dove vi è un discorso politico intelligente.”). Ricordiamo peraltro che tale affermazione viene fatta sotto la Presidenza Obama, a quasi un anno delle presidenziali del 2016…

Qui si torna quindi sulla fondamentale questione di cui al primo punto: il bisogno di una chiara e aperta dichiarazione delle posizioni per permettere un dibattito serio ed equo nella società. Su Hong Kong, su Xinjiang, su Tibet, sulla Russia, Cuba, Venezuela, … ma anche sugli Stati Uniti e sui nostri stessi Paesi, senza la mistificazione e la disinformazione a nome dei “buoni propositi” che in combinazione di quel che resta della libertà di espressione nelle bolle dei social media crea veramente un mix molto esplosivo. Purtroppo a volte quel modello cinese è già molto più vicino di quanto non si pensi, portando soltanto a quella polarizzazione ed estremizzazione che vediamo oggi nelle nostre società, rendendo quasi impossibile la governabilità. Coincidenza, o buona implementazione della strategia che ci vuole vedere definitivamente tramontare?

È ormai sotto gli occhi di tutto lo stato comatoso in cui versano le grandi istituzioni internazionali: ONU (tra l'altro tu sei la rappresentante del Partito Radicale presso l'ONU), OMS. Hanno ancora un senso e se ne hanno di quali riforme avrebbero bisogno?

Le Nazioni Unite sono innanzitutto un organo intergovernativo nel quale sono in gioco tutte le visioni e strategie sovra-menzionate. Nonostante il lavoro prezioso portato avanti da tantissime persone e esperti all’interno delle sue varie istituzioni e agenzie, che spesso ci forniscono conoscenza fondamentale, forse oggi occorre anche riconoscere che quel modello che voleva superare i difetti della vecchia Lega delle Nazioni oggi stia soccombendo agli stessi meccanismi. È vero che nei momenti delle grandi tragedie, o meglio dopo il compimenti delle grandi stragi dell’olocausto o dei genocidi in Ruanda o ex-Yugoslavia, si è trovato una compattezza temporanea non solo nel dire “mai più” ma nell’avanzare attivamente politiche e strumenti capaci o perlomeno concepiti con l’obiettivo di fermare la prossima strage. Ma i rapporti di forza all’epoca erano molto diversi.

Di nuovo, dall’inizio di questo nuovo millennio, è in corso una vera e proprio inversione di rotta, che sta pian piano erodendo quel che si era riuscito a strappare dalla sovranità degli Stati nazionale per tutelare effettivamente quanto sottoscritto da tutti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani degli individui. Penso alle difficoltà della Corte penale internazionale (con l’impossibilità di riferire persino chi usa armi chimici contro la sua popolazione come il presidente siriano Bashar al-Assad e i ritiri crescenti di Paesi dal suo Trattato), all’impossibilità di far passare una singola risoluzione di condanna circa i campi di detenzione di massa nel Consiglio ONU per i Diritti Umani (nonostante la sua riforma), alla crescente presenza di un dominio cinese nelle varie agenzie ONU (nessun altro Paese ne è a guida di così tanti come la RPC) e un appoggio sempre maggiore al suo progetto di riscrittura del concetto dei diritti umani, legando a sé molti Paesi contro le forze “imperialiste”. Con questo è tornato prepotentemente il dominio degli Stati nazionali e il principio di non-ingerenza da loro invocato così spesso, che annulla di fatto la conquista della Dichiarazione del 1948 e i suoi seguenti protocolli che voleva proprio anteporre ai poteri nazionali la primazia dell’individuo, chiunque e ovunque.

Le denunce sono tante, e ci sono ONG eccellenti che della denuncia hanno fatto il loro mestiere, evidenziando le evidenti contraddizioni nel sistema. Ma la grande difficoltà è ovviamente capire come uscirne.


Al di là delle singole difficoltà e sensibilità - penso agli Stati Uniti sul Trattato di Parigi, ma anche all’Italia che ad inizio luglio non si è espressa su Hong Kong -, il mondo che ancora oggi vuole affermare quei principi e che nonostante tutto ancora esiste deve trovare i mezzi di cooperare e portare avanti quel progetto per l’umanità intera (e ovviamente non nel modo in cui si propone la Cina a farlo…). Non so se sia possibile all’interno dell’ONU stessa. Certamente i rapporti di forza attuali non permettono una qualsiasi riforma che vada nella direzione da noi auspicata. Credo che urge innanzitutto compattare tutti quei Paesi che aspirano ancora all’affermazione di quei valori e principi, e di trovare i meccanismi per far crescere quel blocco che si deve adottare di strumenti nazionali (o inter-governativi al di fuori dall’ONU, come il Magnitsky Act che permette di imporre sanzioni individuali sui funzionari che si macchiano di violazioni di diritti umani) e coordinati per mettere effettiva pressione sui Paesi che violano strutturalmente tali principi. Penso anche alla possibile creazione di un Consiglio Diritti Umani “ombra”, che non raggiungerebbe la maggioranza all’interno del Consiglio stesso su determinati temi, ma che può avere una potente forza morale temuta dai regimi per la speranza che possa dare ai suoi oppositori.

