"Il circolo Bellarosa" di Saul Bellow (Mondadori, traduzione di Pier Francesco Paolini)

 

“Il circolo Bellarosa” è una delleultime opere di Saul Bellow (Mondadori, traduzione di Pier FrancescoPaolini), pubblicata nel 1989 e che racchiude/conclude tutto il percorso esplorativo operato dallo scrittore statunitense sull'universo ebreo americano e che è una spietata, ma anche commovente, radiografia del tema della memoria come possibile zavorra, del vivere nell'eterno presente, del bastare a se stessi. Seguendo una storia che mescola Olocausto/ricchezza/menzogna/immigrazione/denaro/assimilazione (con lo splendido personaggio femminile di Sorella) si ritrova tutto il Bellow, seppur qui non allo stesso livello delle sue opere migliori (in questi giorni di lockdown provate a leggere "Herzog"), spiazzante, pungente, logorroico, mai accomodante, borioso, crudele, malinconico e con quel suo stile capace di portarti ovunque.

 

Due estratti:

Io stesso mi ero sovente posto scomodi interrogativi in merito alla americanizzazione degli ebrei. Si poteva anche partire dalle differenze fisiche. Mio padre misurava di statura un metro e 65 scarsi; io sono alto un metro e 85. A mio padre questo sembrava, in certo qual modo, uno stupido spreco. Per motivi forse biblici: infatti, il re Saul – che soverchiava gli altri di tutta la testa e le spalle – era verruckt: demente e dannato. Il profeta Samuele aveva ammonito Israele di non darsi un re, e Saul non incontrava il favore dell'Eterno. Quindi non occorreva che un ebreo fosse indebitamente grande e grosso, ma gli conveniva essere ben fatto, forte e tarchiato. La cosa più importante era essere destri e aver prontezza di spirito. Tale era mio padre, e tale avrebbe preferito che io fossi. La mia altezza era superflue, avevo troppo torace, troppe spalle, grosse mani, una bocca larga, un cespuglio di baffi neri, una voce troppo forte, eccessivi capelli; le camicie che rivestivano il mio tronco avevano troppe righe rosse e grigie, cretinamente vistose. Gli sciocchi dovrebbero essere di formato più ridotto. Un figlio grande e grosso era una minaccia, un parricida. Orbene, Fonstein – nonostante le corte gambette – era un uomo come si deve, ben proporzionato, schietto, sensato e intelligente. Il suo sviluppo era stato accelerato dall'hitlerismo. Perdere il padre a quattodici anni mette fine all'infanzia. Eppoi, lui aveva sepolto la madre in un cimitero straniero, neanche il tempo di piangerla, e, beccato con documenti falsi, era stato messo in gattabui (in yiddish si dice Er hat gesessen si era seduto). Un uomo che conosceva il dolore. Uno che non aveva tempo per gli scherzi, le frivolezze, per risate cretine, per scavalcare i muri, per effeminatezze o capricci infantili. Io non ero d'accordo con mio padre, naturalmente. Erano più grandi e grossi, quella mia generazione, poiché si erano nutriti meglio. Eravamo, inoltre, di vedute meno anguste, godevamo di più ampie libertà. Su di noi, negli anni formativi, agirono più disparate influenze e una più vasta gamme di idee: figli di una grande democrazia, avvezzati all'eguaglianza, vissuti all'altezza di essa senza steccati che ci confinassero. Diamine, fino alla fine dell'Ottocento gli ebrei, a Roma, dovevano ancora starsene rinchiusi nel ghetto, la notte; il Papa vi si recava, ritualmente, una volta l'anno e sputava, liturgicamente, sui paludamenti del Rabbino capo. Eravamo frivoli e sventati, adesso, qui? Nessun dubbio al riguardo. Ma non v'erano carri bestiame ad attenderci per portarci ai campi di concentramento e alla camere a gas. Uno può pensarci, a cose simili – starci a pensare e pensare – ma queste meditazioni storiche non risolvono nulla. Riflettere non accomoda niente. Nessuna idea è più di una immaginaria potenzialità, una nuvola a fungo (che nulla distrugge, nulla crea) la quale si leva dall'accecante consapevolezza.” (pp. 36-37)

Capivo Sorella: scopo delle sue ricerche era di dare aiuto a suo marito. Questi era vivo, oggi, perché un piccolo impresario ebreo si era ficcato in quella sua testa bizzarra di organizzare un salvataggio stile Hollywood. Io venivo invitato a meditare su temi quali: Può la morte essere comica? Oppure: Chi ride per ultimo? Non mi andava, però. Prima ti ammazzavano, quei signori, poi ti costringevano a meditare sui loro crimini. Mi sentivo soffocare. Andare alla ricerca delle cause era un'orrenda imposizione aggiunta alla “selezione” originale, alle camere a gas, ai forni crematori. Non volevo pensare alla storia e al sostrato psicologico di quegli abominii, campi di morte e forni. Anche le stelle sono forni nucleari. Queste cose sono assolutamente al di sopra delle mie facoltà, si tratta di una vana esercitazione. Eppoi il consiglio che davo – mentalmente – a Fonstein era: Dimentica. Fatti americano. Occupati dei tuoi affari. Vendi i tuoi termostati. Lascia la parte teorica a tua moglie. Lei ha una predilezione per questo, ed è una donna in gamba. Se le piace mettere insieme una biblioteca sull'Olocausto, e vuole meditare sull'argomento, perché no? Forse scriverà lei stessa un libro, sui Nazisti e l'industria dell'intrattenimento. Morte e Fantasie di Massa. Il mio sospetto era che vi fosse un tanto di fantasia incorporato nell'obesità di Sorella. Essa era biologicamente drammatizzata in onde e rotoli di ciccia.” (pp. 42-43) 

 

(The Orchids)

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