"Il feudo" di Daniel Lopez (Sellerio, traduzione di Marina Di Leo e Giulio Sanseverino)

 

Mi fermo davanti allo specchio che riveste il muro dello spogliatoio, e saltello sul posto. Mi giro verso gli altri e loro mi imitano. Restiamo così per un minuto buono, rilassiamo le braccia, distendiamo le spalle. Poi cominciamo lo shadow boxing. In pratica consiste nel portare combinazioni di pugni a vuoto contro un avversario immaginario. In genere non me lo immagino molto alto, perché sono abituato ad affrontare tipi più bassi di me, in rapporto alla corporatura della mia categoria. Cerca di entrare nella mia guardia, perciò tengo la distanza. Al minimo tentativo di assalto, mi scateno. Se usi bene l'allungo puoi fare dell'avversario quello che vuoi. Io mi diverto a esasperarlo finché non si lancia come un pazzo. E lì comincio ad assistere montanti. Per il momento gli tiro un jab, un diretto portato col braccio avanti a stantuffo. È il colpo principe, quello che da solo dimostra che il pugilato non è uno sport da bruti. Serve a tutto, a difendersi, a preparare un attacco, a proteggersi, a spostarsi, fintare, spezzare la guardia, introdurre una combinazione, rompere il ritmo dell'avversario. A dare l'impressione di boxare quando non ne hai voglia. Puoi vincere un incontro anche solo con il jab. Io sono un pugile sfuggente, punto tutto sulla distanza e sul contrattacco, quindi a me serve principalmente per allontanare l'avversario e impedirgli di organizzarsi. Nello shadow, non avendo nessuno davanti, tanto a fare quello che mi pare e piace. Colpisco, mi sposto, ripeto schivo, esco contrattacco. Un festival. Jonas! Sinistro sinistro destro e il resto scordatelo! Il signor Pierrot sa che durante lo shadow io immagino di mandare gli avversari al tappeto, e di prenderli l'uno dopo l'altro, a volte contemporaneamente, e di staccargli la testa. Si vede subito. Non è serio. Gancio sinistro al fegato, con lo stesso braccio dal basso gli scarico un montante sul mentoo, rientro con un destro alla mascella e concludo con un gancio sinistro sulla tempia. Il tizio se ne ricorderà per tutta la vita. Poco ci manca e alzo le braccia in segno di vittoria.” (pp. 25-26)

Romanzo bellissimo “Il feudo” di David Lopez (Sellerio, traduzione di Marina Di Leo e Giulio Sanseverino) e altro romanzo che entra, mentre il freddo e la depressione mi prendono alla gola, nel gruppo che comprende i migliori letti quest'anno. Vincitore del Prix du Livre Inter e del Premio Fondazione Primoli 2018. Ipnotico, trascinante, dissacrante, torrenziale, durissimo e con dentro tanta tantissima boxe raccontata in modo semplicemente fantastico. Per un romanzo che vive di una lingua, come giustamente osserva Montefoschi “né orale né letteraria”, è inutile e dannoso sprecare altre parole tranne per dire che mi manca tantissimo seguire a un vero e proprio incontro di boxe.

Mi accendo la canna. Stracarica. Tossisco quasi a ogni tiro. Mi sento le tempie in ebollizione, le palpebre pesanti. Ho messo un video di boxe in sottofondo. Al buio, con solo la luce del portatile, tutto quello che mi circonda è come risucchiato nel nulla. Il fumo dello spliff, marrone, avvolge i pugili. La brace, rossa, disegna delle curve quando scrollo la cenere. Per vedere quando mi resta da fumare metto la canna davanti allo schermo. Mi sta già facendo effetto. Ne resta un bel po'. Ci tengo a finirla, ma sonnecchio tra una boccata e l'altra. Sto bene, così. In questa bolla devo rendere conto soltanto alla parte più condiscente di me. Quella che approva tutto basta che la si perdoni. È il mio posto. Posso poltrire, posso marcire, non preoccuparmi di niente, non sento alcun dolore.” (pag. 192) 

 

(ORA X)

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