Mi sembra ovvio che tale mossa deve partire dall’Alleanza Transatlantica, premesso che ritrovi la compattezza e la consapevolezza di sé sovra-descritta. Certamente mi pare difficile che la “terza via” equidistante tra USA e Cina auspicata dai Tedeschi possa migliorare la situazione, nonostante i loro appelli ad un multilateralismo rafforzato. D’accordo su quell’ultimo punto, ma con chi sottoscrive gli stessi principi di base, non con chi si propone a rovesciarli. In tal senso è da seguire con attenzione la recente proposta statunitense di lavorare verso un blocco commerciale preferenziale con chi non solo sottoscrive le stesse regole commerciali ma anche i principi democratici e dei diritti umani.

In tal senso sono anche fondamentali iniziative come quella della neo-lanciata Alleanza Interparlamentare sulla Cina che mette insieme in modo assolutamente trasversale parlamentari di ormai cinque continenti che lavorano insieme verso una strategia concreta per fare fronte alle sfide comuni che la RPC ci pone. Un modello che ricorda non solo quel famoso sogno di Marco Pannella di disegni di legge uguali proposti contemporaneamente in tutti i parlamenti, ma mette anche al centro la figura parlamentare come legittimo rappresentante politico e riconosce il valore della condivisione e del dibattito. Sono convinta che sono questi i modelli multilaterali da perseguire per il tempo a venire anche per trovare delle risposte alle attuali sfide all’interno delle istituzioni ONU.

Altra questione riguarda le agenzie specializzate come l’OMS, che invece che democratizzate credo andrebbero più che altro de-politicizzate. Troppo spesso, e in modo eclatante con l’OMS - di cui non voglio stigmatizzare i singoli dipendenti, tranne il Direttore generale - in questi ultimi mesi vediamo da un lato quanto sia difficile eseguire il loro mandato in un sistema intergovernativo quando Paesi come la RPC non collaborino, ma dall’altro anche quanto molto spesso le “evidenze scientifiche” siano basati su presupposti politici, mentre dovrebbero essere loro ad informare con evidenze scientifiche le decisioni politiche. Purtroppo, anche lì, in un momento in cui la politica anche da noi è troppo spesso sotto attacco e si vergogni ormai di sé è più facile delegare anche le decisioni politiche ad organi terzi. In ogni caso, il fatto che non si sia riusciti a garantire in modo utile l’accesso di esperti indipendenti dell’OMS alle aree interessate in Cina o di reclamare un indagine internazionale indipendente in tempi utili, dimostra ancora quanto è difficile nell’attuale quadro delle regole internazionali sulla sanità - che esistono - garantirne l’effettiva implementazione.

È evidente che servono meccanismi e organismi internazionali di coordinamento, ma se non vi è la leale collaborazione dei Paesi membri e non vi è nemmeno la volontà di punire per tale gravi violazioni e responsabilità temo sia inutile parlare di una qualsiasi riforma che possa effettivamente migliorare il quadro. E a chi parla di “democratizzazione” di tali organismi, voglio solo ricordare che persino il Partito comunista cinese si ritiene “democratico” perché lavora - a loro dire - per il Popolo, e con loro ormai una maggioranza dei Paesi all’interno del sistema ONU, tutto sotto il sistema di “un Paese, un voto”. Un’alternativa che vede una completa rottura, non solo nell’OMS ma in generale con Paesi come Cina e chi altro non viene ritenuto democratico (chi a farne il giudice poi?), non è neanche auspicabile, per quanto l’attuale cooperazione sia problematica.

Ecco perché torno ancora sulla necessità di creare sistemi di coordinazione all’interno della stessa ONU che possano avere una forza morale e di attrazione come fu nel passato, e che potrebbero nel tempo cambiare di nuovo i rapporti di forza, anche grazie alla spinta delle popolazioni stesse.


Cambio argomento e ti chiedo cosa ne pensi di questa furia iconoclasta che abbatte le statue. Su Atlantico Quotidiano c'è un bellissimo articolo di Enzo Reale, che conosci anche tu, che ne parla. Ecco io ho quasi più paura di questa ricerca di purezza che del Covid 19.


Credo di aver già fornito qualche punto di vista a riguardo. Prima di tutto credo che viviamo in uno Stato di Diritto dove vigono delle leggi che riguardano anche la distruzione della proprietà pubblica, e non dovrebbe essere il semplice appello considerato al momento “moralmente corretto” a far deviare dell’affermazione di tali leggi. Si vogliono rimuovere? Se ne dibatte nelle aule predisposte. È quanto prevede il nostro modello democratico. Personalmente trovo miope pensare che rimuovere statue, libri, ecc. possa ripararequalche cosa, visto che certamente non cancella la storia ma aiuta solo a nasconderla, il che mi pare anche contro linteresse di chi lo propone, ma capisco al contempo che certe sensibilità - non avendole vissute, non necessariamente le capisco. Ma proprio per quella ragione credo gioverebbe innanzitutto a chi le sente e le vive in maniera talmente forte, poterle spiegare in un forum democratico, e cercare di con-vincere chi oggi non necessariamente capisce. Sarebbe quella sì una riparazione che possa far sperare in un futuro diverso dal passato. Non questa attuale ondata rabbiosa che non fa che accrescere le divisioni e le incomprensioni, di cui nessuno giova.

