"Venus Drive" di Sam Lipsyte (Minimum Fax, traduzione di Anna Mioni)


 
 
"Ora il bambino era seduto da solo a un tavolino argentato.
"Ehi, campione", disse Gary. "Cosa c'è che non va?"
"I compiti", disse Vernon, "Quei compiti del cazzo. Non ho voglia di farli adesso".
"So come ti senti, ci sono passato anch'io", disse Gary.
"Certo", disse Vernon.
"No, sul serio", disse Gary.
"Scommetto che non saresti nemmeno capace di farli, i miei compiti".
"La questione non è se sono capace di fare i tuoi compiti. È una questione di sensazioni".
"Che cazzata. Guardati. Non sei nemmeno un vero professore. Cosa ti è successo? Scommetto che hai più di vent'anni".
"Ne ho trentuno".
"Ecco", disse Vernon. "Se alla tua età assomiglio a te mi ammazzo. Che ne dici?"
"Dico che potresti risparmiarti la fatica e farlo adesso", disse Gary. "Ero a una riunione dei professiori e hanno fatto il tuo nome. È venuto fuori che dopotutto non sei chissà quale genio".
"Bugiardo", disse Vernon, ma gli tremava la voce e nel giro di un attimo si mise a piangere. Gary tornò al suo libro. Si sentiva un bastardo ma nutriva la speranza segreta che quel momento sarebbe stato solo una cicatrice di lieve entità per il genio. Un giorno Vernon avrebbe ritirato un premio in qualche istituto e l'insicurezza sarebbe riaffiorata con le fattezze di Gary, maliziose." (dal racconto "Il gioco più bello del mondo, pag. 84)

Non è la prima volta che rileggo i racconti di "Venus Drive" di Sam Lipsyte (Minimum Fax, traduzione di Anna Mioni) eppure ogni volta sento sempre una scossa nel cervello, come se fosse la prima volta che incontrassi questa galleria di tossici che aiutano le vecchiette nei piccoli lavoretti domestici e mescolano le ceneri della madre alla morfina, di cantanti punk che dopo un breve successo sono tornati alla loro vita del cazzo, di anime invecchiate impegnate in un tour nei peep-show di Time Square , di pere di cocaina, di ragazzine che  pattinando finiscono dentro a un obitorio, di improbabili rivoluzionari molto radical chic imbevuti del sogno di Trotski/Bronstein, di bambini bullizzati al campeggio estivo, di call center dove perdere ogni speranza di riscatto.

Finisco sempre per rimanere imbrigliato dal realismo sporco di questi racconti, da questa lingua che procede senza limiti e briglie, da questo umorismo nero mischiato a tonnellate di dolore ficcato dentro alla carne, al cuore, al respiro, alle vene.

Finisco sempre per sentirmi come nel racconto "Il gioco più bello del mondo".

Poi magari vorreste chiedermi: Ma leggi sempre robe tristi? 

Vi risponderei che in questi tredici micidiali racconti c'è tanta di quella bellezza da star male.

"Qualche giorno si fa viva davvero. Gary è lì che rovista in cerca di una vena. Le vene sono sempre di fianco a dove credi che siano. Devi scavare a fondo. Lavorarci molto, scavare a fondo. Il sangue gli si secca in curve frastagliate intorno al braccio e al polso. Il taglio di Scutt. 
Lorraine lascia un lungo messaggio che finisce con molti numeri. Lui la richiamerà, le dirà che deve partire per un po', rimettersi in sesto, ma la sua speranza più santa è che lei lo aspetti. C'è qualcosa di speciale tra di loro. Non si vede facilmente, ma c'è. Lo dimostra il fatto che non si vede tanto bene.
Ora il pubblico è in tripudio.
Gli olandesi baciano il campo." (dal racconto "Il gioco più bello", pag. 88)

 

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