"Il sangue degli altri" di Frank Huyler (Einaudi, traduzione di Federica Oddera)



Maria continuava a sanguinare. L'emorragia era diventata la sua caratteristica principale, ormai. Giaceva là, e non smetteva di perdere sangue, con un ritmo che non diminuiva neppure un poco. Niente di quello che facevamo o cercavamo di escogitare sortiva alcun effetto. La ragazza era un vaso rotto, che riversava il proprio liquido giorno e notte, ma si manteneva lucida e cosciente e stava a guardare mentre il letto si inzuppava.” (dal racconto “La ragazza che perdeva sangue”, pag. 69)

Durante i mesi di lockdown ho riletto molto e fra le riletture migliori ci sono stati sicuramente i racconti di vita di Pronto Soccorso contenuti in “Il sangue degli altri. Storie di Pronto Soccorso” di Frank Huyler(Einaudi, traduzione di Federica Oddera). Qualcuno non capirà come si possa, circondati com'eravamo e come siamo da morti e brutte notizie, leggere un libro ambientato in un Pronto Soccorso.

Ma sapete, col Pronto Soccorso e col mondo ospedaliero in generale ho un rapporto di amore e odio che va avanti da anni. In un Pronto Soccorso mi hanno salvato un occhio e salvato quando avevo abusato un po' troppo di me stesso e non dimenticherò mai le mani di quella giovane infermiera che mi accarezzavano e la sua voce dolcissima che mi diceva che sarebbe andato tutto bene. In un Pronto Soccorso portarono un pomeriggio mio padre dopo una crisi epilettica causata da un tumore facciale. Spaccandogli tutti i denti ero riuscito a farlo respirare impedendogli di soffocare. Ero arrivato coi vestiti sporchi di sangue. Nell'attesa di notizie lasciai mia madre in sala d'aspetto e uscii a fumare una sigaretta. Nel parcheggio trovai una giovane tirocinante sfinita che si asciugava le lacrime con un fazzoletto. Si fece offrire una sigaretta e piangemmo insieme con lei che mi diceva che avevo tutto il collo sporco di sangue. In un Pronto Soccorso portarono due volte mia madre d'urgenza. Ricordo ancora la sufficienza con la quale ci trattarono i medici e le infermiere. Era una malata terminale, insomma cos'avrebbero potuto fare se non ripararla quel tanto necessario per farla tirare avanti ancora per qualche settimana. Insomma non era proprio in cima alla lista delle priorità. Alzai la voce, urlai e così anche mio padre ma una dottoressa ci disse con voce sottile di guardarci intorno. Vidipadri in pena per i propri figli. Vidi una giovane moglie che aspettava notizie da suo marito. La situazione era chiara, ci salirono le lacrime e uscimmo infuriati. Un dottore ci portò due caffè senza dire una parola. Ma quel gesto di cortesia ci permise di tirare il fiato.

In questa raccolta i racconti, tutti in prima persona, sono di poche pagine e raccontano la vita di un Pronto Soccorso di città, il percorso di crescita dei tirocinanti on le loro debolezze, aspettative, crisi, sogni. Racconti di salvataggi insperati, di pazienti logorroici, di dottori e primari senza vita privata, dediti esclusivamente al lavoro, schiavi di droghe e medicinali. Racconti che a ogni pagina si riempiono di morti inaspettate e di altre impossibili da evitare. Racconti di speranza, incidenti autostradali, suicidi, sangue, cicatrici, trasfusioni, notti in bianco, turni massacranti, terapie intensive, operazioni miracolose. Storie di corsie, di famiglie distrutte dai lutti, di terapie da sospendere. Storie di tutti noi scritte in maniera lucida, poetica e realistica. Storie che potranno apparire eccessive ma chiunque abbia un minimo di esperienza di ospedali si sentirà a casa fra questa pagine perché così come accade nella vita di tutti i giorni in ospedale si raccolgono ogni giorno storie incredibili di sofferenza e resurrezione, di lutti e camici sporchi di sangue.

