"Shorts" di Vitaliano Trevisan (Einaudi)
Sono molto legato a “I quindicimilapassi” di Vitaliano Trevisan, uscito nel 2002 per Einaudi. Mi è capitato di rileggerlo durante il lockdown trovandolo uno dei migliori romanzi italiani usciti negli ultimi vent'anni. Stamattina ho riletto “Shorts” (Einaudi, 2004) composto da brani brevissimi di due, tre pagine al massimo che vi consiglio tantissimo se avete voglia di testi brevi, molto musicali e con una fortissima tensione etica.
Ve ne lascio due: “Lupo”
“Del lupo aveva sempre avuto paura. Semopre, quando era piccolo, sua madre gli diceva che un giorno il lupo sarebbe venuto e l'avrebbe mangiato, perché era proprio cattivo, certe volte. Il lupo mangia i bambini cattivi. Lui il lupo se lo figurava nero, enorme, i denti bianchi scintillanti, la bocca bavosa e gli occhi piccoli e cattivi. Sebbene non lo avesse mai veduto, era certo che fosse nascosto in un punto preciso, anche se vario, dunque, per essere esatti, in più punti precisi: nello sgabuzzino sottoscala, di fianco al corridoio che attraversava sempre di corsa, quando doveva andare al bagno da solo, e sul pianerottolo, in quell'angolo buio che non si illuminava mai neanche quando si accendeva la luce. Per tutta la sua infanzia, non dubitò mai, neppure per un momento, dell'esistenza del lupo. Che non riuscisse mai a vederlo, era segno che il lupo sapeva nascondersi molto bene: si nascondeva in posti bui perché era di colore buio; non lo aveva mai sentito ringhiare né ululare, perché non ululava né ringhiava proprio per non farsi sentire. Tutto insomma confermava la sua esistenza. Durante l'adolescenza ebbe dei dubbi, ma al bagno andava sempre di corsa e così per le scale. Prima di chiudere la porta della sua stanza, controllava sempre il pianerottolo, accendendo e spegnendo più volte la luce. Divenuto più grande, lasciò la sua casa e si liberò così del lupo. Si sposò e andò ad abitare in un'altra città. I suoi genitori morirono, ma lui non tornò ad abitare nella sua casa di bambino, perché ormai la sua vita si era sviluppata altrove. Gli anni passarono. Sua moglie stava per dargli un figlio. Un impulso, forte quanto inspiegabile, lo spinse a visitare la casa della sua giovinezza. Forse è ora di venderla, pensava. Tornò nella sua città, che non riconobbe quasi più, e si recò subito a visitare la casa. Quando salì le scale per andare nella sua camera, controllò bene il pianerottolo, e così fece anche prima di entrare in camera e così quando decise di uscirne. Ripercorse il corridoio per andare al bagno e, a un tratto, lo prese una grande paura. Guardò la porta dello sgabuzzino sottoscala e pensò che era ora di finirla, che alla sua età era assurdo avere ancora di queste paure. Che stupido, pensò, ho ancora paura del lupo. Trasse un profondo respiro e aprì con decisione la porta dello sgabuzzino. Dopo qualche giorno la moglie, terribilmente in apprensione, denunciò la sua scomparsa alla polizia. Non è mai stato via così tanto senza telefonare, disse alla polizia. Se n'era andato tre giorni fa e da allora non aveva più avuto sue notizie. Sì, disse, mi aveva detto che voleva andare a visitare la sua vecchia casa. La polizia trovò il suo corpo nello sgabuzzino sottoscala, la gola squarciata. Il sangue ormai secco, disegnava per terra una grande macchia nera di forma indefinita.” (pp. 55-57)
e “Piccioni” che mi ha fatto ricordare tutti gli uccellini che ho mangiato per un sacco di anni nella mia vita:
“Lavorare sui tetti, ogni giorno almeno un tetto diverso, ha i suoi vantaggi. Il mondo, visto dall'alto, sembra un mondo meno brutto, le città sono città viste dall'alto, le zone industriali zone industriali viste dall'alto, tutto assume dunque un aspetto diverso, un aspetto dall'alto, comunque migliore del normale aspetto dal basso. E poi arrampicarsi sui tetti e camminare su quei tetti ci piace, non sappiamo esattamente perché, ma ci piace, abbiamo la sensazione di essere bambini che ogni giorno vanno a giocare proprio là dove la mamma non vuole assolutamente che vadano a giocare. Comunque la storia è questa:
Eravamo sul tetto di un condominio di sette piani, per cambiare tutte le grondaie, in lamiera verniciata, con grondaie nuove, in rame, e andavamo avanti e indietro con i pezzi di grondaia sulle spalle, converse batti-acqua eccetera. Tojo, il nostro capo, stava saldando un pezzo di grondaia vecchia, e sotto la falda troviamo un nido di piccioni con dentro due uova di piccione. Prendiamo in mano le due uova e pensiamo: due uova di piccione, abbiamo trovato due uova di piccione. Ehi Tojo, gridiamo, guarda: due uova di piccione! Lui si alza, ci raggiunge sul colmo e fa: Ah, due uova di piccione, dice, come se fosse la cosa più normale del mondo. E poi fa: Sai, dice, una volta, quando ancora lavoravo con mio padre, un giorno andammo a sistemare il tetto di un campanile. Facemmo tutto il lavoro all'esterno e poi andammo dentro la cuspiede per sistemare due eo tre cosette. Be', dice Tojo, dentro la cuspide trovammo decine di nidi di piccione, tutto pieno di nidi di piccione, e in ogni nido c'erano due piccoli che ancora non sapevano volare. Venivano fuori con la testina dal nido, due testine ogni nido e tutta la cuspide era piena di testine, una cosa impressionante. Dev'essere stato bello, diciamo noi, con le uova di piccione in mano. Be' insomma, fa Tojo con la lancia ancora accesa in mano. Comunque fa, mio padre mi fa: Vai giù, prendi le reti per le finestre e un sacco, muoviti. Vado giù, prendo reti e sacco e torno su di corsa. Bene, fa mio padre. Prende le reti e chiude con le reti tutte le finestre. Poi prende il sacco, afferra i piccoli di piccione uno per uno, li tira fuori dal nido, gli tira il collo uno per uno e li getta dentro il sacco. Non se n'è fatto scappare uno. Ma, diciamo noi, e le reti? Perché le reti alle finestre se i piccoli non sapevano volare? Ah, fa Tojo, le reti non erano per loro, erano per non far entrare i padri e le madri. Dovevi vederli: sembravano impazziti!, se fossero riusciti a entrare ci avrebbero fatti a pezzi. E poi?, chiedemmo. Ahhh, fa Tojo, uno spiedo come quello me lo ricorderò per tutta la vita. Rimettemmo le uova al loro posto e riprendemmo a lavorare, perché, come sempre, avevamo fretta.” (pp. 89-91)
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