Oltre alla ricerca della purezza - che è vero e c’è sempre qualcuno di più puro dell’altro - e i conseguenti processi pubblici a chi osa esprimere una opinione diversa di quella “accettabile” oggi, mi fa paura la conseguente autocensura che ne è conseguenza. Paura e rabbia che portano soltanto alla polarizzazione. Inoltre, spero di sbagliarmi, ma vedo anche una crescente tendenza non a chiedere l’applicazione dei diritti in ugual modo a tutti, della legge in modo uguale per tutti, e neanche più di volere a tutti i costi che tutti siano uguali - invece di individui diversi con uguali diritti come fu di moda fino a poco tempo fa -, ma di creare e distinguere tra tanti gruppi e sub-gruppi tutti in competizione tra di loro, perché uno soffre più dell’altro, perché uno ha meno attenzione dell’altro, ecc. Parlo di “uno” non nel senso dell’individuo, ma di gruppi che si combattono tra di loro e che nella loro deriva collettivista cancellano effettivamente le vicissitudini e esperienze strettamente personali che sono quelle che possano costruire ponti tra persone che a colpo d’occhio non condividono nulla.

Assistiamo alle lite tra femministe e donne trans o all’esclusione delle comunità indiane delle manifestazioni - o dai prati riservati - afro-americani perché non abbastanza “neri”… Anni fa chiesi all’attore e attivista per i diritti gay Ian McKellen se non pensava che la comunità omosessuale, per l’esperienza delle lotte che avevano combattuto e che ancora oggi combattono per i loro diritti, non era in qualche modo un soggetto per eccellenza per condividere quella esperienza e metterla a disposizione delle tante realtà oppresse nel mondo. Mi guardò come fossi un aliena. Certo, è una esperienza singola, ma la cito perché sempre più mi sembra emblematica della realtà che abbiamo intorno e alla quale continuerò ad oppormi. Forse anche qui è in atto quel che tu hai chiamato la ricerca della purezza. E se uno è sempre più puro dell’altro, se la violazione delle leggi è autorizzata per chi è più puro dell’altro, non credo ci sia da aspettarci un futuro molto migliore.

Chissà invece cosa potrebbe succedere se ci mettessimo veramente d’accordo che i diritti di chiunque vanno affermati e se ci impegnassimo insieme a farli valere, al di là di tutto quel che ci distingue - felicemente - l’uno dell’altro? Utopia?

È stato lanciato un appello per il Diritto alla Conoscenza. Ecco, se uno non avesse mai sentito parlare di questo Diritto alla Conoscenza come lo spiegheresti in due parole?

La restituzione del potere democratico ai cittadini attraverso l’informazione tempestiva e il dibattito pubblico durante tutto il processo decisionale, con chiara dichiarazione delle posizioni dei rappresentanti politici.

Commenti

  1. È storia antica, crisi economica e sociale (umana) da un lato e controllo del potere dall'altro, così per le libertà e diritti civili. Un elenco vasto, partendo dal Venezuela ci si può muovere in ogni direzione per incontrare tirannie o finte libertà, libertà che muore sempre di più ovunque... Un'intervista interessante, complimenti!, diretta e ad ampio raggio; confronto, se vuoi, anche tra una Europa del Sud e una del Nord. Tanti spunti di riflessione partendo da un comune denominatore.
    P.s. E vuoi mettere, leggere un'intervista dove non ci sono cose inventate ;)

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  2. È storia antica, crisi economica e sociale (umana) da un lato e controllo del potere dall'altro, così per le libertà e diritti civili. Un elenco vasto, partendo dal Venezuela ci si può muovere in ogni direzione per incontrare tirannie o finte libertà, libertà che muore sempre di più ovunque... Un'intervista interessante, complimenti!, diretta e ad ampio raggio; confronto, se vuoi, anche tra una Europa del Sud e una del Nord. Tanti spunti di riflessione partendo da un comune denominatore.
    P.s. E vuoi mettere, leggere un'intervista dove non ci sono cose inventate ;)

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    1. Grazie Santa. Laura è una persona in gamba, molto preparata e anche una splendida persona.

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    2. Le sue risposte lo confermano e le tue domande fanno da contraltare. Sto rileggendo con ancora più calma. Purtroppo ho problemi di connessione...

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    3. Le sue risposte lo confermano e le tue domande fanno da contraltare. Sto rileggendo con ancora più calma. Purtroppo ho problemi di connessione...

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