Una raccolta da studiare per chi ha intenzione di scrivere partendo dal proprio vissuto, senza apparire ridondanti o ancorati al mero dato cronachistico.

Vi lascio alcuni spunti:

Ci impiegai ore: mi faceva male la schiena, e per il caldo avevo i pantaloni fradici sotto il camice azzurro. Non si sentiva rumore che non fosse il sibilo regolare del respiratore. La morbida pelle bruna intorno all'occhi ricordava quella di un bambino; lo sguardo rimase sempre rivolto verso l'altro e la pupilla non si mosse mai, neppure mentre cucivo la palpebra, facendo bene attenzione a non ferire l'occhio con la punta dell'ago. Quando ebbi finito, mi fermai con le mani tremanti, mi raddrizzai, mi allontanai dal letto. Lui giaceva imbacuccato nelle coperte, e soltanto allora vidi, nell'avvallamento che si formava tra le ginocchia, la penna d'aquila e il sacchetto di plastica gonfio di polline giallo, lasciati dai familiari perché il loro congiunto si salvasse.

La mattina dopo tornai a controllare il mio operato. La faccia sembrava intatta; soltanto le sottili linee azzurrine delle suture in nylon tradivano le dimensioni della ferita. Soltanto dopo un lungo minuto passato ad ammirare il lavoro me ne accorsi: il ronzio del respiratore, che mi aveva tenuto compagnia per tutto il tempo giorno prima, non si sentiva più, e l'uomo era morto.” (dal racconto “Una bella cicatrice”, pp. 27-28)

La mandibola cedette senza fare resistenza e l'infermiera puntò la luce direttamente sul cavo orale. Somigliava a una minuscola caverna rosea. E dentro c'erano decine di vermicelli bianchi. Mentre li osservavamo si mossero e si ritirarono in più oscuri recessi, al riparo dalla luce, sparendo nel giro di pochi secondi. - Oh mio Dio, - esclamò uno dei tirocinanti. - Quelle sono larve. Ha delle larve in bocca.

Un'esplosione di commenti colmò la stanza. Eravamo inorriditi, ma anche eccitati, la stanchezza svanita di colpo. L'uomo brulicava di insetti, e chiedemmo all'infermiera di ripetere l'operazione. Facemmo a turno, spegnendo la luce per un minuto o due, finché le larve non tornavano a mostrarsi, e poi riaccendendola, affascinati dalla loro fuga nelle tenebre. - Ciò che dobbiamo fare, - disse il dottor Whistle ridacchiando – è legare con uno spago una fetta di bacon e lasciargliela in bocca per un po'. Ho già visto accadere come del genere. Ecco perché qui al reparto di terapia intensiva non ci piacciono le mosche.” (dal racconto “Il segreto”, pag. 88)

Le avevano somministrato delle zucchero. Al pronto soccorso la glicemia era risalita abbastanza perché la bambina apparisse normale e si comportasse come al solito, ma la situazione non sarebbe rimasta a lungo così. Più tardi nella notte, quando tutti si fossero addormentati, il livello degli zuccheri avrebbe subito un nuovo calo, e forse la piccola non si sarebbe svegliata più.

Guardando la bimba che correva e saltava intorno a noi, il dolore della puntura già dimenticato, mi sentii in preda alla nausea, bloccato da un senso di gelo e madido di sudore, terrorizzato da ciò che avevo rischiato di trascurare. Una domanda, un ripensamento. Niente di più.

Ogni tanto penso a lei. Me la immagino intenta a giocare al parco, a rotolarsi sul divano, a strillare nella vasca da bagno. Immagino il pullulare di minuscoli pensieri nella sua testolina, i movimenti delle mani, gli occhi; la vedo avviarsi verso la vita, avanzare nel mondo, entrarci dentro, un decennio dopo l'altro.” (dal racconto “Zucchero”, pp. 113-114)




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