"Fratelli e custodi" di John Edgar Wideman (Minimum Fax, traduzione di Delfina Vezzoli e Michele Ulisse Lipparini)



Non ho mai invidiato quelli che hanno sempre avuto lunge recensione da scrivere attorno a un libro. Sempre e comunque. Che descrivono trama e bla bla bla bla. A proposito di questo posso solo dirvi che se vi interessa di gustizia e carcere, se non siete dei forcaioli, se siete interessati a quanto accade negli Stati Uniti e nelle periferie, al tema della segregazione razziale e alla vergogna di cosa siamo allora leggete “Fratelli e custodi”di John Edgar Wideman (Minimum Fax, traduzione di Delfina Vezzoli e Michele Ulisse Lipparini). Leggetelo, meditateci sopra, ascoltate la voce di questo libro, uscito originariamente nel 1984 e che non ha perso un cazzo della sua cruda attualità, scritto straordinariamente bene e poi andate a fare due passi, spegnete tutto, chiudete gli occhi e respirate.

Un estratto:

Forse Jamila è un parametro anche per te. Anni espressi in termini di chili e centimetri. I cambiamenti nel suo corpo sono la realtà del tempo che passa, la realtà meno osservabile nel tuo aspetto esteriore. La gente mi chiede: Come sta Robby?, e io non so cosa rispondere. Se dico: Sta bene, la gente pensa significhi che è ancora lo stesso. È ancora la persona che conoscevamo quando era libero. Non voglio dare a nessuno questa impressione di te. So che stai cambiando, stai crescendo altrettando in fretta di Jamila. Nessuno sconto il suo tempo fuori dal tempo. C'è una concezione ristretta del tempo alla base della logica distorta della carcerazione, il tempo inteso come strumento di scambio, al pari del denaro che può esser espeso, guadagnato, perso, dovuto, o rubato. Quando una persona è giudicata colpevole di un crimine, lo Stato espropria quel criminale di un determinato numero di giorni, mesi, anni. Il tempo paga il crimine. Cedendo una certa porzione della sua parte di tempo sulla terra, il malfattore paga il suo debito alla società. Ma come fa una persona a scontare un tempo fuori dal tempo? Dato che una persona non può essere tagliata fuori dal tempo a meno di ucciderla, quello che la prigione fa ai suoi detenuti è rendere il tempo più penoso e sgradevole possibile. Il tempo della prigione dev'essere un tempo duro, una morte metaforica, una prolungata condizione prolungata di morte-in-vita. La vita del prigioniero viene interrotta con violenza, chiusa tra parentesi. Lo scopo è creare l'illusione che egli non esista. La prigione è un'esperienza di morte in centimetri, minuti, ore, giorni. Eppure la piccola morte di una condanna all'ergastolo non uccide il prigioniero, perché le prigioni, nonostante la loro capacità di rendere insopportabile la vita del detenuto, non possono uccidere il tempo. L'incarcerazione in quanto punizione ottiene sempre di meno e di più del proprio intento. Per quanto drasticamente possiate privare un prigioniero dei benefici della società, per quanto possiate ridurre i suoi ridurre civili, per quanto possiate abbatterlo e torturarlo, non potete privarlo del suo tempo. Molti detenuti muoiono di morte violenta in prigione, quasi tutti soffrono in modi che chi sta fuori non può comprendere, ma la vita continua, e poiché lo fa succedono dei miracoli. I corpi languiscono, gli spiriti sono spezzati, eppure in alcuni rari casi la cella del carcere diventa la cella dell'esilio del monaco, un ritiro spirituale dove l'isolamento è la beata solitudine necessaria all'autoesame, all'autodisciplina. A dispetto di tutte le misure che la società occidentale impiega per secolarizzare il tempo, il tempo trascende l'ordine sociale convenzionale. I prigionieri possono essere strappati a quell'ordine, ma non al tempo. Il tempo ci imprigiona tutti quanti. Quando il prigioniero rientra nella società dopo aver scontato la sua pena - “servirà il suo tempo”, come si dice nella nostra loingua – in un certo senso non è mai uscito. I prigionieri non possono bagnarsi due volte nello stesso fiume – la prigione può averli resi inadatti a vivere nella società libera, la prigione può aver cambiato radicalmente il senso di sé del prigioniero, il suo rapporto con la famiglia e gli amici – ma il fiume non scompare mai; apre un varco nelle mura, le inonda, inonda noi. Noi fingiamo soltanto che il prigioniero se ne sia andato.” (pp. 79-81)

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