"Un cazzo ebreo" di Katharina Volckmer (La nave di Teseo, traduzione di Chiara Spaziani)

 

 
 "Ma persino oggi, dottor Seligman, un ebreo vivo genera in un tedesco una certa eccitazione, è qualcosa a cui non ci hanno preparato da piccoli. Siamo stati abituati soltanto a ebrei morti o disperati che ci guardano da innumerevoli fotografie grigie, o da qualche remoto luogo d'esilio senza mai sorridere, e noi perpetuamente debitori nei loro confronti. E il nostro unico modo di farci perdonare da voi è stato trasformarvi in creature magiche, dotate di una polverina miracolosa che esala da ogni poro, intelligenza superiore, nomi curiosi e briografie infinitamente più interessanti. Nella nostra immaginazione nessun ebreo potrebbe mai essere un tassista e nel mio libro di teologia c'era persino una pagina dedicata agli ebrei famosi. E quando facevamo lezione di musica dovevamo cantare Hava Nagila in ebraico, dottor Seligman, trenta bambini tedeschi e neanche un ebreo in lontananza e noi cantavamo in ebraico per assicurarci di restare de-nazificati e profondamente riguardosi. Ma non siamo mai stati in lutto, semmai ci comportavamo assecondando una nuova versione di noi stessi - istericamente non razzisti in qualsiasi circostanza, e pronti a negare sempre qualsiasi differenza. All'improvviso c'erano soltanto tedeschi." (pag. 25)

Certo scegliere come titolo per un romanzo "Un cazzo ebreo" (titolo che a me piace tantissimo nella sua forza espressiva mentre in originale è un po' piu' sfumato: "The Appointment. Or, The Story of a Jewish Cock") potrebbe sembrare una mossa dettata dalla furbizia, dalla volontà di scandalizzare, da meccanismi editoriali ma  basta tuffarsi in questo monologo lungo poco più di cento pagine scritto dalla tedesca, ma che vive a Londra, Katharina Volckmer (La nave di Teseo, traduzione di Chiara Spaziani) per innamorarsi immediatamente di questo incredibile romanzo, spiazzante, dissacrante, commovente e scritto veramente da Dio. 
 
Altro che fumo negli occhi, altro che stronzata che dura il tempo di una stagione. 
Qui c'è un'autrice al suo esordio dotata di una voce a cui non sono riuscito a resistere. 
Mi sono alzato alle tre di mattina e l'ho letto tutto d'un fiato uscendone letteralmente inebriato.
 
"Ma quando ero più giovane pensavo sempre che il solo modo per superare davvero l'Olocausto sarebbe stato amare un ebreo. E non semplicemente un vecchio ebreo qualsiasi, ma uno fatto e finito, con i boccoli e lo zucchetto. Uno devoto che sa leggere la Torah e non esce mai di casa senza un cappello nero. Lo so che era un'idea di cattivo gusto e glielo sto dicendo solo per farle capire da dove vengo e forse anche per confessarle che ho sempre avuto un debole per quei boccoli. Io stessa ho attraversato una fase in cui mi mettevo i bigodini ogni sera per fingere di avere quei capelli mossi che odiavo così tanto, e adoravo l'idea che un uomo facesse la stessa cosa, sembrava tutto improvvisamente più fluido e mi sentivo meno ragazzina nel farlo. Continuo a pensare al gesto di srotolarsi i bigodini a vicenda al mattino, a come sarebbe stato dolce. Ma ovviamente non ha alcun senso pensare di poter compensare un crimine per conto di qualcun altro e che la mia altrimenti inutile vagina possa divenire improvvisamente un simbolo di pace accogliendo uno di quei bellissimi cazzi circoncisi." (pag. 68)

Che cos'è alla fine "Un cazzo ebreo"? È un romanzo dal fascino rothiano (ovvio ritrovarci Il lamento di Portnoy), impregnato di umori alla Thomas Bernhard e, forse esagero, quella stessa libertà profetica che pulsa nelle opere di Michel Houellebecq. È una lunga seduta che diventa riflessione potentissima sulla libertà, sul sesso, sui surrogati del sesso, sui desideri soffocati per paura di essere considerati dei mostri, sul ruolo della donna, sulla famiglia come prigione eterna, sul corpo e sulle sue possibili trasformazioni/esplorazioni, sulla nostra società vittima del conformismo, sul peso di passato che non potrà mai essere trasformato, sull'Olocausto, sulle fragilità che ci fanno avvizzire, su quel mistero che è l'amore. 
 
Vi sembrerà tanta carne al fuoco ma non è così perché l'equilibrio di questo monologo é pressoché perfetto. Certo qualcuno lo troverà fastidioso, respingente e violento in alcuni passaggi (per alcuni anche solo scrivere e riflettere sull'Olocauso non aderendo ai soliti canoni è un affronto imperdonabile) ma è un romanzo che brilla di sensibilità, delicatezza e che non cede alla autocensura senza per questo mai scadere nella provocazione fine a se stessa.
 
"Un cazzo ebreo" scava con coraggio dentro ciascuno di noi, dentro a una memoria impossibile da condividere ma sempre presente, dentro ai nostri luoghi oscuri, dentro alk nostro bisogno di perdonare e essere perdonati e di fare i conti finalmente col nostro corpo, la nostra voce, la nostra eterna sete di violenza e di amore.
 
 
(Piccola nota personale: conoscevo una ragazza che voleva scopare solo con ragazzi circoncisi. Se non eri circonciso niente scopata)
 

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